22.7.2012 – Come può una balla reggere tre gradi di giudizio? Il caso Scarantino

 

Versioni concordate, verbali annotati, ritrattazioni continue, fughe e una montagna di bugie. Sullo sfondo un falso pentito e una strage. Quella che ha cambiato la storia italiana degli ultimi vent’anni, quella di via D’Amelio, in cui hanno perso la vita il magistrato Paolo Borsellino, gli agenti della scorta Emanuela Loi, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano, Claudio Traina e dove riuscì a salvarsi, per miracolo, l’agente Antonino Vullo.

Una storia quella della strage Borsellino scritta da Vincenzo Scarantino, delinquente di bassissimo lignaggio criminale, che si rivelerà essere poi falsa, ma che reggerà tre gradi di giudizio portando alla condanna di undici persone, di cui sette all’ergastolo, nell’ambito dei processi Borsellino e Borsellino-bis. I sette ergastolani sono stati rilasciati l’ottobre scorso su richiesta del procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato in seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, e dopo che i pm di Caltanissetta coordinati dal procuratore Sergio Lari avevano depositato, a fine settembre, una memoria di mille pagine che riscrive per intero la strage di via d’Amelio. Spatuzza porta gli inquirenti sul posto preciso della 126 parcheggiata in via d’Amelio. Zona che Scarantino non fu mai in grado di individuare.

Come è possibile che la versione di un pentito come Scarantino, balordo del quartiere della Guadagna di Palermo, abbia retto fino in Cassazione con l’avallo di investigatori, pubblici ministeri e giudici? Mai nessuno manifestò dubbi su questa figura che dall’inizio della sua collaborazione cambiò versione del suo racconto almeno quattro volte in dieci anni? Ebbene qualche dubbioso ci fu, ma non fu ascoltato, alcune volte tacciato addirittura di fare il gioco della mafia o di voler distruggere, in una sorta di tiro al bersaglio, l’immagine della magistratura.

Le prime indagini sulla strage di via d’Amelio vennero lasciate in balia della Polizia, in particolare, ad Arnaldo La Barbera, superpoliziotto di cui la procura di Caltanissetta aveva stima e fiducia. Purtroppo la sua versione non si saprà mai. Morirà stroncato da un tumore nel 2002, periodo in cui la storia di questa strage era ancora quella di Scarantino. Oggi sono tre giovani collaboratori di La Barbera finiti sotto la lente d’ingrandimento della procura nissena Mario Bo, Salvatore La Barbera, Vincenzo Ricciardi. All’epoca poco più che ragazzi appena usciti dalla scuola di polizia.

Vincenzo Scarantino è un pentito plasmato, fabbricato: un picciotto della Guadagna, semianalfabeta e facente parte della piccola manovalanza mafiosa, la cui appartenenza a Cosa Nostra mai è stata provata, che si autoaccusa del furto della Fiat 126 sulla quale sarebbe stato piazzato il tritolo che ha stroncato Borsellino e la sua scorta. Scarantino, ovviamente smentito da Bo, Salvatore La Barbera e Ricciardi riferisce di aver subito pressioni e violenze fisiche nel carcere di Pianosa per fornire la versione concordata con gli investigatori i quali, sempre parole dello Scarantino, veniva “preparato” per poi riferire ai magistrati. A dare credibilità alla pista è il fatto che lo stesso pentito sia cognato di Salvatore Profeta, uomo di Pietro Aglieri.

Minacce quelle della polizia che sarebbero arrivate anche a Salvatore Candura e Francesco Andriotta, altri pentiti artefici della falsa pista su via d’Amelio che accusano delle pressioni lo stesso La Barbera.

C’è un precisa cronologia tra coloro i quali esprimono seri dubbi sulla bugia Scarantino, ritenuta verità fino al 2008. È il gennaio del 1995, Scarantino viene messo a confronto con tre boss chiamati in causa dallo stesso pentito, secondo cui avrebbero partecipato a un summit per l’eliminazione di Paolo Borsellino. I tre lo smentiscono e sostengono che lo Scarantino sia personaggio «totalmente estraneo a Cosa Nostra». Il verbale d’esordio dello Scarantino era stato firmato il 24 giugno del 1994, sei mesi prima, e risulta già pieno di annotazioni a margine da parte del poliziotto incaricato della sua tutela, il quale dirà però di aver scritto sotto richiesta dello stesso pentito che aveva difficoltà a leggere i verbali.

