COMO 15.9.1998 – Scarantino ritratta: ‘Su Borsellino ho mentito’. 

 

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Como, 15 settembre 1998, processo bis per Via D’Amelio. Vincenzo Scarantino, nel corso di un confronto con il fratello Rosario, ammette di non essere a conoscenza dei fatti del processo, aggiungendo di aver subito minacce e vessazioni in carcere.


«Su via D’Amelio inventai tutto »

 

Como, il principale teste d’accusa: di quella strage non so nulla, bugie costruite assieme alla polizia «Su via D’Amelio inventai tutto. Aveva paura e volevo uscire di cella”

«Tutte bugie, signor presidente. Ho inventato tutto assieme alla polizia. L’unica cosa di vero che c’è è la droga. Io sono all’altezza di far arrestare mezza Palermo coinvolta nel traffico della droga, ma della strage di via D’Amelio non so nulla.
Non ho mai saputo nulla, mi sono inventato tutto perché avevo paura e per uscire dal carcere».
Pesante come un macigno, arriva l’ultima «verità» di Vincenzo Scarantino, il «picciotto» della borgata della Guadagna (Palermo) che con le sue «rivelazioni» ha contribuito alle dure condanne comminate nel processo sugli esecutori materiali della strage del 19 luglio del 1992.
Ieri, testimoniando al dibattimento che vede alla sbarra i cosiddetti mandanti, Scarantino ha cercato di dare uno scossone distruttivo all’impianto accusatorio.
Anzi, è andato anche oltre accusando di comportamenti più che discutibili poliziotti del calibro del questore Arnaldo La Barbera (oggi questore di Napoli) e magistrati come Carmelo Petralia, Ilda Boccassini e gli stessi pubblici ministeri odierni Antonio Di Matteo e Anna Maria Palma.
E tuttavia non una verità «limpida» quest’ultima, dal momento che risulterebbero manovre esterne e pressioni sul collaboratore, mediate da un professionista, forse un avvocato.
Anche promesse di soldi: c’è il «balletto» di un prestito familiare che Scarantino quantifica in due milioni e mezzo «per spegnare alcuni oggetti d’oro», e i pubblici ministeri in ben quaranta milioni.
Al di là, tuttavia, della diatriba sulle pressioni – attribuibili, in verità più ad agenti esterni al processo che ad imputati già in passato aiutati dalla «intrinseca inattendibilità di Scarantino» – ha fatto una certa impressione la lunga ed instabile confessione del « pentito».
Turba la violenza delle accuse lanciate contro il gruppo di investigatori e contro i magistrati di Caltanissetta.
Scarantino ha fatto una minuziosa ricostruzione del percorso che lo ha portato ad un pentimento, secondo lui, quasi obbligato.
Dice di essere stato sottoposto, dopo l’arresto, a vere e proprie torture fisiche e psicologiche.
