La strage di Via D’Amelio/2. La costruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino

 

 Per la strage di via D’Amelio sono stati condannati all’ergastolo Salvino Madonia e Vittorio Tutino. 10 anni l’uno invece per i falsi collaboratori di giustizia Francesco Andriotta e Calogero Pulci, suggeritori del più conosciuto Scarantino in questo depistaggio che gli stessi giudici hanno definito “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Per i suggeritori di Stato, che invece avrebbero indottrinato il falso pentito Scarantino ad accusare degli innocenti, ci sarà un nuovo processo. E riguarderà gli uomini del gruppo investigativo Falcone-Borsellino guidato da Arnaldo La Barbera (morto nel 2002): il funzionario Mario Bo e gli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.

In realtà, Scarantino non rubò e non caricò di esplosivo la Fiat 126 usata come autobomba per la strage. Ma sapeva dei particolari precisi sulla rottura del bloccasterzo per il furto della vecchia utilitaria. E sapeva delle targhe false applicate nella carrozzeria di Orofino. Chi lo informo? Come mai la sua credibilità resistette all’altalena di ritrattazioni e “ritrattazioni delle ritrattazioni” emerse perfino nelle cronache nazionali già nel ’95?  

Dalle motivazioni della sentenza Borsellino Quater si legge che “Deve ritenersi che lo Scarantino sia stato determinato a rendere le false dichiarazioni sopra descritte da altri soggetti, i quali hanno fatto sorgere tale proposito criminoso abusando della propria posizione di potere e sfruttando il suo correlativo stato di soggezione”.

 

Dichiarazioni inattendibili, ma che, appunto, contengono alcuni elementi di verità.

In un interrogatorio del giugno 1994, Scarantino ha pure specificato che, essendo stato rotto il bloccasterzo della 126, il contatto veniva stabilito collegando tra loro i fili dell’accensione. E, nelle successive deposizioni, ha aggiunto che nell’autofficina la macchina era stata condotta a spinta. Circostanze assolutamente vere, ma che lui non avrebbe potuto conoscere, non essendo stato mai coinvolto nel furto della 126, così come nelle relative attività di trasporto, custodia e preparazione della macchina utilizzata per la strage.

E’ quindi del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti – scrivono i giudici nella sentenza – i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte.

Una convinzione rafforzata una comunicazione del 13 agosto 1992 da parte del SISDE di Palermo alla direzione dei servizi segreti di Roma, dove era scritto che “In sede di contatti informali con inquirenti impegnati nelle indagini inerenti alle recenti note stragi perpetrate in questo territorio, si è appreso in via ufficiosa che la locale Polizia di Stato avrebbe acquisito significativi elementi informativi in merito all’autobomba parcheggiata in via D’Amelio”.

I significativi elementi che riguardavano l’identità degli autori del furto della Fiat 126, ed il “luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”. 

In che modo la Squadra Mobile di La Barbera fosse venuta a conoscenza di questi elementi, nessuno l’ha mai saputo o voluto rivelare. “Residua allora il dubbio – si legge nelle motivazioni dell’ultima sentenza – che gli inquirenti tanto abbiano creduto a quella fonte, mai resa ostensibile, da avere poi operato una serie di forzature per darle dignità di prova facendo leva sulla permeabilità di un soggetto facilmente ‘suggestionabile’, incapace di resistere alle sollecitazioni, alle pressioni, ricattabile anche solo accentuando il valore degli elementi indiziari emersi a suo carico in ordine alla vicenda di Via D’Amelio o ad altre precedenti vicende delittuose (in particolare alcuni omicidi) con riguardo alle quali egli era al tempo destinatario di meri sospetti”.

Paolo Borsellino aveva chiesto pubblicamente di essere ascoltato. Ma nei 57 giorni che intercorsero tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, nessuno se ne curò. Mentre invece, appena il giorno dopo il 19 luglio del 1992, venne chiesta l’irrituale collaborazione di Contrada.

Il Sisde trasmise infatti alla Squadra Mobile di Caltanissetta una nutrita nota sulle parentele e gli intrecci dello Scarantino con gli ambienti mafiosi della zona della Guadagna di Palermo, dopo che su quest’ultimo si era appena conclusa un’intensa attività investigativa condotta da Arnaldo La Barbera (collaboratore esterno del Sisde dal 1986 al 1988). Fino a quando, il 26 settembre del 1992 Scarantino viene arrestato per concorso nella strage di via D’Amelio.

