Brusca: più tardi avremmo potuto chiedere un prezzo. «Antonio Di Pietro .. camminava senza scorta, viaggiava con , la macchina non blindata; stava “nascendo” allora anche se era in piena attività e ancora non c’era la preoccupazione di un attentato contro di lui: era un bersaglio facile, che però avrebbe suscitato un grande scalpore».
Con cinica pacatezza e tono di voce monocorde l’aspirante pentito Giovanni Brusca, u’ verni (il maiale) come veniva chiamato quando guidava con pugno di ferro i suoi picciotti, ha confermato ai giudici di Firenze che esisteva un progetto della mafia per uccidere l’allora pubblico ministero Antonio Di Pietro. «All’origine della decisione – ha precisato Brusca – non c’era un patto con i politici ma volevamo fare loro una cortesia togliendo di mezzo questo personaggio scomodo.
Dopo questo omicidio, che sarebbe stato un bel problema per l’Italia, avremmo seguito gli sviluppi e in seguito avremmo potuto chiedere un prezzo.
Tra l’altro era il momento politico in cui l’altra parte attaccava e voleva che venissero fuori i ladri che si erano mangiati l’Italia».
Questo il racconto, fatto ieri nell’aula bunker di Santa Verdiana, da Giovanni Brusca, durante il processo per gli attentati mafiosi del ’93 a Roma, Firenze e Milano.
Secondo il boss di Cosa Nostra furono gli uomini d’onore catanesi, e in particolare Eugenio Galea, a proporre il progetto di uccidere Di Pietro a quelli palermitani, un progetto approvato da Totò Riina in persona.
Cosa Nostra pensava che uccidendo il magistrato avrebbe centrato due obiettivi: nel Paese si sarebbe creato il panico e la dimostrazione che le azioni criminali non erano esclusivo patrimonio del Sud avrebbe spostato la pressione delle forze dell’ordine dalla Sicilia al Nord Italia; inoltre l’organizzazione mafiosa si sarebbe accreditata verso quei settori politici investiti in pieno dalle indagini del pool milanese di «Mani pulite» su Tangentopoli. Per quanto di sua conoscenza Brusca ha tuttavia escluso che vi fossero accordi preventivi in questo senso.
Un patto violato, sempre secondo la deposizione del boss mafioso, fu invece quello che con Cosa Nostra avrebbe sottoscritto l’onorevole socialista Claudio Martelli, anch’egli entrato nel mirino della mafia in quel periodo per aver «tradito» gli impegni presi. «Martelli venne in Sicilia per fare un patto con la mafia, voleva i nostri voti per il psi – ha raccontato Brusca – e noi glieli abbiamo dati alle elezioni locali e nazionali. Ma ad un certo punto l’ex vicesegretario del psi dette l’impressione di voler fare dietrofront quando, in qualità di ministro della Giustizia, decise di nominare Giovanni Falcone direttore degli Affari penali.
Di questo parlammo con Salvatore Riina – ha ricordato Brusca quel miserabile, quel vigliacco, dicevamo, si è spaventato e si è andato a mettere sotto le ali di Giovanni Falcone per proteggersi dalle accuse di mafia.
Merita di morire». Claudio Martelli avrebbe dovuto essere ucciso nel ’92 a Roma, ma il progetto saltò dopo i controlli delle forze dell’ordine ad alcuni esponenti mafiosi. Al termine della sua dichiarazione Brusca ha anche voluto spiegare cosa lo ha spinto a collaborare con i magistrati, come sta facendo da qualche tempo: «Collaboro con la giustizia per far capire agli italiani che siamo stati giocati dallo Stato che ci ha barattato – ha affermato senza chiarire meglio il concetto – per questo ho deciso di parlare e non certo per i benefici che ne sono derivati come i quattro colloqui mensili di un’ora l’uno con mia moglie e mio figlio».
