Roberto Galullo SOLE 24 ore 28 luglio 2017
Amati lettori di questo umile e umido blog, continuo ad onorare la memoria del giudice Paolo Borsellino (e dunque anche del suo collega di vita e di morte Giovanni Falcone, unitamente alle loro scorte) con una nuova analisi.
Anche quella odierna (così come quella degli ultimi due giorni) trae spunto dalle dichiarazioni, rese per il venticinquennale della strage di via D’Amelio,da Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, secondo la quale, come ha dichiarato al giornalista del Corriere della Sera Felice Cavallaro, «questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna (Vincenzo Scarantino, ndr) come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…».
La notizia di ieri è che Di Matteo ha chiesto di essere audito dalla Commissione parlamentare antimafia. Verosimilmente in ordine alle dichiarazioni di Fiammetta Borsellino che, ovviamente, l’hanno colpito nel vivo anche con riferimento alla scarsa anzianità di servizio ed esperienza che all’epoca vantava, secondo la figlia del giudice.
Quel riferimento alla massoneria non era casuale abbiamo visto come – nell’indagine “Sistemi criminali” della Procura di Palermo poi archiviata il 21 marzo 2001 – il ruolo della massoneria capitanata da Licio Gelli fosse stato ritenuto fondamentale nel tentativo di stravolgere l’ordine democratico del Paese, far nascere una nuova forma di Stato (anche, se necessario, attraverso la secessione). Un ruolo deviato che si cementava con la strategia stragista dell’ala corleonese di Cosa nostra e (per altri e più raffinati versi) della ‘ndrangheta.
Un ruolo centrale della “massoneria mafiosa di Stato” che è stato avvalorato – come abbiamo visto ieri – anche da alcuni pentiti. Ma non pentiti qualunque.
Oggi vorrei concludere la riflessione traendo spunto da un’altra domanda e un’altra risposta nell’intervista di Felice Cavallaro a Fiammetta Borsellino.
Questa: “Cosa dirà alla commissione presieduta da Rosy Bindi?” «Più che dire consegnerò inconfutabili atti processuali dai quali si evincono le manovre per occultare la verità sulla trama di via D’Amelio». Fiammetta Borsellino, infatti, il 19 luglio 017 è stata audita a Palermo dalla Commissione antimafia
Non sappiamo cosa ha detto e cosa ha consegnato Fiammetta Borsellino ma sappiamo che le risposte – quelle su Scarantino, sulla procura massonica e sulle manovre occulte – si fonderanno e daranno a Bindi e a tutta la Commissione parlamentare un’occasione irripetibile.
Già perché una cosa va ora sottolineata.
Nell’ambito dell’inchiesta sui rapporti tra mafie e massoneria, la Commissione parlamentare antimafia, il 1° marzo 2017, ha deliberato all’unanimità il sequestro degli elenchi degli iscritti, dal 1990 a oggi, alle logge di Calabria e Sicilia delle associazioni massoniche: Grande oriente d’Italia (Goi del Maestro Venerabile Stefano Bisi, la più importante, con circa 22mila affiliati), Gran loggia regolare d’Italia (Gri), Serenissima gran loggia d’Italia; Gran loggia d’Italia degli antichi liberi accettati muratori.
Il provvedimento è stato assunto in seguito alla mancata consegna degli elenchi più volte richiesti dalla Commissione a partire dall’agosto 2016. Al fine di acquisire la documentazione necessaria, la Commissione ha delegato lo Scico della Guardia di Finanza di Roma, agli ordini del generale Giuseppe Grassi, a procedere alle perquisizioni delle sedi nazionali delle quattro associazioni.
Ripeto a chi fosse sfuggito: il sequestro degli elenchi calabri e siculi (per misteriose ragioni solo quelli anche se Bindi ha fatto capire che potrebbero essere sequestrati anche quelli di altre regioni; peccato che la legislatura stia per finire) riguarda gli anni dal ’90 in poi.
