FIAMMETTA BORSELLINO: “COSÌ MAGISTRATI E POLIZIOTTI HANNO IMPEDITO DI SAPERE PERCHÉ HANNO UCCISO MIO PADRE”

 

 
“La figlia del magistrato massacrato da Cosa Nostra racconta dei depistaggi, delle complicità, e delle mancate risposte da parte del Csm (e anche del Presidente Mattarella). Ora, dice, spero in Salvi” “l Palamaragate ha stoppato le indagini della Procura generale della Cassazione sul più colossale dei depistaggi: quello relativo alla morte di mio padre!”. Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafi a a Palermo il 19 luglio del 1992 a soli cinquantuno anni, parla secco, senza diplomazie. A novembre del 2019 si è concluso in appello a Caltanissetta il quarto processo per la strage di via D’Amelio. La Corte ha confermato la sentenza di primo grado, condannando all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage, e a dieci anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato al falso pentito Vincenzo Scarantino. L’uccisione di Borsellino non fu dovuta alla trattativa tra Stato e mafi a, come avevano scritto i giudici di Palermo nel 2018, trattandosi invece di un “mosaico pieno di ombre, dove erano coinvolti altri gruppi di potere”. In particolare, le dichiarazioni di Scarantino, poste a fondamento dei precedenti processi sulla strage e di svariate condanne all’ergastolo, sono false in quanto frutto “di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, realizzato da “soggetti inseriti negli apparati dello Stato”. Nelle settimane scorse il gip di Messina ha archiviato le posizioni di Carmelo Petralia e Annamaria Palma, i due pm di Caltanissetta che avevano indagato sull’attentato, e poi erano stati accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. I due magistrati, secondo l’iniziale accusa, in concorso con tre poliziotti tuttora sotto processo, avrebbero depistato le indagini sulla strage, suggerendo a falsi pentiti, fra cui appunto Scarantino, di accusare dell’attentato persone ad esso estranee. La falsa verità, alla quale per anni i giudici hanno creduto, costò la condanna all’ergastolo a sette persone. Le false accuse dei pentiti ven nero poi smontate dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
Fiammetta Borsellino, perché il Palamaragate ha bloccato gli accertamenti della Procura generale della Cassazione? Quando nel 2017 venne pronunciata la sentenza del Borsellino Quater che svelò il depistaggio del falso pentito Scarantino, indicando “le anomalie nelle condotte” dei magistrati che si erano occupati di lui, iniziai subito a chiedere che si facesse luce su come era stata gestita l’indagine sulla morte di mio Padre.
Cosa aveva evidenziato?
Imprecisioni e irregolarità processuali e investigative a non fi nire. Ad iniziare dalla mancata verbalizzazione del sopralluogo nel garage dove era stata tenuta la Fiat 126 che venne poi imbottita di tritolo per l’attentato. Senza contare l’uso scellerato dei colloqui investigativi.
Denunciò l’accaduto? Chiesi che il Consiglio superiore della magistratura si occupasse di queste anomalie rinvenute dai giudici nisseni nell’operato dei magistrati che avevano svolto le indagini sulla strage di in cui morì mio padre.
Risposta? Nessuna.
E allora? Mi sono più volte rivolta anche al capo dello Stato Sergio Mattarella nella sua qualità di presidente del Csm.
Una precisazione: in che anno siamo? 2018 inizio2019.
Questo Csm? Si.
Ha chiamato l’attuale vice presidente David Ermini? Certo.
Cosa le disse? Mi riferì che senza un’azione della Procura generale della Cassazione la Sezione disciplinare non avrebbe potuto fare alcunché.
All’epoca il procuratore generale della Cassazione era Riccardo Fuzio. Esatto. Fuzio mi convocò, insieme a mia sorella Lucia, a Roma per rendere dichiarazioni.
Come andò l’interrogatorio? Mi sono subito resa conto che Fuzio non sapeva nulla della vicenda e degli sviluppi processuali e così ho parlato per oltre un’ora di tutto quello che riguardava le anomalie nell’inchiesta, che fu condotta a ridosso della strage e di come nessuno si fosse accorto di un pentito che era palesemente falso.
Una ricostruzione dettagliata? Si. Ho riferito fatti che i magistrati dovevano sapere e invece li chiedevano a me. Veda un po’ lei.