Torna quindi ad aleggiare sull’aula del processo fiorentino lo spettro dei servizi segreti o di qualche apparato deviato dello Stato che ha tenuto contatti con i massimi esponenti di Cosa Nostra. Quel «tavolo di trattativa» che, secondo Brusca, Totò Riina era riuscito ad ottenere con non meglio identificati rappresentanti dello Stato dopo gli attentati in cui persero la vita i magistrati Falcone e Borsellino. «Ma io non so chi c’era dall’altra parte del tavolo – sostiene Giovanni Brusca Riina non me l’ha mai detto. Non so se si trattasse di magistrati, poliziotti, carabinieri o massoni». Francesco Matteini «Allora non aveva scorta era un bersaglio facile ma avrebbe suscitato un enorme scalpore» Il pentito Giovanni Brusca LA STAMPA 16.1.1998
Con cinica pacatezza e tono di voce monocorde l’aspirante pentito Giovanni Brusca, u’ verni (il maiale) come veniva chiamato quando guidava con pugno di ferro i suoi picciotti, ha confermato ai giudici di Firenze che esisteva un progetto della mafia per uccidere l’allora pubblico ministero Antonio Di Pietro. «All’origine della decisione – ha precisato Brusca – non c’era un patto con i politici ma volevamo fare loro una cortesia togliendo di mezzo questo personaggio scomodo.
Dopo questo omicidio, che sarebbe stato un bel problema per l’Italia, avremmo seguito gli sviluppi e in seguito avremmo potuto chiedere un prezzo.
Tra l’altro era il momento politico in cui l’altra parte attaccava e voleva che venissero fuori i ladri che si erano mangiati l’Italia».
Questo il racconto, fatto ieri nell’aula bunker di Santa Verdiana, da Giovanni Brusca, durante il processo per gli attentati mafiosi del ’93 a Roma, Firenze e Milano.
Secondo il boss di Cosa Nostra furono gli uomini d’onore catanesi, e in particolare Eugenio Galea, a proporre il progetto di uccidere Di Pietro a quelli palermitani, un progetto approvato da Totò Riina in persona.
Cosa Nostra pensava che uccidendo il magistrato avrebbe centrato due obiettivi: nel Paese si sarebbe creato il panico e la dimostrazione che le azioni criminali non erano esclusivo patrimonio del Sud avrebbe spostato la pressione delle forze dell’ordine dalla Sicilia al Nord Italia; inoltre l’organizzazione mafiosa si sarebbe accreditata verso quei settori politici investiti in pieno dalle indagini del pool milanese di «Mani pulite» su Tangentopoli. Per quanto di sua conoscenza Brusca ha tuttavia escluso che vi fossero accordi preventivi in questo senso.
Un patto violato, sempre secondo la deposizione del boss mafioso, fu invece quello che con Cosa Nostra avrebbe sottoscritto l’onorevole socialista Claudio Martelli, anch’egli entrato nel mirino della mafia in quel periodo per aver «tradito» gli impegni presi. «Martelli venne in Sicilia per fare un patto con la mafia, voleva i nostri voti per il psi – ha raccontato Brusca – e noi glieli abbiamo dati alle elezioni locali e nazionali. Ma ad un certo punto l’ex vicesegretario del psi dette l’impressione di voler fare dietrofront quando, in qualità di ministro della Giustizia, decise di nominare Giovanni Falcone direttore degli Affari penali.
Di questo parlammo con Salvatore Riina – ha ricordato Brusca quel miserabile, quel vigliacco, dicevamo, si è spaventato e si è andato a mettere sotto le ali di Giovanni Falcone per proteggersi dalle accuse di mafia.
Merita di morire». Claudio Martelli avrebbe dovuto essere ucciso nel ’92 a Roma, ma il progetto saltò dopo i controlli delle forze dell’ordine ad alcuni esponenti mafiosi. Al termine della sua dichiarazione Brusca ha anche voluto spiegare cosa lo ha spinto a collaborare con i magistrati, come sta facendo da qualche tempo: «Collaboro con la giustizia per far capire agli italiani che siamo stati giocati dallo Stato che ci ha barattato – ha affermato senza chiarire meglio il concetto – per questo ho deciso di parlare e non certo per i benefici che ne sono derivati come i quattro colloqui mensili di un’ora l’uno con mia moglie e mio figlio».
Torna quindi ad aleggiare sull’aula del processo fiorentino lo spettro dei servizi segreti o di qualche apparato deviato dello Stato che ha tenuto contatti con i massimi esponenti di Cosa Nostra. Quel «tavolo di trattativa» che, secondo Brusca, Totò Riina era riuscito ad ottenere con non meglio identificati rappresentanti dello Stato dopo gli attentati in cui persero la vita i magistrati Falcone e Borsellino. «Ma io non so chi c’era dall’altra parte del tavolo – sostiene Giovanni Brusca Riina non me l’ha mai detto. Non so se si trattasse di magistrati, poliziotti, carabinieri o massoni». Francesco Matteini «Allora non aveva scorta era un bersaglio facile ma avrebbe suscitato un enorme scalpore» Il pentito Giovanni Brusca LA STAMPA 16.1.1998