Nell’attesa di poter leggere le motivazioni della sentenza del tribunale di Caltanissetta che ha condannato per calunnia due dei poliziotti accusati di aver gestito la finta collaborazione del falso pentito della strage di via D’Amelio, arriva dalla procura della Repubblica nissena una importante novità. Come riportato da una nota agenzia di stampa, da qualche settimana sono riprese le indagini sulla morte di Borsellino, ipotizzandosi che quel filone “mafia-appalti”, come predicato nel vuoto da anni dalla figlia del giudice, sia la vera causa scatenante che portò all’accelerazione della strage.
L’indagine, come è giusto che sia, è avvolta dal più stretto riserbo ma pare che siano stati svolti i primi interrogatori, fra cui spiccherebbe quello a carico del colonnello Giuseppe De Donno, ovvero di colui che allora giovane capitano, condusse l’inchiesta su mafia-appalti con il suo diretto superiore al Ros, l’allora colonnello Mario Mori.
Quell’informativa di reato, per la quale Falcone fu biecamente accusato di conservare le carte nel cassetto, prende corpo da una delega conferita nel 1989 dalla Procura di Palermo ai Ros dei carabinieri e aveva come obiettivo principale quello di accertare “la sussistenza, l’entità e le modalità di condizionamenti mafiosi nel settore degli appalti pubblici nel territorio della provincia di Palermo”. Contestualizzando il tutto a oltre 30 anni fa, l’indagine ha non scarso rilievo in considerazione del fatto che, per la prima volta, si metteva nero su bianco che c’erano dei “condizionamenti” di Cosa nostra negli appalti pubblici. Un triangolo formato da mafia, imprenditori e politica. Dal contesto dell’informativa, si evidenziava “una trama occulta, sostanziata da intrecci, relazioni ed intese, volta al fine di prevaricare norme e regole e, allo stesso tempo, di giungere all’accaparramento del denaro pubblico con un’avidità mai esausta e comune sia ai malfattori mafiosi che agli imprenditori a loro collegati i quali poi, tramite i primi, finiscono per esercitare anch’essi e con gusto il potere mafioso”.
Come dire che, dopo le conferme delle condanne del maxi-processo, si accendeva per la prima volta un faro sugli affari mafiosi che riguardavano direttamente il coinvolgimento tanto della classe politica quanto di quella imprenditoriale. L’esito di quella indagine, nero su bianco, affermava che esisteva “un gruppo di potere fatto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi”.
Che sia questo il filone giusto per il pieno disvelamento della verità in merito alle stragi del 1992 saranno i prossimi anni a stabilirlo, tuttavia che l’interessamento dei giudici Falcone e Borsellino a quel dossier redatto dai carabinieri abbia rappresentato almeno una concausa delle stragi è stato già accertato da tutte le sentenze che in questi anni si sono susseguite, recependo le affermazioni di diversi collaboratori di giustizia.
Giovanni Brusca, ad esempio, ha più volte ribadito come in seno a Cosa nostra sussisteva la forte preoccupazione che Falcone, divenendo Procuratore nazionale antimafia, potesse imprimere un impulso alle investigazioni nel settore inerente alla gestione illecita degli appalti, specificando che di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi e che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato.
Angelo Siino, soprannominato “il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra”, ha a sua volta sostenuto che le cause dell’eliminazione di Falcone andavano cercate nelle indagini promosse dal magistrato nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interesse”. Era infatti noto che in quel periodo si fosse consolidata la consapevolezza da parte dei boss che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti.
D’altronde, aspetto spesso poco evidenziato nelle ricostruzioni giornalistiche, un personaggio di primo piano come Antonino Buscemi, che rappresentava il tipico colletto bianco mafioso e che non a caso era entrato in società con la Calcestruzzi della Ferruzzi Gardini, fu fra coloro che lanciarono l’allarme in conseguenza delle esternazioni di Falcone formulate durante un convegno pubblico proprio su criminalità e appalti. Peraltro, ha riferito sempre il Siino di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora procuratore della Repubblica di Palermo, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto cosiddetto “mafia-appalti” e in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze.
Borsellino, dal canto suo, nel periodo immediatamente successivo alla strage di Capaci, aveva esternato a diverse persone che una pista da seguire era quella degli appalti, come confermato da quanto emerse nel corso delle audizioni al Csm di fine luglio 1992. Cinque giorni prima della strage, Borsellino partecipò infatti a un’assemblea straordinaria indetta dall’allora procuratore capo, Pietro Giammanco; un’assemblea, come dirà il magistrato Vincenza Sabatino, inusuale e mai accaduta prima. In quell’occasione Borsellino avrebbe fatto dei rilievi su come i suoi colleghi, titolari dell’indagine, avrebbero condotto il procedimento. Come dirà inoltre il magistrato Nico Gozzo, si respirava in quella riunione aria di tensione.
Certo, resta alquanto sconcertante che la richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti fu depositata, come riferito dall’avvocato Trizzino, legale della famiglia Borsellino, al processo sul depistaggio Scarantino a carico dei poliziotti, mentre stavano ancora chiudendo la bara del giudice e dei suoi angeli custodi.
Molte ombre sull’operato di uffici giudiziari e apparati dello Stato permangono nella ricostruzione di quella stagione così cruenta e tragica per la storia del nostro Paese oltre che delle famiglie colpite negli affetti più cari. Possiamo solo confidare che dopo così tanto tempo inizi a filtrare qualche raggio di sole e con esso un barlume di verità.