Paragona il trattamento carcerario subito a quello del film «Fuga di mezzanotte»: vermi sul cibo, urina nella minestra «che sembrava salata», «il dentista mi disinfettava con cotone usato tanto che mi hanno trovato l’epatite virale». E poi le minacce, anche – a suo dire da parte dei magistrati: «non uscirai mai dal carcere», «perderai tua moglie e i tuoi figli».
Tutto per indurlo non ad un generico pentimento ma, questa la parte più inquietante della ritrattazione, per sorreggere una verità precostituita messa insieme dagh” investigatori.
Dice Scarantino che i riconoscimenti delle foto degli imputati sono avvenuti su indicazioni dei poliziotti. Aggiunge che qualche imprecisione della sua improvvisata confessione è stata «aggiustata» in corso d’opera: «A casa mia e poi alla scuola di polizia». «Ogni volta che dicevo di voler tornare alla verità – denuncia – e cioè al fatto che ero innocente, arrivavano le minacce». In sostanza, non una delle persone accusate sarebbe colpevole.
«Non conosco Scotto, non ho mai visto i Graviano.
Carlo Greco lo vedevo perché stava nella mia borgata ma non ci ho avuto mai rapporti. Pietro Aglieri quando lo salutavo si voltava la faccia». E allora, perché li ha tirati in ballo?
«Per fare numero, trenta imputati sono meglio di venti. Uno l’ho accusato perché suo cognato non mi aveva voluto rifornire di sigarette di contrabbando». Con una nonchalance impressionante, Scarantino dà di sé l’immagine di una macchina nelle mani dell’apparato investigativo.
Al pubblico ministero Ilda Boccassini, che indagò sulle stragi di Palermo, attribuisce il suggerimento su una sigla che avrebbe poi consentito l’individuazione della bombola che fece esplodere l’utilitaria in via D’Amelio. 
Agli avvocati Scarantino ha risposto quasi con trasporto, tradendo il suo obiettivo, inizialmente svelato con la decisione di fare a meno del paravento da pentito, che è quello di una sostanziale disponibilità a tornare in qualche modo nei ranghi mafiosi. A riprova della sua «aspirazione», la quasi consequenziale richiesta di essere riammesso in carcere, coi detenuti comuni. Ma coi pm in aula è stato aggressivo, fino a cercare di metterli a disagio accusandoli di averlo indotto a mentire.
Poi, rivolto al presidente, ha aggiunto: «Questi stasera mi faranno ammazzare».
Alla fine ha sostenuto di avere le prove che la polizia lo metteva in condizione di «preparare» le deposizioni e di risultare infallibile nei riconoscimenti.
Dice di aver in casa le copie degli album fotografici, datigli dagli investigatori perché imparasse a memoria i volti delle persone da accusare.
La Corte ha respinto l’istanza dei difensori di una immediata perquisizione a casa di Scarantino, come pure l’istanza di scarcerazione per alcuni imputati detenuti sulla base delle sue dichiarazioni.
Francesco La Licata «Sono stato sottoposto a torture fìsiche e psicologiche» «Non conosco le persone che ho fatto condannare all’ergastolo» Vincenzo Scarantino, «picciotto» della borgata della Guadagna (Palermo) 