E mi domando e vi domando: quale migliore occasione per scoprire – e, attenzione, in questo specifico caso, se necessario render noto – i nomi e i cognomi di quanti, affiliati alla massoneria, hanno avuto a che fare con le indagini prima e dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nelle procure, negli uffici giudiziari e investigativi?
O dobbiamo forse pensare che Fiammetta Borsellino con quel riferimento alla Procura massonica retta all’epoca da Giovanni Tinebra, sia una riflessione dal senno fuggita?
Si badi bene: Fiammetta Borsellino non ha parlato di Tinebra massone ma di procura massonica, che è un concetto molto più ampio e degno di approfondimento viscerale.
Ora, per la cronaca, l’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra(morto a Catania il 6 maggio di quest’anno) colloquiando con l’Ansa il 23 luglio del 1994, disse «Scarantino non ha subito nessun tipo di violenza o di imposizione: si è autonomamente deciso a collaborare e ciò l’ha fatto in maniera che ci ha pienamente convinti. È un’operazione che conduciamo con consueti, usuali metodi».
Scarantino, come abbiamo visto, arrestato a settembre 1992, è il famoso «balordo della Guadagna» (quartiere di Palermo, ndr) citato nell’intervista da Fiammetta Borsellino. Le sue false confessioni hanno portato ingiustamente al carcere persone innocenti e la procura di Catania, pochi giorni fa, rivedendo il processo, le ha tutte assolte dall’accusa di strage.
Resta un’ultima cosa da sottolineare, vale a dire un rischio di cui tutti dobbiamo essere coscienti, a partire dalla Commissione parlamentare antimafia.
Negli anni Ottanta e Novanta erano molti i fratelli “alla spada” o “all’orecchio” dei Gran maestri delle varie obbedienze massoniche. Vale a dire massoni della la cui affiliazione solo il vertice sapeva (sa ancora?).
E secondo voi – in quegli anni – i massoni di altissimo profilo nelle procure, negli uffici giudiziari, negli uffici investigativi e in tutte le Istituzioni erano tutti regolarmente iscritti o erano anche “alla spada” o “all’orecchio” del Gran Maestro di turno?
A Bindi e alla Commissione antimafia il compito sacrosanto di illuminare anche su questo aspetto la famiglia Borsellino e l’Italia tutta.
Presto però, che sono già passati, quasi inutilmente, 25 anni dalla morte di un giudice che ha illuminato per sempre la mia strada e quella di milioni di italiani.
Fiammetta Borsellino, massoneria e verità negata sulla strage di Via D’Amelio/2 La “massoneria mafiosa di Stato” nelle parole dei pentiti
Amati lettori di questo umile e umido blog, continuo ad onorare la memoria del giudice Paolo Borsellino (e dunque anche del suo collega di vita e di morte Giovanni Falcone, unitamente alle loro scorte) con una nuova analisi.
Anche quella odierna (così come quella di ieri e quella di domani) trae spunto dalle dichiarazioni, rese per il venticinquennale della strage di via D’Amelio, da Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, secondo la quale, come ha dichiarato al giornalista del Corriere della Sera Felice Cavallaro, «questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna (Vincenzo Scarantino, ndr) come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…».
Quel riferimento alla massoneria non era casuale e ieri abbiamo visto come – nell’indagine “Sistemi criminali” della Procura di Palermo poi archiviata il 21 marzo 2001 – il ruolo della massoneria capitanata da Licio Gelli fosse stato ritenuto fondamentale nel tentativo di stravolgere l’ordine democratico del Paese, far nascere una nuova forma di Stato (anche attraverso la secessione). Un ruolo deviato che si cementava con la strategia stragista dell’ala corleonese di Cosa nostra e (per altri e più raffinati versi) della ‘ndrangheta.