“Preziose” al riguardo le dichiarazioni di tue tizi, Luciano Valenti e Salvatore Candura, che l’avevano accusato di aver commissionato il furto della Fiat 126. I due, insieme a Roberto Valenti (fratello di Luciano) erano stati arrestati il 2 settembre per rapina e violenza carnale.

Ma già il 12 settembre, Arnaldo La Barbera, autorizzato dal PM del Tribunale di Palermo, aveva un  colloquio investigativo con Luciano Valenti e con il Candura che, il giorno dopo, interrogato dal PM di Caltanissetta,  riferisce che ai primi di luglio del 1992, Luciano valenti gli aveva comunicato che Vincenzo Scarantino gli aveva commissionato “il furto di un’autovettura di piccola cilindrata” da eseguire nella stessa sera “e per compensarlo gli aveva dato la somma di 150.000 lire”

Luciano Valenti viene sentito il 17 settembre, ma nega ogni sua responsabilità. Tre giorni dopo, però, cede alle pressioni del Candura e finisce per confermare anche lui di aver rubato la 126 su incarico di Vincenzo Scarantino.

Quando, il 26 settembre, Scarantino viene arrestato, sostiene la propria innocenza. Ed il 2 ottobre viene trasferito al carcere di Venezia, nella stessa cella di Vincenzo Pipino, un detenuto utilizzato per sollecitare e raccogliere le sue confidenze, con tanto di intercettazione. Ma niente da fare: in pratica parla solo lui. Invece Scarantino non dice mani niente, a parte qualche breve frase, il più delle volte incomprensibile.

La sentenza del processo “Borsellino Uno”, del 1996, ha evidenziato però che il tenore dei colloqui

tradisce all’evidenza che il Pipino è  un confidente della Polizia  che   era stato collocato nella stessa cella dello Scarantino allo scopo di provocarne e raccoglierne le confidenze in merito ai fatti di strage per cui è a processo”.

Intanto, il Candura, interrogato nuovamente il successivo 3 ottobre dal PM di Caltanissetta,  modifica la propria versione dei fatti, dicendo di essere stato lui a rubare, nei primi di luglio, la Fiat 126, su commissione dello Scarantino.  Ma quest’ultimo continua a protestare la propria innocenza. E allora viene trasferito alla casa circondariale di Busto Arsizio. Lì finisce in una cella singola, in completo isolamento, con la possibilità di effettuare un solo colloquio al mese con i familiari. Insomma, uno stato di prostrazione che lo induce perfino a tentare il suicidio, comunicando (in un interrogatorio del 6 maggio 1993) che altri detenuti lo sollecitavano a confessare delitti che lui non aveva commesso.

Il 3 giugno 1993, arrivano i rinforzi. Proprio nella cella di fianco a quella dello Scarantino,  mettono Francesco Andriotta, Che rimane nello stesso reparto fino al successivo 23 agosto ed inizia  la propria collaborazione con l’autorità giudiziaria il 14 settembre. E racconta che, durante il periodo comune di detenzione, Scarantino gli aveva detto di aver commissionato al Candura il furto della 126 poi utilizzata nella strage del 19 luglio. Inoltre, Andriotta riferisce che Scarantino gli aveva pure raccontato che “l’auto non funzionava e che venne trainata fino al garage”, che “venne quindi riparata così da renderla funzionante”, che “furono cambiate le targhe con quelle di un altra 126”, e che “avevano tardato a denunciare il furto dell’auto o delle targhe al lunedì successivo all’esplosione,  giustificando tale ritardo con il fatto che il garage era rimasto chiuso”.

Fu accertato che la 126 presentava problemi meccanici e fu trainata subito dopo il furto. Così come assolutamente vere erano le circostanze relative alla sostituzione delle targhe.

Ma sono cose che Scarantino non avrebbe mai potuto riferirgli per il semplice fatto che non aveva avuto alcun ruolo nella strage.

Deve necessariamente ammettersi una ricezione da parte dell’Andriotta – scrivono i giudici nella motivazione della sentenza Borsellino Quater – di suggerimenti provenienti dagli inquirenti o da altri funzionari infedeli, i quali, a loro volta, avevano tratto le relative informazioni, almeno in parte, da altre fonti rimaste occulte”.