Poi? Vorrei ricordare che la dottoressa Ilda Boccassini, all’epoca dei fatti in servizio in Sicilia, scrisse una lettera che mise in un cassetto, chiedendo di lasciare la Procura perché era convinta che Scarantino fosse un bluff. Purtroppo nessuno dei magistrati allora nel pool con lei le volle dare retta.
Se avesse consegnato quella lettera, forse, le indagini avrebbero preso una piega diversa… Ovvio: sono passati 25 anni per poter avere una sentenza che scrive quello che qualcuno già aveva rilevato nel 1992.
Torniamo a Fuzio, soprannominato “baffetto” da Luca Palamara, il magistrato che nel 2017 “soffi ò” il posto a Giovanni Salvi, come si legge nel libro dell’ex zar delle nomine al Csm. Fuzio disse che avrebbe inviato la mia deposizione al procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone (in pensione dallo scorso settembre, ndr).
Sa se è arrivato il verbale? Non so se quel verbale arrivò mai sul tavolo del procuratore Bertone e né se Bertone lo abbia mai letto.
A parte questo? Fuzio mi garantì anche che una delegazione della Procura generale della Cassazione sarebbe andata nella Procura nissena per questa ragione.
E anche su questa circostanza non sa dirmi nulla? No.
Si sente presa in giro? Mi sembra il minimo. Insieme a mia sorella avevo solo chiesto che il Csm facesse il suo dovere di indagare quei magistrati che una sentenza del 2017 aveva stabilito avessero agito in modo irregolare. Peggio ancora se pensiamo che la Corte d’Assise d’Appello ha confermato interamente quello che scrissero i giudici di primo grado.
Veniamo al Palamaragate, nato da una fuga di notizie da parte di tre quotidiani sull’indagine di Perugia. Fuzio, finito nelle intercettazioni di Palamara e ora indagato per rivelazione del segreto d’ufficio insieme a Palamara venne costretto a luglio del 2019 alle dimissioni. Cosa successe? Mi scrisse una mail pietosa con cui si dichiarava dispiaciuto di non aver potuto fare nulla. Il punto però è che era proprio lui a dover fare qualcosa, almeno come ci disse Ermini. E non fece nulla. Ancora conservo quella mail e ricordo bene la rabbia che quel tentativo di ispirare il mio pietismo mi diede.
Però, signora Fiammetta, la Procura generale della Cassazione non è il calzolaio che se il titolare va in pensione il negozio chiude… Certo. Spero che chi c’è ora (Giovanni Salvi, ndr) trovi il tempo per farmi sapere che fine hanno fatto le mie deposizioni.
L’ACCUSA DI FIAMMETTA BORSELLINO: “NESSUNA FIDUCIA NEI PM ANTIMAFIA E NEL CSM, HANNO DEPISTATO” «Pur essendo passati ormai tanti anni, non riesco ancora a farmene una ragione. Non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce fino in fondo sul perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti” a cui mio padre teneva moltissimo. E ciò per me è come un tarlo che si insinua nella mente, giorno e notte», dichiara Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia a Palermo il 19 luglio del 1992.
Il dossier mafia-appalti venne redatto dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dell’allora colonnello Mario Mori. Nel dossier erano indicate tutte le principali aziende italiane che trattavano con la mafia. L’indagine era “rivoluzionaria”, affrontando per la prima volta il fenomeno mafioso da una diversa prospettiva.
I carabinieri avevano scoperto che Cosa nostra, anziché imporre il pagamento di tangenti estorsive agli imprenditori, così come faceva tradizionalmente, era diventava essa stessa imprenditrice con società commerciali riferibili ad appartenenti all’organizzazione che avevano assunto e realizzato, con modalità mafiose, commesse pubbliche, principalmente nel settore delle costruzioni.
Al termine di una attività investigativa durata anni, i carabinieri del Ros depositarono il 20 febbraio 1991 alla Procura di Palermo l’informativa denominata “Angelo Siino + 43”. Il fascicolo, circa 900 pagine, era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato.
I due magistrati, il 13 luglio dell’anno successivo, firmano la richiesta di archiviazione del fascicolo. Il giorno dopo, 14 luglio 1992, si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo. Giovanni Falcone era stato assassinato da circa due mesi, il 23 maggio, e Borsellino in qualità di neo procuratore aggiunto affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato, senza evidentemente sapere che era stata già avanzata la sua richiesta di archiviazione. La mattina del 19 luglio, alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata da Giammanco nel corso della quale lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata. La circostanza della telefonata emerse da una testimonianza delle moglie Agnese nel 1995. Alle ore 16.58 successive, una Fiat 126 piena di tritolo fece saltare in aria a via D’Amelio la sua auto di scorta, uccidendolo insieme ai cinque agenti di scorta. Il 22 luglio 1992 la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente. E alla vigilia di Ferragosto arrivò la definitiva l’archiviazione da parte del gip.
