ANTONIO CAROLLO: “Borsellino e gli ideali di un uomo di fede”

 
 Sono trascorsi ventitré anni dalla barbara uccisione del collega e amico Paolo Borsellino e ancora oggi la sua immagine e il suo ricordo sono vivi non solo nella magistratura, ma anche nel Paese, e fuori dall’Italia. Ho avuto l’onore e l’onere di commemorarlo al Palazzo di Giustizia di Palermo nel primo anniversario della sua morte, nella qualità di componente della Giunta distrettuale di Palermo dell’Associazione nazionale magistrati, e in tale occasione di ricordare l’immenso sacrificio di un magistrato impegnato in prima linea, con pochi altri, sul fronte nobile della lotta alla criminalità mafiosa, calato nel contesto e nella realtà socio-politica di allora. Vorrei, dunque, in quest’ulteriore testimonianza, soffermarmi un po’ di più sulle tante doti e qualità umane del magistrato Paolo, mettendo in luce alcuni aspetti salienti della sua personalità e del suo carattere.  Faccio un piccolo preambolo: ho avuto il privilegio di conoscere Paolo Borsellino prima di entrare in carriera (gennaio del 1970).
La sua fama e il suo valore professionale erano già note ad altri colleghi che lo avevano conosciuto direttamente. E ho cominciato a partecipare ad alcune sue udienze nella Pretura di Monreale per acquisire esperienze sullo stile con cui svolgeva l’attività. Da queste udienze è cominciato il lungo cammino di amicizia che si è consolidato nel tempo. Siamo presto diventati amici con reciproca stima anche per la comune militanza in una corrente associativa nella quale io ho svolto l’incarico dapprima di segretario e poi quello di delegato distrettuale, e dove anche lui, nel tempo, ha svolto diverse funzioni fino a quella prestigiosa di presidente del Consiglio Nazionale del gruppo.   Fra i tanti aneddoti che potrei citare, ne ricordo uno, singolare, che mi ha visto protagonista all’inizio della mia carriera di magistrato nella Pretura di Trapani. Avevo trattato un processo in cui, sia il pubblico ministero sia il difensore dell’imputato, avevano chiesto la condanna di quest’ultimo al minimo della pena coi benefici di legge, mentre lo scrivente decise, invece, la sua assoluzione, perché il fatto non sussisteva.
A quel punto sia l’imputato sia il suo avvocato, vollero ringraziarmi, porgendomi la mano, che io non rifiutai. Qualcuno dei presenti in aula riferì l’accaduto al Consigliere Pretore Dirigente con la seguente ‘accusa’: «Il pretore ha stretto la mano al suo imputato». Convocato per chiarimenti, feci presente al dirigente che prima del giudizio la persona da giudicare era un imputato, dopo la mia assoluzione era un cittadino come gli altri, e sorridemmo insieme per la «buona giustificazione data». Riferii, subito dopo, l’accaduto all’amico Borsellino per un suo giudizio, e lo stesso mi rispose: «Sono sicuro, conoscendoti, che hai reso giustizia secondo legge e coscienza, a un imputato, che aveva scelto un avvocato difensore non adeguato». E aggiunse: «È stato, il tuo, un gesto di umanità che non ha arrecato offesa ad alcuno. Dal momento che l’imputato (specie se assolto) non cessa di essere un essere umano».  
Paolo possedeva, come risulta anche dal commento all’episodio citato, oltre che le migliori qualità e doti del buon magistrato, anche un profondo patrimonio di umanità. È stato, in sintesi, ‘un magistrato esemplare dal volto umano’. Svolgeva la propria delicata e complessa attività dando, infatti, molta importanza alle relazioni umane. Era sempre pronto ad ascoltare, motivare, coinvolgere, consigliare, e rispettare quanti venivano in contatto con lui, per raggiungere, al meglio, gli obiettivi prefissati. Per le sue particolari doti di sensibilità d’animo, seppe accattivarsi, pure, la fiducia di alcuni pentiti. Ne cito uno per tutti. Il 6 maggio del 1992, diciotto giorni prima della strage di Capaci, il pentito Vincenzo Calcara della cosca di Castelvetrano gli confidò che la mafia gli aveva dato l’ordine di ucciderlo, e lui rispose: «È bello morire per ciò in cui si crede». Ma, anche un altro caso, a onor del vero, resta emblematico: quello della giovane Rita Atria, di appena 17 anni, alla quale la mafia aveva eliminato il padre e il fratello e che, dopo avere collaborato col giudice Borsellino, si gettò dal settimo piano quando apprese della sua uccisione.  
Parlando del Paolo-uomo, i valori veri che per lui contavano erano essenzialmente la famiglia, il lavoro, gli amici e la fede. Aveva un profondo attaccamento a tutta la famiglia, e in particolare alla moglie Agnese e ai tre figli, Lucia, Manfredi e Fiammetta, che hanno tratti caratteriali diversi.
Si emozionava quando parlava di loro e del loro avvenire. Era molto legato anche alla madre.
Ricordo che, nel tragico 19 luglio 1992, in cui perse la vita con i cinque uomini della sua scorta, la mafia lo uccise, con inaudita violenza, mentre compiva il suo consueto gesto di affetto e di amore nei confronti dell’anziana mamma, che andava a trovare con regolarità. Paolo Borsellino è stato, senza ombra di dubbio, uno dei miei migliori amici.
Conservo di lui il ricordo vivo di un uomo concreto, forte, coraggioso, simpatico e maturo. Mi diceva a volte: «Antonio, ricordati che la maturità dell’essere umano, anche se magistrato, non viene con l’età; mi verrebbe da dire, mutatis mutandis, e citando Manzoni, uno se non ce l’ha, non se la può dare», perché dipende da tanti fattori.  
Paolo Borsellino era consapevole di essere nel mirino della mafia, specialmente dopo l’uccisione dell’amico e collega Giovanni Falcone, magistrato anch’esso eccezionale, indimenticabile e di grandissimo valore, del quale aveva raccolto parte dell’eredità. Ho già ricordato altrove che un giorno Paolo disse a un giornalista, con il suo solito linguaggio della concretezza: «Cammino con la morte attaccata alla suola delle scarpe». Falcone e Borsellino possono, a ragione, considerarsi fra i magistrati più amati e illuminati, che rimarranno per il loro immenso sacrificio sempre vivi nel ricordo e nella memoria di tutti.
Paolo non aveva paura della morte per sé, ma il suo pensiero era sempre rivolto alla moglie Agnese e ai figli, nonché agli uomini della sua scorta, per il pericolo concreto che correvano stando insieme a lui; e aveva, invero, invitato gli uomini che vegliavano su di lui a chiedere di essere assegnati ad altro incarico.
Paolo, pur riconoscendo i limiti propri dell’essere umano, per continuare con abnegazione la dura lotta contro il ‘male’, attingeva energia e forza da Dio, che ne è la sorgente perenne.
Era, infatti, un credente di fede solida. Frequentava regolarmente la Messa festiva, partecipando al sacramento della Comunione. Da buon cristiano, ha combattuto per una giusta causa fino al sacrificio estremo della vita, senza perdere la fede, dando ragione della sua tenace speranza.  
Dobbiamo continuare, senza stancarci, a ringraziare a Dio per avercelo dato, e per avere Paolo dato alla sua vita un significato così alto e profondo a vantaggio di una società migliore.
Dobbiamo, altresì, continuare a sentirlo vivo nel nostro cuore e nella nostra mente – così come lui disse di Giovani Falcone: «Sei morto nella carne, ma vivo nello spirito» –, finché vorrà la Provvidenza e, per chi crede come me, anche oltre. Dedico queste semplici, sentite, parole alla famiglia Borsellino, e in particolare ai suoi figli Lucia, Manfredi e Fiammetta, cui continuo a essere legato da un rapporto di sincera amicizia e affetto, scusandomi se a causa dei miei limiti non sono riuscito ad esprimere compiutamente tutto quello che sento dentro per il carissimo amico Paolo.
Resto però nella commossa speranza che Paolo ed Agnese, da lassù, apprezzeranno la buona intenzione.