Nei successivi interrogatori, l’Andriotta aggiunge ulteriori confidenze che avrebbe ricevuto da Scarantino. Come, per esempio, di avere appreso dallo che colui che gli aveva commissionato il furto dell’automobile da utilizzare per la strage era Salvatore Profeta (boss palermitano di Santa Maria di Gesù), presente anche mentre la macchina veniva caricata di esplosivo.

Intanto Scarantino viene  trasferito ancora: a Pianosa.

Ed è da lì che, dopo una serie di colloqui avuti con il dottor Mario Bo’ (funzionario di polizia nel gruppo d’indagine “Falcone-Borsellino”) e con lo stesso Arnaldo La Barbera, nonostante avesse protestato la propria innocenza fino all’interrogatorio del febbraio 1994 con la dottoressa Ilda Boccassini, alla fine (dopo l’ultimo colloquio del 24 giugno 1994, con La Barbera), cede e comincia  la propria “collaborazione”. A questo punto non gli rimane altro che confermare le dichiarazioni di Candura ed Andriotta, aggiungendo anche qualcosa in più.

Candura, Andriotta e Scarantino.

C’è un filo rosso che percorre le loro dichiarazioni. False, ma con circostanze oggettivamente vere, “che dovevano essere state suggerite loro dagli inquirenti – scrivono i giudici – o da altri funzionari infedeli, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte”.

Un semplice balordo, Vincenzo Scarantino, indotto (e prima di lui Valenti e Candura) a collaborare con la giustizia attraverso “forzature” ripetute ed evidenti. Inoltre, non avrebbe mai potuto “da solo imbastire – si legge nelle motivazioni della sentenza – una complessa trama, risultata infine coerente al punto da resistere al vaglio di ben tre gradi di giudizio nel corso dei processi Borsellino Uno e Bis”.

Inoltre, già nel 1994, gli appunti di lavoro per la riunione della Direzione Distrettuale Antimafia, disposti dalla Boccassini e da Roberto Saieva, avevano segnalato l’inattendibilità delle dichiarazioni di Scarantino, soprattutto “sulla base del rilievo che fin dal primo interrogatorio egli ha riferito almeno due circostanze assolutamente non credibili: la ricerca di una ‘bombola’ da far esplodere per realizzare l’attentato e la riunione nella villa di Giuseppe Calascibetta (dove si sarebbe decisa la strage, ndr)”.

Ma c’è anche un’altra anomalia altrettanto inquietante.

Alcuni degli appartenenti al gruppo investigativo della Polizia, “Falcone-Borsellino”,  mentre proteggevano lo Scarantino dall’ottobre 1994 al maggio1995, periodo in cui viveva a San Bartolomeo con la sua famiglia, lo aiutavano a studiare i verbali di interrogatorio, “redigendo  una serie di appunti che erano chiaramente finalizzati a rimuovere le contraddizioni presenti nelle dichiarazioni del collaborante, il quale sarebbe stato sottoposto ad esame dibattimentale nei giorni 24 e 25 maggio 1995 nel processo c.d. ‘Borsellino Uno’.

Nel 2013, quando chiesero all’ispettore Fabrizio Mattei (che li aveva riconosciuti come propri) come fossero nati quegli appunti, sostenne di “essersi basato sulle indicazioni dello Scarantino”.

Ma come faceva uno come Scarantino, che doveva essere aiutato perfino a scrivere in modo grammaticalmente corretto, a “rendersi conto da solo delle contraddizioni suscettibili di inficiare la credibilità delle sue dichiarazioni in sede processuale”?

A questo punto, “E’ lecito interrogarsi – scrivono i giudici – sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso”. Riferendosi specificamente al perché la fonte di quegli elementi di verità che Scarantino, ma anche Candura e Andriotta, non potevano sapere, sia rimasta coperta.

E che ne è stato di Giuseppe Calascibetta, il boss di Santa Maria di Gesù nella cui villa – ha raccontato Scarantino – si sarebbe decisa la strage di via D’amelio?

E’ morto nel 2011, ucciso con quattro colpi di pistola. E da chi? Nel novembre del 2017, un rapinatore si è autoaccusato del delitto, ma gli investigatori non hanno trovato riscontri. Una nota dei servizi segreti però lo indica come possibile autore dell’omicidio.

Piccoli misteri che si aggiungono. Ancora una volta, balordi implicati in omicidi di mafia.

Egidio Morici