I fratelli SCOTTO

24.2.2020Palermo, colpo al clan mafioso dell’Arenella: 8 arresti, tra cui fratello vedova Schifani

Operazione White Shark

Gli otto sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa ed altri reati. I provvedimenti eseguiti dalla Dia 

 

La Direzione investigativa antimafia di Palermo ha eseguito un provvedimento restrittivo emesso dal gip nei confronti di otto presunti affiliati a quella che è considerata una delle famiglie mafiose più rappresentative del mandamento di Palermo-Resuttana. Gli otto sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa ed altri reati.

Nel corso dell’operazione sono stati arrestati anche i tre fratelli Gaetano, Pietro e Francesco Paolo Scotto. Gaetano Scotto è una delle dieci persone accusate e poi scagionate per la strage di via D’Amelio e adesso parte civile nel processo sul depistaggio che è in corso a Caltanissetta. Anche, Pietro, tecnico di una società di telefonia, è stato coinvolto nell’inchiesta sull’uccisione di Paolo Borsellino. Era stato accusato di aver captato la chiamata con cui il magistrato comunicava alla madre che stava per andare a farle visita nella sua abitazione di via D’Amelio. Pietro Scotto, condannato in primo grado, era stato poi assolto in appello.

Gaetano Scotto è indagato anche per l’omicidio dell’agente di polizia Nino Agostino e della moglie Ida insieme al boss Nino Madonia. Nei giorni scorsi il procuratore generale Roberto Scarpinato, ha inviato un avviso di chiusura indagine, che prelude a una richiesta di rinvio a giudizio. Agostino e la moglie furono assassinati davanti alla loro casa di villeggiatura a Villagrazia di Carini la sera del 5 agosto 1989. In questi 31 anni l’inchiesta si è dovuta confrontare con molte ombre e con tentativi di depistaggio contro i quali si è battuto il padre di Nino, Vincenzo Agostino. Scotto ha sempre negato di appartenere alla mafia e di essere coinvolto nell’omicidio di Villagrazia di Carini.

Arrestato fratello vedova Schifani
Tra gli arrestati c’è anche Giuseppe Costa fratello di Rosaria, la vedova di Vito Schifani, uno dei tre poliziotti morti nella strage di Capaci, il 23 maggio 1992. Lo confermano gli inquirenti. Costa avrebbe riscosso il pizzo per il clan dell’Arenella.

L’urlo di Rosaria Costa: “Mafiosi inginocchiatevi”
“Io Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato… lo Stato… chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia. Adesso, rivolgendomi agli uomini della mafia… perché ci sono qua dentro… e non, ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare… ma loro non cambiano”.

E’ rimasta memorabile la preghiera disperata di Rosaria Costa che si fece spazio tra le bare con dentro i corpi dilaniati dal tritolo, le istituzioni impietrite e la rabbia e le lacrime che avevano saturato l’aria nella basilica di San Domenico, a Palermo: fu durante i funerali del marito Vito Schifani, agente di scorta ucciso nell’agguato mafioso di Capaci, insieme ai colleghi Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, il giudice Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo. Allora Rosaria aveva 22 anni e un bimbo di appena 4 mesi. Il suo Vito soli 27 anni.

Il fratello di Rosaria Costa, Giuseppe, 48 anni, è tra le persone arrestate, “per avere fatto parte – scrive il gip – della famiglia mafiosa di Vergine Maria, mantenendo rapporti con esponenti mafiosi di altre famiglie, nell’interesse primario dell’organizzazione mafiosa; per avere organizzato e coordinato attività estorsive, nonché atti estorsivi nei confronti di imprenditori commercianti della zona”.

“Vi chiediamo per la città di Palermo – era stato l’urlo di Rosaria 28 anni fa – che avete reso città di sangue, troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti. … Non c’è amore qui, non ce n’è amore… per niente…”. RAINEWS


19.2.2020 Mafia, il boss Gaetano Scotto (arrestato ieri) al gip: “Percepisco il reddito di cittadinanza”

 

Uno dei nomi più importanti di Cosa nostra percepiva il reddito di cittadinanza. Il boss Gaetano Scotto, arrestato ieri con l’accusa di associazione mafiosa, lo ha dichiarato lui stesso oggi durante l’interrogatorio di garanzia davanti al gip. L’inchiesta che lo coinvolge, coordinata dalla dda di Palermo, ieri ha portato in cella otto mafiosi del clan dell’Arenella guidato secondo gli inquirenti proprio da Scotto. Il capomafia, coinvolto nell’indagine sulla strage di Via D’Amelio, era stato scarcerato nel 2016. Scotto, infatti, è una delle dieci persone accusate ingiustamente della strage Borsellino e adesso parte civile nel processo sul depistaggio che è in corso a Caltanissetta.