Fiammetta Borsellino, la sentenza del processo di Caltanissetta ha affermato che l’indagine mafia appalti aveva impresso un’accelerazione alla morte di suo padre. Esatto.
Mentre nel processo Trattativa Stato-mafia di Palermo questo aspetto è stato escluso, negando che suo padre avesse un interesse al dossier mafia appalti. E non è vero. Mio padre era convinto della bontà dell’indagine per il suo respiro nazionale. Mi riferisco, ad esempio, agli interessi di Totò Riina nella Calcestruzzi spa.
Alla Procura di Palermo non erano tutti della stessa opinione di suo padre. C’è la testimonianza del dottor Scarpinato che riferisce del profilo regionale dell’indagine quando era evidente invece che ci fossero interessi particolari anche nella Penisola.
L’incongruenza fra le due sentenze, quella del processo Trattativa Stato-mafia e quella del Borsellino quater pare evidente. Una incongruenza che destabilizza.
Non ha fiducia nei giudici? Non ho fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta. E non ho fiducia in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale.
Ad esempio? In chi non si è accorto degli errori grossolani sul depistaggio della morte di mio padre. E nel Consiglio superiore della magistratura.
Perché non ha fiducia nel Csm? Il Csm si è dato in questi anni sempre la zappa sui piedi, tutelando interessi di tipo clientelare e di carriera. Fu solerte quando si trattò di mettere sotto processo disciplinare mio padre per aver denunciato pubblicamente lo smantellamento del pool antimafia ed è stato inerte nei confronti di coloro, organi inquirenti e giudicanti, che in qualche modo hanno contribuito, avendo parte attiva o passiva, al più grande depistaggio della storia giudiziaria del Paese.
Gli atti che riguardano suo padre sono stati desecretati dal Csm. Mi pare una operazione di facciata senza alcun senso se poi ci ferma e non si accertano le condotte indegne tenute dai magistrati dopo la morte di mio padre. Non mi importa nulla della desecretazione se non si fanno accertamenti seri.
Prova un po’ di amarezza? Anche. Soprattutto che debbano prendere la parola su mio padre persone distantissime da lui e che hanno indagato su altre piste
Vuole fare un nome? Nino Di Matteo.
Perché proprio lui? A parte la vicenda del processo Trattativa Stato-mafia condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso.
Che tipo era suo padre? Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio.
IL RIFORMISTA Paolo Comi — 20 e 24 Febbraio 2021
Fiammetta Borsellino: Eredi di mio padre? Adesso basta! “Chi è erede per nascita è più sicuro di chi lo è per testamento”. (Publilio Siro)
Ha ragione la figlia del Giudice Paolo Borsellino nel chiedere conto e ragione del perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti”.
E lo fa con uno dei pochi giornali che coraggiosamente pubblica le notizie “scomode” (Il Riformista).
Nel corso dell’intervista rilasciata a Paolo Comi, Fiammetta Borsellino ripercorre la storia dell’inchiesta mafia-appalti, voluta da Giovanni Falcone, e condotta dal Ros di Mario Mori, che nel febbraio del 1991 portò a un’informativa di circa 900 pagine su società riconducibili a “Cosa nostra”.
Un’inchiesta “rivoluzionaria”, la definisce Fiammetta Borsellino, nella quale suo padre credeva a tal punto da chiedere – dopo la strage di Capaci – che venisse a lui stesso assegnata, tanto da incontrare segretamente, il 25 giugno 1992, Mori e De Donno, ai quali chiese di organizzare un gruppo speciale di carabinieri per riaprire l’inchiesta sotto la sua direzione.
Il fascicolo – afferma Fiammetta Borsellino – “era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato”.
Quello che accadde dopo ha dell’inverosimile. Come racconta la figlia del giudice, il 14 luglio 1992 si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo, e Borsellino, in qualità di neo procuratore aggiunto, affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato.
Nessuno informò Borsellino che appena il giorno prima i due magistrati ai quali era stata assegnata l’indagine, avevano firmato la richiesta di archiviazione.