E vediamo, a questo punto che cosa dichiarò alla Commissione Parlamentare antimafia il 4 dicembre 1992 il pentito di San Cataldo (Caltanissetta, una provincia culla delle più raffinate strategie massonicodeviate) Leonardo Messina.
Il pentito parlava della riunione dei vertici di Cosa Nostra, svoltasi alla fine del 1991 nelle campagne di Enna, in cui si sarebbe parlato del progetto eversivo.
«Molti degli uomini d’onore – dirà testualmente Messina – cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso di quello punitivo che ha Cosa nostra».
Secondo Messina, il progetto, per finanziare il quale sarebbe stata stanziata la somma di mille miliardi (di vecchie lire), fu concepito dalla massoneria con l’appoggio di potenze straniere e coinvolgeva non solo uomini della criminalità organizzata e della massoneria, ma anche esponenti della politica, delle istituzioni e forze imprenditoriali.
Non so se è sufficientemente chiaro: delle Istituzioni e tra queste, ovviamente anche la magistratura. O si deve pensare che la magistratura (la quota marcia, ovviamente) fosse o sia ancora oggi immune?
Messina va avanti come un treno e allo stesso Scarpinato, il 3 giugno 1996, dirà ancora: «Il progetto era stato concepito dalla massoneria. A tal riguardo, intendo chiarire che Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni ’70 un’unica realtà criminale integrata».
E questo lo dice nel ’96 e non si riferisce certo solo al passato
Vogliamo andare avanti con altre sponde che portano sempre alla stessa direzione?
Bene (si fa per dire). Dalle dichiarazioni del pentito calabrese Pasquale Nucera è emersa una specifica conferma delle dichiarazioni dell’altro pentito calabrese Filippo Barreca, ma anche di alcuni altri collaboratori di giustizia palermitani (in particolare Gioacchino Pennino): al più alto e ristretto livello della gerarchia della ‘ndrangheta appartengono anche elementi della massoneria deviata e – ha aggiunto Nucera – anche dei “servizi deviati”. Una commistione, che – sempre secondo le dichiarazioni di Nucera – sarebbe conseguenza di una iniziativa di Licio Gelli che, per controllare i vertici della ‘ndrangheta, aveva fatto in modo che ogni componente della “santa”, ovvero la struttura di vertice dell’organizzazione criminale, venisse inserito automaticamente nella massoneria deviata.
Ma vorrei chiudere la puntata odierna con un finale che racchiude il senso di quanto al momento scritto e anticipa quanto scriverò domani: sapete Messina quando e con chi fece cenno, per la prima volta, della riunione di Enna, seppur senza riferire del progetto eversivo?
Risposta: il 30 giugno 1992 al procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino.
Poteva quel sistema massonico deviato – infiltrato ovunque, a partire dalle Istituzioni statali, magistratura, uffici giudiziari e investigativi inclusi – lasciare in vita Paolo Borsellino? La risposta la conoscete, come la conosce purtroppo Fiammetta e tutta la famiglia Borsellino.
E la risposta sta tutta nella “massoneria mafiosa di Stato” – come potremmo definirla a posteriori – che all’epoca imperversava e continuò a farlo anche negli anni successivi. Ma non crediate che le cose, oggi, siano migliorate.
A domani, con l’ultima puntata di questa serie di riflessioni avviate la scorsa settimana.
Fiammetta Borsellino, massoneria e verità negata sulla strage di Via D’Amelio/1 La ricostruzione parte dall’indagine “Sistemi criminali”
Amati lettori di questo umile e umido blog, anche oggi e nelle prossime ore continuerò ad onorare la memoria del giudice Paolo Borsellino (e dunque anche del suo collega di vita e di morte Giovanni Falcone, unitamente alle loro scorte) con nuove analisi.
Quella di oggi (e quella dei prossimi giorni) trae spunto dalle dichiarazioni, rese per il venticinquennale della strage di via D’Amelio, da Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, secondo la quale, come ha dichiarato al giornalista del Corriere della Sera Felice Cavallaro, «Questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna (Vincenzo Scarantino, ndr) come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…».