Scotto è indagato anche per l’omicidio dell’agente di polizia Nino Agostinoe della moglie Ida insieme al boss Nino Madonia. Nei giorni scorsi il procuratore generale Roberto Scarpinato, ha inviato un avviso di chiusura indagine, che prelude a una richiesta di rinvio a giudizio. Agostino e la moglie furono assassinati davanti alla loro casa di villeggiatura a Villagrazia di Carini la sera del 5 agosto 1989. In questi 31 anni l’inchiesta si è dovuta confrontare con molte ombre e con tentativi di depistaggio contro i quali si è battuto il padre di Nino, Vincenzo Agostino. Scotto ha sempre negato di appartenere alla mafia e di essere coinvolto nell’omicidio di Villagrazia di Carini.

Secondo le accuse Scotto aveva ripreso il controllo del borgata marinara dell’Arenella. Era ossequiato anche alla festa di Sant’Antonio da Padova del 13 giugno 2016, quando a cinque mesi dalla scarcerazione lo avevano fatto salire sul peschereccio in cui viaggiava la cosiddetta ‘vara del Santo’, nonostante la presenza fosse riservata al sacerdote e alla banda musicale, come hanno documentato le indagini della Dda di Palermo (aggiunto Salvatore De Luca, sostituti Amelia Luise e Laura Siani). Nell’inchiesta è stato arrestato anche il fratello della vedova di Vito Schifani, Rosaria Costa, moglie del poliziotto che faceva parte della scorta di Giovanni Falcone e che morì nell’attentato di Capaci.

Coinvolto nell’indagine anche anche il fratello di Scotto, Pietro, tecnico di una società di telefonia, anche lui indagato nell’inchiesta sull’uccisione di Paolo Borsellino. Era stato accusato di aver captato la chiamata con cui il magistrato comunicava alla madre che stava per andare a farle visita nella sua abitazione di via D’Amelio. Pietro Scotto, condannato in primo grado, era stato poi assolto in appello.

 


18.2.2020 Mafia: operazione della Dia a Palermo, i fratelli Scotto e gli altri arrestati

Nel corso dell’operazione White Shark, in corso a Palermo, sono stati arrestati anche i tre fratelli Gaetano, Pietro e Francesco Paolo Scotto. Gaetano Scotto è una delle dieci persone accusate ingiustamente della strage di via D’Amelio e adesso parte civile nel processo sul depistaggio che è in corso a Caltanissetta. Anche, Pietro, tecnico di una società di telefonia, è stato coinvolto nell’inchiesta sull’uccisione di Paolo Borsellino. Era stato accusato di aver captato la chiamata con cui il magistrato comunicava alla madre che stava per andare a farle visita nella sua abitazione di via D’Amelio. Pietro Scotto, condannato in primo grado, era stato poi assolto in appello

Palermo, arrestato (di nuovo) Gaetano Scotto. Per gli inquirenti «è tornato a comandare dopo la scarcerazione»

Sono stati arrestati a Palermo, durante l’operazione White Shark, i tre fratelli Scotto: Gaetano, Pietro e Francesco Paolo. Per gli inquirenti, Gaetano Scotto dopo la scarcerazione era tornato a svolgere il ruolo di «capo della famiglia mafiosa del quartiere Arenella». Il blitz riguarda in totale otto persone ritenute affiliate alla famiglia mafiosa dell’Arenella, una delle più rappresentative del mandamento di Palermo – Resuttana. Gaetano Scotto è parte civile nel processo sul depistaggio della strage che causò la morte di Paolo Borsellino per essere stato accusato ingiustamente dall’ex pentito Vincenzo Scarantino. Lo stesso, inoltre, è indagato per l’omicidio di Vincenzo Agostino, il poliziotto ucciso nel 1989 con la moglie. Anche il fratello, Pietro Scotto, era stato arrestato per la strage, ma poi in appello venne assolto.