 Scarantino ritratta: ‘Su Borsellino ho mentito’. 

 

Crolla e ritratta Vincenzo Scarantino, il pentito chiave del processo per la strage di via D’Amelio. E con lui rischia di crollare l’intero impianto accusatorio messo in piedi dalla procura di Caltanissetta. Davanti ai giudici del processo bis, che si sta svolgendo a Como, Scarantino oggi si è rimangiato tutto.
“Io dell’omicidio di Borsellino sono innocente”, ha detto l’uomo che si era accusato di aver procurato la Fiat 126 poi imbottita di tritolo che é costata la vita al giudice antimafia e ai cinque uomini della scorta.
Grazie alle dichiarazioni di Scarantino, nella prima tranche del processo erano stati condannati all’ergastolo Pietro Scotto, Giuseppe Orofino e Salvatore Profeta.
A lui stesso erano stati inflitti diciotto anni di carcere.
Immediata la replica del pubblico ministero che ha chiesto – insieme ai difensori degli imputati – che Scarantino fosse sentito non più come imputato ma come testimone: con l’obbligo quindi di dire la verità, pena l’incriminazione per falsa testimonianza. 
Ma l’accusa é andata oltre, paventando l’ipotesi di atti intimidatori ai danni del collaboratore di giustizia.
“Chiediamo – ha detto il pubblico ministero Antonio Di Matteo – l’esame di funzionari di polizia su quanto accertato in relazione a tentativi di arrivare a convincere Vincenzo Scarantino a ritrattare.
Mi riferisco in particolare a movimenti di denaro sino a qualche giorno fa”. Scarantino ha poi spiegato l’ennesima versione del suo pentimento.
Lo ha fatto platealmente, chiedendo agli agenti che lo circondavano di farsi da parte, perché le telecamere potessero riprenderlo.
Forti pressioni degli inquirenti mentre era in carcere, ha detto: “A Pianosa ho passato quaranta giorni indimenticabili. Scrivevo sui muri del bagno che se io facevo il bugiardo era perché mi volevano ammazzare”. Prigionia dura, denuncia Scarantino, “cibo scarso e con i vermi”, con un’unica via d’uscita: parlare. E allora Scarantino decide di collaborare, raccontando ciò che sapeva sul traffico di droga a Palermo.
“Ma il dottor La Barbera (al tempo dei fatti capo del gruppo antistragi, ndr) disse che gli interessavano solo gli omicidi”, ha detto oggi Scarantino. Aggiungendo: “La Barbera mi disse che mi sarei fatto solo qualche mese di galera e che mi avrebbe dato duecento milioni. Ma a me non interessavano i piccioli”.
Un altro clamoroso dietro front, quindi. L’ultimo della lunga serie di colpi di scena che hanno accompagnato la storia di questo strano pentito. Anomalo perché prima dell’arresto di lui, anche in ambienti investigativi, si sapeva poco quanto niente. Un delinquente di quartiere, secondo alcuni nemmeno un mafioso.
Viveva alla Guadagna, la zona controllata da Pietro Aglieri, con la moglie Rosaria Basile e tre figli. Ma rispondeva gli ordini del cognato, Salvatore Profeta, della cosca di Santa Maria di Gesú. Poi l’arresto e subito dopo – il 24 giugno del ’94 – le prime dichiarazioni. Che consentono di ricostruire la dinamica della strage di via D’Amelio e di risalire ai responsabili. Scarantino accusa, e si autoaccusa. Passa più di un anno, ma il 10 ottobre 1995 Rosalia Basile, la moglie, esce allo scoperto. Dice che il marito mente, che le sue dichiarazioni sono state estorte “a forza di botte e minacce” dai magistrati di Caltanissetta. Abbandona il marito, che viveva con lei sotto protezione, e con i figli torna alla Guadagna.
Ma su Scarantino in quei giorni sparano tutti. Gli avvocati degli imputati cercano di dimostrare che lui non può essere pentito di mafia perché uomo d’onore non é stato mai.
Chiamano in ballo due transessuali, che affermano di avere avuto rapporti con lui. Cosa che, secondo il codice d’onore di Cosa nostra, impedirebbe di entrare nell’organizzazione. Ma anche i boss pentiti dicono di non conoscerlo, lo fanno Cancemi, La Barbera e Di Matteo. Le sue dichiarazioni però reggono.
I riscontri ci sono. Lui ribadisce di essere un “leale collaboratore di giustizia”. E le condanne al primo “processo Borsellino” arrivano. Scarantino continua a parlare e fa altri nomi. Quelli di Giovanni Brusca e Raffaele Ganci, cha danno il via alla nuova inchiesta. “Non ho fatto prima i loro nomi per paura”, dice. Anche la moglie torna sui suoi passi e l’8 marzo 1997 si riconcilia col marito, rinunciando al divorzio. Il pentito Scarantino guadagna credibilità , diventa sempre più il pilastro su cui si regge l’intero processo. Un pilastro che si credeva stabile. Fino a oggi.  (La Repubblica 15 settembre 1998)


COMO – SCARANTINO RITRATTA: “SU BORSELLINO HO MENTITO” 

