15 settembre 1998 – Scarantino si “pente” nuovamente di essersi “pentito”

 

e annuncia una nuova ritrattazione. La ritrattazione avviene davanti ai giudici della corte d’Assise di Caltanissetta nel corso dell’udienza del processo bis in trasferta a Como. Scarantino compare assieme al fratello Rosario per un confronto e sostiene di essere estraneo alla strage. Per questo motivo sia i difensori degli imputati che i pm chiedono che Scarantino sia interrogato come teste. I pm chiedono anche “l’esame di funzionari di polizia su quanto accertato in relazione a tentativi di arrivare a convincere Vincenzo Scarantino a ritrattare”. “Mi riferisco – dice il pm De Matteo – in particolare a movimenti di denaro sino a qualche giorno fa”.
Che Vincenzo Scarantino avesse intenzione di fare un colpo di scena, lo si sospetta fin dal momento in cui si siede davanti alla corte ed chiede che vengano allontanati gli agenti che gli facevano da paravento e che le telecamere riprendano le sue dichiarazioni.
Scarantino racconta di essere giunto alla decisione di “collaborare” dopo aver subito un violento e duro trattamento in carcere: “A Pianosa ho passato quaranta giorni indimenticabili. Scrivevo sui muri del bagno che se io facevo il bugiardo era perché mi volevano ammazzare”. Poi dice di aver dichiarato di essere pronto a “collaborare” e a rivelare notizie sul traffico di droga a Palermo. E aggiunge: “Ma il dottor La Barbera disse che gli interessavano solo gli omicidi. Io di quello di Borsellino sono innocente”.
Fu il trattamento carcerario (“cibo scarso e con i vermi”) a convincerlo a cambiare atteggiamento. Gli fu quindi detto che avrebbe incontrato l’allora capo del gruppo antistragi Arnaldo La Barbera, il pm Ilda Boccassini e l’avv. Luigi Li Gotti.
“La Barbera – dice ancora Scarantino – mi disse che mi sarei fatto solo qualche mese di galera e che mi avrebbe dato 200 milioni. A me non interessavano i piccioli (soldi, ndr). Poi entrarono la Boccassini e Li Gotti”.
Conclusa la dichiarazione, Scarantino chiede al presidente di essere rimandato in carcere insieme a detenuti comuni.
“Tutte bugie. Ho inventato tutto io, assieme alla polizia e ai giornali. L’unica cosa vera è la droga, che io lavoravo con la droga”. Con queste parole alla ripresa pomeridiana dell’udienza, Vincenzo Scarantino ribadisce la sua ritrattazione. Sostiene di aver raccontato bugie per ottenere un trattamento migliore in carcere, di aver deciso di ritrattare dopo che è passata in giudicato la condanna per il primo

processo sulla strage di via D’Amelio (né il suo legale, né i pm hanno proposto appello e quindi la condanna è definitiva. Ndr).
“Io – aggiunge l’ex “pentito” – con chiunque ho parlato, con i pm, che Dio mi perdoni, ho giurato falsamente. Io di mafia non so niente”. Poi precisa di aver fatto dichiarazioni ai magistrati in base a notizie raccolte da processi o sui giornali o ascoltando tv o Radio Radicale. Accusò alcuni degli imputati per motivi personali, di vendetta. Per questi motivi infatti indicò Santo Di Matteo come colui che aveva riempito di esplosivo l’auto-bomba che uccise Borsellino e Gioachino La Barbera, la cui foto aveva visto in tv, come presente alla riunione organizzativa della strage.
Poi dichiara di aver temuto che qualcuno volesse infettarlo col virus dell’Aids: “Io sono qua per pulirmi la coscienza. So bene che mia moglie e i miei figli saranno gettati in mezzo alla strada”. Infine afferma di non aver mai ricevuto denaro da nessuno per ritrattare.
“Se muoio – avverte Scarantino, rispondendo al controesame del pm Antonio Di Matteo – è per ordini superiori della Squadra Mobile di Napoli o Palermo. Io non ho intenzione di ammazzarmi”. “Io chiedevo soldi, la macchina – ha detto ancora – E mi accontentavano. Io sono una pedina”. Infine Scarantino sostiene di aver “collaborato con la giustizia” dopo essersi arreso alle pressioni psicologiche dei pm. Emerge nel frattempo anche un particolare sconvolgente: nonostante si fosse accusato di quattro omicidi commessi a Palermo, la procura di Gian Carlo Caselli non ha mai creduto al “pentimento” di Vincenzo Scarantino, non ha mai utilizzato le sue dichiarazioni in nessun procedimento di mafia e, conseguentemente, non ha mai chiesto il suo inserimento nel programma di protezione previsto per i collaboratori. Scarantino aveva confessato di avere assassinato, tra gli altri, i “picciotti” Luigi e Santo Lucera, zio e nipote, uccisi nel quartiere Guadagna il 9 marzo del 1990. Poi alzò progressivamente il livello delle sue dichiarazioni chiamando in causa anche lo 007 del Sisde Bruno Contrada e l’on. Silvio Berlusconi. Ma neanche in questi casi la procura di Palermo ritenne di utilizzare le dichiarazioni del “pentito”.
Il 19 ottobre 1998, al processo d’appello per la strage di via D’Amelio, Scarantino torna a ribadire la sua ritrattazione. “Negli ultimi anni – racconta l’ex “pentito” – telefonavo spesso alla dottoressa Palma per informarla che volevo dire la verità, cioè finire di fare il falso pentito, ma lei replicava sempre: ‘Scarantino, stia calmo la finisca di fare così, lo Stato le ha dato la casa, la villetta a mare, l’automobile’”. Scarantino afferma che, per rendersi “più credibile”, accusò soprattutto il cognato Salvatore Profeta (uno dei tre imputati condannati al carcere a vita, ndr): “Ad ognuno degli imputati affibbiavo due accuse per l’attentato di via D’Amelio, così se venivano assolti per la strage rimaneva sempre il reato di omicidio. Io comunque mentivo per fare un piacere ai magistrati, e loro mi hanno fatto dare da un’ispettrice di polizia un libro scritto da Buscetta per imparare come era composta Cosa nostra. Dicevano che ero troppo grezzo come pentito, cioè non conoscevo l’organigramma della mafia. Prima, infatti, parlavo di quartieri della Guadagna, della Noce, e così, via mentre poi appresi che dovevo dire famiglie”.
Scarantino aggiunge che “su altri omicidi so che la procura di Palermo non ha mai creduto a quello che ho raccontato e commentando con i pm del processo

Borsellino dicevo, ‘ma come, per la strage sono credibile, mentre per gli altri delitti no?’ La dottoressa Palma, però, mi rassicurava dicendo che le cose per me si sarebbero aggiustate anche a Palermo”.

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