 

14.7.2017 Borsellino, tutti assolti dall’accusa di strage

Processo revisione dopo le rivelazioni di Spatuzza

La corte d’appello di Catania, che celebrava il processo di revisione delle condanne, alcune delle quali all’ergastolo, emesse a Caltanissetta a carico di 9 persone coinvolte ingiustamente nell’attentato al giudice Paolo Borsellino, ha assolto tutti gli imputati dall’accusa di strage. Il processo di revisione è stato chiesto, inizialmente, dalla procura generale di Caltanissetta ed è stato celebrato a Catania, come prevede la legge.

A consentire il nuovo giudizio sono state le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza. Dopo le dichiarazioni di Spatuzza, che ha riscritto la storia della fase esecutiva della strage, smentendo le menzogne raccontate da pentiti come Vincenzo Scarantino, per nove persone, ingiustamente condannate a vario titolo per l’eccidio, tra cui lo stesso Scarantino, è stata chiesta la revisione del processo.

Per quelle che erano detenute è stata anche sospesa l’esecuzione della pena che era ormai definitiva.

Il giudizio di revisione riguarda Gaetano Murana, difeso dall’avvocato Rosalba Di Gregorio, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, assistito da Giuseppe Scozzola, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura. Quest’ultimo era stato condannato solo per il furto della macchina che venne imbottita di tritolo e non per il reato di strage, mentre Orofino era stato ritenuto responsabile di appropriazione indebita, favoreggiamento e simulazione di reato. Tomassello aveva avuto una condanna per associazione mafiosa e non per strage. Le pg di Catania avevano chiesto per tutti la revisione tranne che per Tomasello, sostenendo che a suo carico non ci fossero elementi per una valutazione nuova. La corte d’appello, invece, ha assolto anche lui. Resta per chi ne rispondeva, tranne per Tomasello, la condanna per mafia già abbondantemente scontata da tutti tranne che da Scotto. Sarà ora la corte d’appello di Caltanissetta a dover rideterminare la pena, passaggio fondamentale per quantificare i risarcimenti dei danni che chi è stato condannato ingiustamente chiederà. Da risarcire, infatti, saranno solo i danni derivanti dalla ingiusta condanna per strage, visto che quella di mafia è definitiva. I risarcimenti potranno essere richiesti quando la sentenza di oggi diventerà definitiva   ANSA

 

 


19.10.2016 «Mi dissero che Faccia di mostro aveva ucciso Borsellino»

CALTANISSETTA «Pietro Scotto in carcere all’Asinara accusava Giovanni Aiello di essere stato colui che aveva premuto il pulsante, che aveva fatto scoppiare la bomba per uccidere Borsellino. Scotto …

CALTANISSETTA «Pietro Scotto in carcere all’Asinara accusava Giovanni Aiello di essere stato colui che aveva premuto il pulsante, che aveva fatto scoppiare la bomba per uccidere Borsellino. Scotto diceva pure che erano stati i servizi segreti a dare l’incarico ad Aiello». L’ha detto il pentito di ‘ndrangheta, Antonino Lo Giudice, nell’udienza di mercoledì del quarto processo per la strage di via D’Amelio in cui sono imputati Salvo Madonia e Vittorio Tutino per strage e i falsi pentiti Francesco Andriotta, Vincenzo Scarantino e Calogero Pulci per calunnia. Lo Giudice, dunque, chiama in causa come fonte delle sue informazioni il tecnico telefonico e fratello del mafioso Gaetano Scotto, accusato dagli inquirenti di aver manomesso gli impianti telefonici del palazzo di via D’Amelio per intercettare le telefonate della madre del giudice Borsellino al fine di conoscere i movimenti del magistrato e già assolto per questa contestazione. E nomina ancora una volta Aiello, alias Faccia di mostro, ex agente della Mobile di Palermo, evocato da collaboratori e testimoni come killer di Stato intervenuto in diversi episodi torbidi della storia recente della Repubblica.