Antonio Carollo, nato a Palermo nel 1941, non è stato solo collega di Borsellino. I due magistrati erano legati da una forte amicizia, tanto che il giudice che verrà ucciso dalla mafia fu testimone alle nozze di Carollo, il quale dalla moglie Alda ha avuto due figli: Vincenzo e Patrizia. Quest’ultima è giornalista e ha contribuito alla realizzazione di questo approfondimento. Carollo per circa 40 anni è stato magistrato ordinario a Trapani, Palermo, Termini Imerese e ha fatto parte del Consiglio superiore della magistratura. Attualmente, Carollo è presidente di una sezione regionale della Commissione Tributaria di Palermo. Un giorno, quando Antonio Carollo era pretore a Trapani e Borsellino a Monreale, quest’ultimo ebbe a ironizzare alla sua maniera: «Gran filibustiere, sei stato uno dei pochi ad uguagliarmi in laboriosità».
 

L’amico-collega Antonio Carollo racconta

 

Borsellino non è stato solo magistrato e uomo di giustizia con un illuminato senso del dovere, ma anche uomo ironico e amico speciale

 

Dottor Carollo, grazie per essersi offerto di delineare il profilo di Paolo Borsellino.

«La ringrazio per l’occasione che mi avete dato voi e quelli di Avvenire di riparlare del collega Paolo, cui mi legava, e ancora mi lega (anche se è nell’al di là), un rapporto di affettuosa e duratura amicizia. L’ultima volta che ho avuto l’onore e l’onere di commemorarlo, quale componente della Giunta Distrettuale di Palermo dell’ANM (Associazione Nazionale Magistrati), risale niente meno che al primo anniversario della sua morte prematura, ossia 22 anni fa al Palazzo di Giustizia di Palermo».