Fermiamoci un attimo.
Quel riferimento alla massoneria può essere casuale? Assolutamente no ma solo chi conosce la storia giudiziaria (siciliana e no) degli ultimi 25 anni può cogliere il senso del riferimento.
Allora facciamo un passo indietro, allorché l’allora sostituto procuratore di Palermo Roberto Scarpinato, oggi procuratore generale a Palermo, il 21 marzo 2001 chiese l’archiviazione della sua indagine al Gip del Tribunale di Palermo, iniziata nel ’98.
Scarpinato, pur avendo acquisto molti elementi tra mille ostacoli politici e resistenze all’interno della stessa magistratura, sapeva che non erano sufficienti per sostenere in giudizio l’accusa per la quale, all’inizio degli anni ’90, venne elaborato, in ambienti esterni alle mafie ma ad esse legati, un nuovo progetto politico, attribuibile ad ambienti della massoneria e della destra eversiva, in particolare agli indagati Licio Gelli, Stefano Delle Chiaie e Stefano Menicacci.
Non fu sufficientemente provato neppure che Cosa nostra deliberò di attuare la “strategia della tensione” – che si aprì il 12 marzo 1992 con l’uccisione di Salvo Lima, passò per le stragi di Capaci e Via d’Amelio, la morte di Ignazio Salvo, gli attentati a Roma e Firenze e si concluse il27 luglio 1993 con l’esplosione di via Palestro a Milano – per agevolare la realizzazione di quel progetto politico, né che l’organizzazione mafiosa abbia approvato l’attuazione di un piano eversivo-secessionista per effetto di contatti con quel gruppo.
Il progetto subì una brusca accelerazione alla fine del 1991 – in prossimità della decisione della Corte di Cassazione sul maxiprocesso – e trova il suo incipit nel 1992 subito dopo l’emanazione della sentenza il 30 gennaio di quell’anno.
Tale progetto, scrisse Scarpinato nella sua stessa richiesta di archiviazione (poi accolta) «muoveva dalla seguente diagnosi, verosimilmente prospettata ai capi di Cosa nostra da intermediari di soggetti (aventi interessi politico-criminali in parte diversi, ma tuttavia convergenti) provenienti da ambienti della massoneria deviata e della destra eversiva:
1) I referenti politici di Cosa Nostra avevano dimostrato di non prendersi più cura (o di non essere più in grado di prendersi cura) degli interessi dell’organizzazione, così come delle altre macro-organizzazioni mafiose.
2) Appariva, dunque, necessario disarticolare il vecchio quadro politico-istituzionale e dare vita ad un nuovo assetto globale dei rapporti con la politica mediante una strategia complessa consistente, per un verso, nella perpetrazione di una serie di atti violenti volti a creare un clima di terrore con finalità destabilizzanti e, per altro verso, nella contemporanea creazione di nuovi soggetti politici, espressione organica del sistema criminale e dei suoi nuovi referenti esterni.
3) Punto di approdo di tale strategia doveva essere la trasformazione dello Stato unitario in una nuova “forma Stato” che contemplava la rottura dell’unità nazionale, la divisione dell’Italia in più stati o macroregioni e, comunque, la secessione della Sicilia».
Fermiamoci un attimo perché vale la pena, anche in luce prospettica su quanto scriverò domani: quel progetto politico che avrebbe dovuto mandare a carte quarantotto lo Stato era stato elaborato, secondo la Procura di Palermo che per questo indagò a lungo salvo poi arrendersi anche per aver trovato di fronte un muro granitico e invalicabile, era stato elaborato dalla massoneria di Licio Gelli e controfirmato dalla strategia della tensione e dunque stragista di Cosa nostra e – attenzione perché questo viene spesso dimenticato dai “professoroni” nella magistratura e nel giornalismo, che parlano di cose di cui nulla conoscono – della ‘ndrangheta.