L’ORDIGNO Lo Giudice ha poi riferito altri particolari: «Ho conosciuto Giovanni Aiello e mi ha raccontato di essere stato lui a preparare l’ordigno per la strage di via D’Amelio e che si era nascosto in un albergo di lusso, in un grande residence e quando ha visto il giudice Borsellino arrivare sotto casa della madre ha premuto il pulsante». Il pentito sta raccontando anche particolari sull’esplosivo utilizzato per le stragi di Capaci e via D’Amelio, sebbene continuino a esserci contraddizioni e anche dettagli completamente contrari a quanto emerso anche dalle indagini e da altri processi: «Le posso dire – le parole di Lo Giudice – che tutto l’esplosivo servito sia per Falcone che per Borsellino è arrivato da Reggio Calabria e lo ha trasportato proprio Aiello. Gaetano Scotto lo aveva mandato a prelevare 10 quintali di esplosivo C4 e l’ordine era arrivato da Totò Riina».
Il pm Stefano Luciani, però, gli ha contestato che dell’esplosivo non aveva mai parlato in precedenza e gliene ha chiesto la ragione. «Non era mai stato affrontato il problema», la risposta di Lo Giudice; ma il pm ha poi fatto notare che queste domande gli erano già state fatte durante gli interrogatori tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 e lui non ne aveva parlato. «Forse mi è sfuggito», ha risposto Lo Giudice. «Scusi, ma non possiamo uscirne cosi’ semplicemente, visto che si tratta di fatti abbastanza importanti». Lo Giudice ha anche raccontato di avere conosciuto Giovanni Aiello nel 2007: «Lui era venuto in Calabria sul posto dove lavoravo io e con me c’erano anche Giuseppe e Consolato Villani e il capitano Tracuzzi della Dia di Reggio Calabria. Noi dovevamo fare degli acquisti di armi. Tracuzzi mi ha presentato Aiello e mi disse che dovevo mettermi d’accordo con lui. Aiello tornò dopo una settimana, era in compagnia di una donna, una certa Antonella».

IL DELITTO AGOSTINO Ancora ricordi confusi e contraddizioni nella deposizione del pentito di ‘ndrangheta Antonino Lo Giudice, che deponendo oggi in Corte d’assise a Caltanissetta nel quarto processo per la strage di via D’Amelio ha parlato pure dell’omicidio del poliziotto Nino Agostino e del fallito attentato all’Addaura a Giovanni Falcone. Due eventi che, stando alla deposizione del collaborante, erano strettamente collegati tra loro. «In questo attentato per uccidere il giudice Falcone all’Addaura – ha detto Lo Giudice – era coinvolto Aiello che si trovava su un gommone, in mare, insieme a un certo Piazza, un infiltrato che lavorava nel commissariato di San Lorenzo insieme a lui. Sul gommone c’era pure Gaetano Scotto, che mi risulta essere un mafioso di Caltanissetta e tutti insieme dovevano fare brillare l’esplosivo». «A uccidere Nino Agostino – ha aggiunto – sono stati Giovanni Aiello e questo Piazza. Aiello mi disse che aveva deciso di uccidere Agostino perché sospettava qualcosa sull’attentato all’Addaura e poi decise di uccidere pure Piazza per non lasciare testimoni».
Ma è l’ennesima versione, ben diversa rispetto a dichiarazioni rese in passato: negli interrogatori con i magistrati di Catanzaro e Reggio Calabria Lo Giudice aveva detto che invece Aiello faceva indagini sul fallito attentato all’Addaura per contro di Contrada. Alle numerose contestazioni del pm Lo Giudice ha pure negato di avere reso le precedenti dichiarazioni, dicendo: «Forse c’e’ un errore, quelle cose non le ho dette. Non sono dichiarazioni mie»; per poi dire: «Quando mi hanno sentito in passato stavo male e non ero lucido, volevo pure suicidarmi». CORRIERE DI CALABRIA 

 