Davanti ai giudici del processo  che si sta svolgendo a Como, Scarantino si è rimangiato tutto. Crolla e ritratta Vincenzo Scarantino, il pentito chiave del processo per la strage di via D’Amelio. E con lui rischia di crollare l’intero impianto accusatorio messo in piedi dalla procura di Caltanissetta. Davanti ai giudici del processo bis, che si sta svolgendo a Como, Scarantino oggi si è rimangiato tutto. “Io dell’omicidio di Borsellino sono innocente”, ha detto l’uomo che si era accusato di aver procurato la Fiat 126 poi imbottita di tritolo che è costata la vita al giudice antimafia e ai cinque uomini della scorta. Grazie alle dichiarazioni di Scarantino, nella prima tranche del processo erano stati condannati all’ergastolo Pietro Scotto, Giuseppe Orofino e Salvatore Profeta. A lui stesso erano stati inflitti diciotto anni di carcere. Immediata la replica del pubblico ministero. Che ha chiesto – insieme ai difensori degli imputati – che Scarantino fosse sentito non più come imputato ma come testimone: con l’obbligo quindi di dire la verità, pena l’incriminazione per falsa testimonianza. Ma l’accusa è andata oltre, paventando l’ipotesi di atti intimidatori ai danni del collaboratore di giustizia. “Chiediamo – ha detto il pubblico ministero Antonio Di Matteo – l’esame di funzionari di polizia su quanto accertato in relazione a tentativi di arrivare a convincere Vincenzo Scarantino a ritrattare. Mi riferisco in particolare a movimenti di denaro sino a qualche giorno fa”. Scarantino ha poi spiegato l’ennesima versione del suo pentimento. Lo ha fatto platealmente, chiedendo agli agenti che lo circondavano di farsi da parte, perché le telecamere potessero riprenderlo. Forti pressioni degli inquirenti mentre era in carcere, ha detto: “A Pianosa ho passato quaranta giorni indimenticabili. Scrivevo sui muri del bagno che se io facevo il bugiardo era perché mi volevano ammazzare”. Prigionia dura, denuncia Scarantino, “cibo scarso e con i vermi”, con un’unica via d’uscita: parlare. E allora Scarantino decide di collaborare, raccontando ciò che sapeva sul traffico di droga a Palermo. “Ma il dottor La Barbera (al tempo dei fatti capo del gruppo antistragi, ndr) disse che gli interessavano solo gli omicidi”, ha detto oggi Scarantino. Aggiungendo: “La Barbera mi disse che mi sarei fatto solo qualche mese di galera e che mi avrebbe dato duecento milioni. Ma a me non interessavano i piccioli”. Un altro clamoroso dietro front, quindi. L’ultimo della lunga serie di colpi di scena che hanno accompagnato la storia di questo strano pentito. Anomalo perché prima dell’arresto di lui, anche in ambienti investigativi, si sapeva poco quanto niente. Un delinquente di quartiere, secondo alcuni nemmeno un mafioso. Viveva alla Guadagna, la zona controllata da Pietro Aglieri, con la moglie Rosaria Basile e tre figli. Ma rispondeva gli ordini del cognato, Salvatore Profeta, della cosca di Santa Maria di Gesù. Poi l’arresto e subito dopo – è il 24 giugno del ’94 – le prime dichiarazioni. Che consentono di ricostruire la dinamica della strage di via D’Amelio e di risalire ai responsabili. Scarantino accusa, e si autoaccusa.Passa più di un anno, ma il 10 ottobre 1995 Rosalia Basile, la moglie, esce allo scoperto. Dice che il marito mente, che le sue dichiarazioni sono state estorte “a forza di botte e minacce” dai magistrati di Caltanissetta. Abbandona il marito, che viveva con lei sotto protezione, e con i figli torna alla Guadagna. Ma su Scarantino in quei giorni sparano tutti. Gli avvocati degli imputati cercano di dimostrare che lui non può essere pentito di mafia perché uomo d’onore non è stato mai. Chiamano in ballo due transessuali, che affermano di avere avuto rapporti con lui. Cosa che, secondo il codice d’onore di Cosa nostra, impedirebbe di entrare nell’organizzazione. Ma anche i boss pentiti dicono di non conoscerlo, lo fanno Cancemi, La Barbera e Di Matteo.Le sue dichiarazioni però reggono. I riscontri ci sono. Lui ribadisce di essere un “leale collaboratore di giustizia”. E le condanne al primo “processo Borsellino” arrivano. Scarantino continua a parlare e fa altri nomi. Quelli di Giovanni Brusca e Raffaele Ganci, cha danno il via alla nuova inchiesta. “Non ho fatto prima i loro nomi per paura”, dice. Anche la moglie torna sui suoi passi e l’8 marzo 1997 si riconcilia col marito, rinunciando al divorzio. Il pentito Scarantino guadagna credibilità, diventa sempre più il pilastro su cui si regge l’intero processo. Un pilastro che si credeva stabile. Fino a oggi.   (15 settembre 1998) LA REPUBBLICA


