Mi sono convinto che nel lungo e travagliato processo di “normalizzazione” del nostro Paese la neutralizzazione delle misure di prevenzione patrimoniali abbia oggi lo stesso ruolo che ebbe vent’anni fa la depenalizzazione del falso in bilancio (Governo Berlusconi, naturalmente).
Convinzione maturata anche grazie all’audizione in Commissione parlamentare antimafia del perito elettronico più dirompente della storia italiana: Antonio Di Pietro.
Di Pietro è stato sentito giovedì (suggerisco agli amanti del genere di recuperare il video integrale della sua audizione sul sito della Camera) nell’ambito della inchiesta voluta dalla Colosimo (“presidente-nonostante”) sulla strage di Via D’Amelio. Una audizione a tratti drammatica (“Questa per me è l’ultima occasione per riversare in una sede pubblica quanto so di quella stagione” ha dichiarato tra l’altro Di Pietro, evidentemente emozionato) nella quale Di Pietro ha bombardato ulteriormente la tesi “Trizzino-Mori” sulla causale della strage di Via D’Amelio che sarebbe da rintracciarsi nel dossier “Mafia-appalti”: “Non l’ho mai letto e nessuno me ne ha parlato”; “(pur) Avendo io molti informali contatti sia con Falcone che con Borsellino”; “Errore madornale pensare che le indagini sui rapporti tra imprenditori, politica e mafia siano cominciati con quel dossier: tante Procure stavano già lavorando da anni”; “Quando abbiamo iniziato a coordinarci tra Milano e Palermo, grazie agli eccellenti rapporti tra Caselli e Borrelli, non abbiamo dovuto imboccare Palermo sulla pista appalti: erano avanti, ci stavano già lavorando”… soltanto per riprendere alcuni dei tanti, eloquenti, passaggi.
Una audizione nella quale poi Di Pietro, ripercorrendo il modus operandidell’inchiesta Mani Pulite, ha sottolineato la centralità strategica che ebbe la decisione di contestare agli imprenditori il reato di falso in bilancio, nella convinzione che non potesse esserci sistema corruttivo-tangentizio senza la creazione di “riserve-nere” di denaro che consentissero una tale operatività. Ma le riserve nere si fanno col falso in bilancio (salmo riproposto nel 2013 dalla sentenza di condanna definitiva a carico di Berlusconi). Per Di Pietro fu lo stesso Falcone, che conosceva tutto dell’inchiesta milanese poiché dal suo tavolo al Ministero passarono le prime rogatorie internazionali, ad insistere perché Di Pietro seguisse la “pista dei soldi”, tralasciando almeno in un primo momento ipotesi associative. Il resto è storia nota.
Vale forse soltanto la pena soffermarsi ancora su una suggestione provocatami dalla audizione di Di Pietro. Nella primavera del 1994 Di Pietro si dimise dalla magistratura essendo stato informato dell’esistenza di un dossier diffamatorio messo a punto da mani esperte interne agli apparati di sicurezza dello Stato, pronto a detonare col rischio di travolgere sia Di Pietro che l’inchiesta, ebbene quello era lo stesso periodo nel quale altre mani esperte interne ai medesimi apparati dello Stato, vestivano il balordo della Guadagna con i panni dello stragista.
Dieci anni dopo l’esplosione di Tangentopoli, il clima era profondamente cambiato in Italia, al governo stava ormai saldamento Berlusconi il quale non perse l’occasione di affondare proprio l’odiato reato di falso in bilancio che venne depenalizzato nel 2002 (il gusto per le ricorrenze!).
Ora, assumendo la tesi proposta da Di Pietro che Tangentopoli e Mafiopoli fossero due facce della stessa medaglia, mi chiedo: se tanto è stato fatto per “normalizzare” Tangentopoli, quanto si deve ancora fare per “normalizzare Mafiopoli”? I mafiosi stragisti o sono morti o sono in carcere rassegnati a restarvi ed oggi, per sopravvissuti e nuove leve, lo spauracchio più grande che ancora resiste è l’aggressione ai capitali di origine illecita attraverso le misure di prevenzione patrimoniali. Ci sono infatti montagne di soldi sporchi di traffici illeciti che girano nel grande casinò della finanza globale, dove i soldi generano soldi, e tecnologie avanzatissime (quelle delle quali continua a parlare Nicola Gratteri) con le quali spostare e ripulire il denaro letteralmente alla velocità della luce. Individuare queste “montagne di fiches”, sequestrarle, a certe condizioni (!), chiedendo al “proposto” l’eventuale prova della loro lecita provenienza, in assenza della quale procedere alla loro definitiva confisca, è oggi il modo più avanzato per contrastare tanto l’espansività delle mafie transnazionali quanto quella delle organizzazioni terroristiche.
Eppure da qualche anno a questa parte un fronte ampio e trasversale di soggetti ben attrezzati ha dichiarato guerra alle misure di prevenzione patrimoniali, attuando una tattica per nulla sofisticata: buttare via il bambino con l’acqua sporca (che indubbiamente c’è). Next-stop la sentenza della Cedu sul caso Cavallotti, che stiamo aspettando con la curiosità di leggere come lo Stato italiano avrà rappresentato le ragioni delle misure di prevenzione in questa contesa. A tutela del prezioso “bambino” invece varrebbe la pena riscoprire le sue ragioni originarie ed attualissime, anche ripercorrendo il lavoro fatto in Commissione parlamentare antimafia tra il ’72 ed il ’76 da due giganti come Cesare Terranova e Pio La Torre (c’è un bel libro che aiuterebbe, uscito da poco per i tipi di Mesogea: Cesare Terranova, giudice onorevole, lo ha scritto un giovane filosofo-archivista nato nell’anno delle stragi in continente, che si chiama Luca Gulisano).
In conclusione, l’assalto alle misure di prevenzione patrimoniali non è estraneo alla partita che si sta giocando in Commissione Antimafia sulla strage di Via D’Amelio: in ballo c’è il medesimo tentativo di “pacificazione normalizzatrice” (equivalente a quello consumatosi su Tangentopoli) e sullo sfondo c’è un unico, enorme, “elefante rosa” (la Colosimo poi non si lamenti: l’abbiamo più volte allertata!). Quello descritto, guarda il caso, in una seria e documentata proposta di sequestro di prevenzione avanzata recentemente dalla Procura di Palermo contro Marcello Dell’Utri e sorprendentemente rigettata dal Tribunale. D’altra parte, come ha ricordato qualche giorno fa l’ineffabile vice presidente forzista della Com. Antimafia, Mauro D’Attis, chi più di Berlusconi ha combattuto la mafia?