28.5.1993 Via D’Amelio presa la «spia»

Avrebbe manomesso la centralina collegata alla casa dei familiari del giudice e poi avvertito i boss Avrebbe manomesso la centralina collegata alla casa dei familiari del giudice e poi avvertito i boss Via D’Amelio, presa la «spia» Tecnico dei telefoni controllava Borsellino  Tecnico di una società che si occupa di impianti telefonici, fratello di un presunto mafioso: l’ideale per dare via libera ai mafiosi incaricati della strage in via D’Amelio a Palermo.
E’ Pietro Scotto, 43 anni, fermato su ordine dei giudici di Caltanissetta per concorso nella strage. Avrebbe avvertito i boss già il giorno prima che il giudice Paolo Borsellino nel pomeriggio di domenica 19 luglio scorso sarebbe andato a far visita all’anziana madre e alla sorella Rita nel loro alloggio in via D’Amelio. Scotto, che abita nei dintorni, avrebbe manomesso la cabina telefonica del palazzo e la centralina della zona, che è in strada, e realizzato un «ponte» collegando la sua utenza con quella delle congiunte del magistrato. Eliminato Giovanni Falcone nella strage di Capaci il 23 maggio, Borsellino era stato a sua volta condannato a morte. Troppo pericoloso a causa delle indagini che stava portando avanti per risalire ai mandanti e agli esecutori del delitto Falcone. Quello attribuito a Scotto è stato un intervento da autentico specialista che certo uno sprovveduto o un tecnico mediocre non avrebbe mai potuto realizzare. Da quel momento la mafia ha controllato parte degli spostamenti segretissimi del giudice. In un primo momento si era saputo che Borsellino aveva avvertito soltanto poco prima madre e sorella del suo prossimo arrivo con la scorta in via D’Amelio. Invece la fatale telefonata la fece in realtà il giorno prima. Così il piano della strage potè essere definito in tutti i dettagli e senza alcuna fretta dai boss e dagli esperti in esplosivi che fecero saltare mezza strada massacrando il procuratore aggiunto della Repubblica e cinque dei sei poliziotti che lo scortavano. Un nucleo speciale della polizia e carabinieri del Ros, il reparto operativo speciale dell’Arma, sono risaliti a Scotto anche grazie a quanto hanno detto due mafiosi pentiti. La loro identità non è stata rivelata perché entrambi avrebbero preteso finora la massima copertura. Così li hanno chiamati in codice «Alfa» e «Beta» a onta della curiosità di chi – e si può esser certi i boss per primi – invece vorrebbe conoscere subito i loro nomi e cognomi. Pietro Scotto attualmente si trova in un carcere di massima sicurezza. E’ a disposizione dei magistrati dopo che quelli della direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta hanno chiesto la convalida del suo fermo al giudice per le indagini preliminari
Sebastiano Bongiorno ieri in missione fuori città per alcuni interrogatori coperti dal riserbo. Il procuratore Gianni Tinebra incontrando i giornalisti ieri ha detto: «La sua qualifica professionale ci fa capire quale poteva essere il suo ruolo inquadrato in un certo contesto». E ha aggiunto: «Oggi abbiamo salito un gradino. Speriamo adesso di poter passare a quello successivo». Ancora su Scotto, quattro figli, fratello di Gaetano indicato da più fonti come uno dei più influenti boss della borgata palermitana dell’Arenella, Tinebra ha affermato: «Non è la prima volta che Scotto si dedica a questo tipo di attività». Una precisazione con cui il procuratore può aver inteso dire che Scotto nel suo lavoro in passato ha realizzato collegamenti «volanti» fra utenze telefoniche come quello tra casa sua e quella delle familiari di Borsellino. Oppure Tinebra può aver rilevato che il tecnico altre volte con «lavoretti» analoghi si era reso utile ai clan.
A Caltanissetta, in Procura, ieri è stato pure fatto presente che si è risaliti a Scotto anche grazie alla perizia affidata a esperti. Il tecnico non è il primo incriminato per concorso nella strage e questa circostanza lascia ben sperare sull’esito finale delle indagini. Vincenzo Scarantino, pregiudicato per rapina e furti, 27 anni, tutto sommato un «pesce piccolo», residente nel rione Brancaccio e cognato di un presunto boss della borgata agrumaria Santa Maria di Gesù Salvatore Profeta, è stato arrestato già nello scorso autunno. L’accusano di aver fornito agli incaricati della strage la Fiat 126 che fu poi imbottita di tritolo e fatta esplodere in via D’Amelio all’arrivo di Borsellino e della scorta. Scarantino, iscritto a una delle più antiche confraternite religiose della città, moglie e tre figli, avrebbe ingaggiato tre «picciot¬ ti» senza arte né parte incaricandoli di rubare l’utilitaria.
Due dei tre, scoperti dalla polizia e arrestati per il furto della 126, Salvatore Candura e Luciano Valenti, finiti in prigione, avrebbero chiamato in causa Scarantino negando di aver saputo che quella piccola vettura rossa fosse destinata a diventare una micidiale autobomba. Fu anche coinvolto nelle indagini il metronotte Ignazio Sanna, in servizio nella zona il giorno della strage, che secondo gli investigatori avrebbe necessariamente dovuto notare i movimenti sospetti attorno alla 126 posteggiata per tempo davanti al palazzo dove abitavano madre e sorella del giudice. Dopo esser riuscito a dimostrare la sua innocenza, Sanna sta ancora passando guai: è stato licenziato, gli è stato anche tolto il porto d’armi.Quasi ogni giorno è a Palazzo di giustizia per chiedere la piena riabilitazione. Antonio Ravìdà LA STAMPA