Improvvisamente, la mattina del 19 luglio (lo stesso giorno della strage di Via D’Amelio) alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata dall’allora procuratore Giammanco che lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata.
Perché Giammanco gli comunicò la delega alle indagini, soltanto dopo che per le stesse era stata firmata la richiesta di archiviazione?
Non trascorsero tre giorni dall’uccisione di Borsellino, che la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente, per essere definitivamente archiviata dal gip alla vigilia di Ferragosto.
A nessuno venne il dubbio che tra le concause dell’uccisione di Borsellino potesse esserci proprio l’indagine su mafia-appalti?
Pare proprio di no, visto che le indagini seguirono altre piste, come nel caso delle “rivelazioni” del falso pentito Vincenzo Scarantino, per poi attribuire l’accelerazione dell’uccisione del giudice alla cosiddetta Trattativa Stato-mafia, che vede imputati quei vertici del Ros (Mori e De Donno) che per Giovanni Falcone avevano lavorato al dossier mafia-appalti, e che per conto di Borsellino sarebbero stati disposti a riprendere quell’indagine.
Non usa mezzi termini Fiammetta Borsellino nell’evidenziare l’incongruenza tra il processo Trattativa Stato-mafia e la sentenza del Borsellino quater, che proprio in mafia-appalti individua il motivo – quantomeno dell’accelerazione – del progetto stragista di “Cosa nostra” che portò all’uccisione del Giudice Borsellino e della sua scorta.
Alla domanda del giornalista se ha fiducia nei giudici, la figlia di Paolo Borsellino risponde che non soltanto non ha fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta, ma non ne ha neppure in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale.
Sul banco degli imputati delle valutazioni della figlia del giudice, tutti coloro i quali non si sono accorti degli errori grossolani sul depistaggio della morte del padre, e il Consiglio superiore della magistratura, “inerte nei confronti di coloro, organi inquirenti e giudicanti, che in qualche modo hanno contribuito, avendo parte attiva o passiva, al più grande depistaggio della storia giudiziaria del Paese”.
Tranciante il giudizio su Nino Di Matteo, uno degli autoproclamati eredi di Paolo Borsellino, del quale afferma testualmente:
“A parte la vicenda del processo Trattativa Stato-mafia condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso.
Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio dovere: ricercare la verità senza fare teoremi”.
C’è molta amarezza nelle parole di Fiammetta Borsellino. Un’amarezza ancor più comprensibile e condivisibile nel rileggere le dichiarazioni di Di Matteo, riportate nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta a carico degli ex pm Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, da parte della Procura di Messina, dove si legge che il 22 aprile del 2009 Nino Di Matteo manifestò la sua contrarietà a che Gaspare Spatuzza (il collaboratore di giustizia che smentì clamorosamente Scarantino, dimostrando che era un falso pentito) usufruisse del piano provvisorio di protezione. Sia perché avrebbe attribuito alle sue dichiarazioni un’attendibilità che ancora non avevano, sia perché le sue dichiarazioni, sebbene non ancora completamente riscontrate, avrebbero rimesso in discussione le ricostruzioni e le responsabilità consacrate dalle sentenze ormai divenute irrevocabili.
Ovvero le condanne ingiustamente emesse a seguito delle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino.
Fu dunque così facile credere a Scarantino, e così difficile accettare l’amara verità che il falso pentito aveva mentito?
Di Matteo temeva (e lo si legge in fondo al documento) il discredito delle Istituzioni dello Stato, poiché l’opinione pubblica avrebbe potuto ritenere che la ricostruzione delle responsabilità di quei fatti fosse stata affidata a falsi collaboratori di giustizia.
Oggi, quelle stesse Istituzioni dello Stato, di quali credito godono da parte dell’opinione pubblica che ha appreso, come dato di certezza, quello che Di Matteo temeva potesse ritenere?
Che dire, inoltre, che si fosse posto in secondo piano che degli innocenti potessero marcire in carcere condannati ingiustamente all’ergastolo, e che il depistaggio potesse ancora proseguire?
Stendiamo un velo…
Caltanissetta è come un fiume in piena che ha rotto gli argini. Troppe verità sono emerse. Verità che per alcuni sarebbe stato molto meglio rimanessero sepolte da tonnellate di menzogne orchestrate per decenni da ignoti, o frutto dell’incapacità di tanti altri.
Tutti eredi di Falcone e Borsellino? Gian J. Morici LA VALLE DEI TEMPLI 24.2.2021