COMO – Il pentito-chiave ritratta salta il processo Borsellino?  


Il pentito chiave della strage Borsellino, Vincenzo Scarantino, ritratta e accusa. Lo fa a Como dove era stato chiamato per alcuni confronti con altri pentiti di mafia. Ma il programma salta per l’ apparente e improvvisa decisione dell’ ormai ex pentito sulle cui accuse è stato in gran parte costruito l’ impianto accusatorio che ora rischia di essere gravemente compromesso. Tra primo, secondo e terzo processo sulla strage di via D’ Amelio, ci sono oltre 50 imputati. Tre sono stati già condannati all’ ergastolo e lo stesso Scarantino ha avuto inflitta una pena a 18 anni di reclusione. Ma ieri, come aveva provato a fare altre volte, ha ritrattato tutto e dietro questo clamoroso dietro fronte ci sarebbe la regia non tanto occulta di Cosa Nostra. Un professionista, forse un avvocato, avrebbe mediato con Scarantino per indurlo a ritrattare. Il “pentito” avrebbe già ricevuto un “acconto” di 40 milioni ed “assicurazioni” per la moglie ed i suoi due figli. E lui avrebbe accettato, Cosa Nostra gli avrebbe dato più “garanzie” dello Stato e così quando ieri mattina, dopo lo scontro in aula tra Brusca e Di Matteo, è stato chiamato per essere interrogato ha subito esordito: “Ho inventato tutto io assieme alla polizia e ai giornali. L’ unica cosa vera è la droga, perché io lavoravo con la droga. Sono quattro anni che (giudici e inquirenti ndr) mi minacciano, mi levano i figli, ed io ho paura di essere ammazzato dalla Polizia”. Scarantino è un fiume in piena e per sostenere il suo “ravvedimento”, per “pulirsi la coscienza”, fa la cronistoria della sua vicenda. Dice che in carcere gli davano da mangiare pasta con i vermi, brodo con l’ urina, che lo picchiavano selvaggiamente per costringerlo a pentirsi e ad accusare. E chiama in causa gli stessi pubblici ministeri del processo, Anna Palma e Antonino Di Matteo, i capi del gruppo “Falcone-Borsellino”, la squadra di poliziotti guidata prima dall’ attuale questore di Napoli, Arnaldo La Barbera e dal vicequestore Mario Bò. “I magistrati esercitavano pressioni psicologiche ed anche minacce, “aggiustavamo” le dichiarazioni, ma non era vero niente. Io – dice Scarantino – non so nulla della strage di via D’ Amelio, ho accusato persone innocenti ma perché mi ci hanno costretto ed a casa ho anche fotografie degli imputati”. Anche le accuse a Silvio Berlusconi sono false (aveva dichiarato che da Palermo i boss gli inviavano cocaina ndr):”Ho accusato Berlusconi perché lui era contro i pentiti e allora ho fatto quelle dichiarazioni”. Ma dalle domande dei pubblici ministeri emerge chiaramente che qualcuno – per conto di Cosa Nostra – negli ultimi mesi e anche l’ altro ieri, ha avvicinato Scarantino e l’ ha convinto a fare marcia indietro.  La Repubblica 16.9.1998

 


 

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