Una pista, quella Scarantino, imboccata senza riserve dagli investigatori di La Barbera che però non convincono i magistrati Boccassini e Saieva, che pure per per il superpoliziotto nutrivano grande stima e a cui davano grande credibilità e autonomia. I due già nel 1994 firmarono una nota in cui rilevavano l’inattendibilità dello Scarantino, dato che a un mese dal primo verbale ritrattò la dinamica del furto della 126. Sul tema l’attuale procura di Caltanissetta sente Ilda Boccassini, che pur cautamente dice, «non condividevo l’impostazione degli interrogatori e la relativa gestione dei collaboratori di giustizia».

Ma quella nota rimase lettera morta e la “fabbrica” del pentito proseguì fino a sentenza definitiva in cassazione. Per il pubblico ministero Palma le ritrattazioni di Scarantino erano «opera della mafia», la Corte del Borsellino-bis, ritenne Scarantino «incapace di mentire credibilmente», e per il pm che condusse la requisitoria nel processo Borsellino-Bis, Di Matteo, oggi a Palermo e principale protagonista dell’inchiesta sulla cosiddetta ‘trattativa’ «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni… L’avvicinamento dei collaboratori per costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nella strategia di Cosa nostra… Lo sparare a zero sui pubblici ministeri, l’accusarsi di precostituirsi arbitrariamente le prove a carico dei loro indagati, è diventato una sorta di sport nazionale praticato non tanto dai pentiti, ma da molti di coloro che hanno lo scopo di fare esplodere il sistema giudiziario».

Eppure dalla carte saltano all’occhio, oltre alle infinite versioni di Vincenzo Scarantino, anche quei verbali annotati e infarciti di segnalibri prodotti nel corso di una udienza da parte della difesa. Quei verbali, che attesterebbero i ‘suggerimenti’ dati a Scarantino dagli inquirenti non sono una novità scoperta dalle ultime inchieste con un ritardo di almeno quattordici anni.

Il 17 febbraio 1999 il senatore Pietro Milio fece una interrogazione parlamentare indirizzata al ministero di Grazia e Giustizia e al Ministero dell’Interno in cui rilevava «che in una delle ultime udienze dibattimentali la difesa dello Scarantino ha prodotto alcuni verbali di interrogatorio resi precedentemente dal predetto Scarantino all’ufficio di procura di Caltanissetta infarciti di “segnalibri” ed annotazioni con indicate circostanze, nomi e fatti diversi da quelli dallo stesso già narrati e poi, nei successivi suoi interrogatori, “adeguati” opportunamente, nonchè un promemoria manoscritto a carattere stampatello concernente circostanze relative a persone e cose composto di due facciate e mezzo di foglio protocollo».

Milio nella stessa interrogazione specifica «tenuto conto che, ormai, è un dato acquisito e divulgato che molti dei cosiddetti collaboratori di giustizia si incontrano tra loro anche per concordare accuse e dichiarazioni e che, nella specie, lo Scarantino ha financo prodotto atti e documenti non firmati e da lui acquisiti durante il periodo in cui è stato sottoposto a regime di rigorosa protezione, si chiede di sapere se non si ritenga di dover disporre una seria indagine ispettiva al fine di accertare quante e quali persone e con quali funzioni abbiano tutelato, incontrato, interrogato o, comunque, con lui avuto contatti e per quali ragioni, anche al fine di accertare come lo Scarantino abbia potuto disporre – e chi gliela abbia data – della copia degli interrogatori, quasi tutti annotati, mentre la difesa degli imputati ha avuto, a suo tempo, rilasciate soltanto copie parziali, e quali provvedimenti si intenda adottare ove venissero rilevate condotte illecite».

Correva l’anno 1999. Eppure chiunque su via d’Amelio espresse pareri non in linea con quanto costruito a base di quei tre processi, che probabilmente rappresentano il più grande fallimento giudiziario della storia recente, andò incontro, come li definisce lo storico Alfio Caruso “considerevoli grattacapi”. Oggi qualcuno dovrà rendere conto di quei segnali ignorati, dalle riserve di Ilda Boccassini del 1994, ignorate dall’allora procuratore Tinebra, che fece poi carriera presso il Dap, diventando poi procuratore generale a Catania, alle considerazioni dell’onorevole Milio all’interno di questa attualissima interrogazione parlamentare presentata 13 anni fa.

Indicazioni e rilievi respinti con sdegno all’epoca in una eterna guerra tra procure, politica e stampa, a cui solo i nuovi elementi raccolti dalla procura di Caltanissetta coordinata da Sergio Lari danno il peso che meritano. Venti anni dopo.