Cosa disse in quell’occasione?

«Quello che potrei dire anche ora e cioè che è stato un magistrato speciale, illuminato, maturo, impegnato in prima linea, con pochi altri, sul fronte nobile della lotta alla criminalità mafiosa. Verso di lui abbiamo tutti un debito di riconoscenza particolare per la sua alta testimonianza di attaccamento al dovere, svolto fino all’ultimo giorno, nonostante i rischi concreti».

Era consapevole d’essere nel mirino della mafia?

«Sì, soprattutto dopo l’uccisione dell’amico e collega Giovanni Falcone, del quale aveva raccolto parte dell’“eredità”. Un giorno disse a un giornalista: “Cammino con la morte attaccata alle suole delle scarpe».

Che ricordi ha di quel tragico 19 luglio del ’92, in cui persero la vita sia il magistrato che i “picciotti” della scorta?

«Non posso dimenticare che la mafia lo soppresse con inaudita violenza, mentre compiva il suo consueto gesto di affetto e di amore nei confronti della madre anziana che andava con regolarità a trovare».

Che memorie ha della sua persona?

«Le dico solo che è stato uno dei miei migliori amici, un uomo completo, empatico e simpatico. E ancora oggi, a distanza di tanti anni, è uno dei magistrati più amati e considerati, per la sua alta missione, per il suo esempio luminoso e il suo eroismo portato fino al sacrificio estremo».

Ha da svelarci un aneddoto su di lui?

«Per le sue particolari doti di sensibilità è stato in grado di accattivarsi pure la fiducia di alcuni pentiti. Un giorno, era il 6 maggio del ’92, il pentito Vincenzo Calcara di Castelvetrano gli confidò che la mafia gli aveva dato l’ordine di ucciderlo e lui rispose: “È bello morire per ciò in cui si crede”».

Che rapporto aveva con la sua famiglia?

«Ricordo il tono emozionato quando parlava dei suoi figli: della piccola Lucia, sempre tenera e fragile, di Fiammetta, più birichina, e di Manfredi, amante del calcio e ragazzino vivace ma sfuggente per la sua età».

E con gli amici?

«Quando entrava a casa nostra, nelle varie occasioni conviviali, il suo sorriso sornione sembrava dire a tutti che nulla è più importante del calore umano, degli amici, della famiglia, in cui certamente la fatica del giorno si annulla. Lo comunicava scherzando su tutto, non prendendo sul serio i problemi che gli amici comuni manifestavano. Non era sempre allegro, ma certamente ironico, pieno di battute, e come lui pochi erano fieri della propria sicilianità».

Amava anche Palermo?

«In modo incondizionato. Diceva: “Amo Palermo, più la disprezzo e più la amo”. Tant’è che neanche il disprezzo che provava per chi “lo stava tradendo” lo annientò. Fu invece la molla che lo portò a parlare ai giovani con parole che rimarranno scolpite nella memoria della storia. Coi suoi discorsi agli universitari si elevò in maniera grandiosa. Trasmise a tutti, e volle rimarcarlo, che la vita val la pena di viverla se si hanno i valor giusti in cui credere».

Tale messaggio sarà mai arrivato agli uomini di “cosa nostra”?

«Io credo proprio di sì. La mafia con la soppressione violenta di Borsellino, 23 anni fa, ha fatto male i suoi calcoli. Il sacrificio di Paolo, come quello di Giovanni e delle scorte, sta cambiando il volto della nostra società. È stato lampante a tutti, allora, e lo è ancor di più oggi, che stiamo vivendo un momento storico di grande rinnovamento. I giovani, che costituiscono il futuro, con una nuova coscienza civile prendono non solo le distanze dalla mafia, ma si mobilitano mettendoci la faccia contro la stessa. Si vanno rompendo le vecchie omertà, si moltiplicano i pentiti e i cittadini che collaborano con la giustizia. Si incomincia, insomma, ad acquisire la convinzione che la delinquenza mafiosa può essere isolata, combattuta e vinta».

Le bomba di Capaci e quella di via D’Amelio non hanno, quindi, chiuso la porta alla speranza e hanno incentivato il lavoro vostro di magistrati?

«Certamente. ll modo migliore per onorare la memoria di Paolo (così come di Giovanni e degli altri caduti) e di perpetuare la memoria, è quello di proseguire tutti (magistrati requirenti e giudicanti) nella strada da loro tracciata, e di testimoniare con generosità, in concreto, i valori e gli ideali in cui credevano con l’obiettivo di vincere la battaglia contro la Mafia nel più breve tempo possibile. La posta in gioco è altissima: la libertà dei cittadini onesti e il loro diritto di vivere pacificamente in una società senza paure».

Vuole aggiungere qualcos’altro per Borsellino?

«Che mi manca il mio amico fraterno. Ma come scrivemmo nella targa ricordo nel primo anno dalla sua prematura scomparsa: “Paolo vivrà, per sempre, da eroe, nei nostri cuori”».