3 febbraio 2020 Depistaggio Scarantino, l’ex Pm Di Matteo ricorda poco: non sapremo mai chi ha ucciso Borsellino

AUDIO deposizione


Ieri, al processo sul depistaggio che “murò” la verità sull’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta, ha parlato l’ex Pm Nino Di Matteo, attuale membro del Csm (dopo una breve esperienza alla Procura nazionale antimafia, dalla quale fu allontanato per eccesso di interviste).  Di Matteo, che è sempre molto facondo quando parla con i giornalisti, stavolta è stato molto più sobrio. L’interrogatorio doveva aiutare a capire se il famoso pentito Vincenzo Scarantino (quello che con la sua testimonianza falsa deviò le indagini, ottenendo la condanna di alcuni innocenti e soprattutto impedendo agli inquirenti di arrivare alla verità sull’attentato), fosse stato imbeccato, e da chi. Escluso che sia stata la mafia, ad imbeccarlo, si è capito che è stato lo Stato. Ma chi, precisamente? La politica? La polizia? O addirittura un pezzetto della magistratura. La politica, stavolta, è stata esclusa.

Gli indagati per questo depistaggio, che è stato definito recentemente, da un magistrato, il più grave depistaggio della storia della Repubblica, sono tre poliziotti e due magistrati. I due magistrati sono due di quelli che, agli ordini del Procuratore Tinebra, raccolsero e forse guidarono le deposizioni del pentito Scarantino. Di Matteo viene interrogato in quanto anche lui faceva parte di quel pool di magistrati, anche lui credette a Scarantino, e anche quando si capì che Scarantino mentiva, sostenne che probabilmente il suo contro-pentimento era guidato dalla mafia. Diciamo che fece parecchio casino. Tutto ciò avvenne sebbene la Pm Ilda Bocassini aveva messo tutti sull’avviso, spiegando che la credibilità di Scarantino era praticamente zero.

Di Matteo non ha aiutato molto con la sua deposizione. Si è giustificato, sostenendo di non aver saputo niente, fino al 2008 dell’avvertimento della Boccassini (bisogna dire che questi magistrati, quando gli dici di seguire un caso, non lo mollano e si informano di tutto…) e di essersi stupito quando si accorse che Scarantino disponeva del suo numero di telefono (come è emerso da alcune intercettazioni) e di avere saputo poi che glielo aveva dato il Procuratore Tinebra. Tinebra e La Barbera (l’ex capo della squadra mobile e poi alla guida della squadra che indagò sull’omicidio Borsellino) sono le uniche due persone sulle quali Di Matteo ha scaricato qualche responsabilità (per il resto il depistaggio è stato prodotto dal destino, nessun complotto, del resto, si sa che Di Matteo è uno di quei giudici molto ostile all’idea che esistano i complotti…).

Il problema è che Tinebra e la Barbera sono gli unici protagonisti di questa vicenda che non saranno controinterrogati, perché purtroppo sono morti. Poi Di Matteo ha parlato dei suoi sospetti su Contrada (l’ex numero due dei servizi segreti) e sull’ipotesi – già smentita in un altro processo – che Contrada fosse in via D’Amelio pochissimi minuti dopo, o addirittura prima dell’attentato. E che sia stato lui a far sparire l’agenda rossa, la famosa agenda rossa che forse Borsellino aveva con sé e che forse conteneva delle informazioni interessanti. L’ipotesi però – che dimostra che alcuni magistrati in ogni caso non difettano mai di fantasia – non è stata presa in considerazione.

Paolo Comi 4 febbraio 2020  IL RIFORMISTA