28.5.1993 PIETRO SCOTTO ‘ ERA LUI A SPIARE BORSELLINO…’

 

Il procuratore Paolo Borsellino era spiato dai primi giorni di luglio. Da almeno due settimane i mafiosi conoscevano i suoi movimenti. E ascoltavano tutte le sue conversazioni telefoniche con la madre Maria. La penultima volta che il procuratore parlò con la donna fu fatale. Era la sera di sabato 18 luglio, Paolo Borsellino era nella sua casa estiva a Marina Longa, a due passi da Capaci. Telefonò in via Mariano D’ Amelio. Una comunicazione breve: “Mamma, stasera non posso passare, verrò a trovarti sicuramente domani pomeriggio”. Così i mafiosi ebbero il tempo di piazzare con calma l’ autobomba. Dieci mesi di difficilissime investigazioni hanno scoperto il volto e il nome di un “tecnico” di Cosa Nostra, l’ uomo che aveva messo sotto controllo i telefoni della madre del giudice Borsellino. Si chiama Pietro Scotto, ha 43 anni, è il fratello di Gaetano, un uomo d’ onore che viene indicato come il nuovo capo “famiglia” della borgata palermitana dell’ Arenella. L’ inchiesta sulla morte di Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta forse sta davvero entrando nella fase finale. Scotto è accusato di concorso in strage dai magistrati della procura della Repubblica di Caltanissetta, la sua cattura è avvenuta l’ altro ieri, a sorpresa, dopo un lungo interrogatorio. Dall’ arresto di Pietro Scotto (è il secondo imputato di strage per via D’ Amelio: il primo è Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna che commissionò il furto dell’ auto poi imbottita di esplosivo) è probabile che l’ indagine molto presto arrivi all’ individuazione dei boia, gli assassini che hanno premuto il telecomando. “E non è la prima volta che questo uomo viene utilizzato per controllare telefonate”, spiega il procuratore capo Giovanni Tinebra ricostruendo la storia del mafioso dell’ Arenella. E’ uno specialista del ramo, è impiegato all’ Elte, una società palermitana che ha in appalto i lavori della Sip. Scotto è un esperto in telefonia, uno che ha sempre messo le mani nelle “centraline” esterne, uno che è stato in grado di eseguire intercettazioni senza destare troppi sospetti. E così avrebbe fatto anche all’ inizio della scorsa estate, ai primi di luglio del 1992. Via D’ Amelio è a poche decine di metri dalla sua abitazione, territorio dell’ Arenella una volta controllato da Gaetano Fidanzati e dai suoi fratelli. Fra via D’ Amelio e la larga strada che porta alla borgata, proprio all’ angolo c’ è una “centralina” della Sip. Il “tecnico” l’ avrebbe aperta, avrebbe usato sofisticate apparecchiature per collegare l’ utenza di Maria Borsellino con l’ esterno, poi avrebbe utilizzato anche un “rubacorrente” per far funzionare il sistema di intercettazione. Tutti i particolari sulla manomissione della cabina Sip sono contenuti in un rapporto. E’ un dossier presentato alcune settimane fa ai magistrati di Caltanissetta dagli esperti della polizia che, subito dopo la strage, avevano già scoperto “anomalie” nella cabina Sip all’ angolo di via D’ Amelio. Nel rapporto c’ è anche la testimonianza della signora Maria Borsellino sugli “strani clic” e sui “frequenti cali di tensione” che si registravano sulla sua utenza. Ma la cattura di Pietro Scotto è arrivata soprattutto dopo una meticolosa indagine di polizia. “Un’ investigazione pura e ad altissimo livello”, precisa il procuratore aggiunto Paolo Giordano. Un’ indagine seguita fin dalle prime ore dal questore Arnaldo La Barbera, allora capo della squadra mobile di Palermo. Per 10 mesi La Barbera ha lavorato circondato da uno staff di funzionari, sempre gli stessi, tutti poliziotti della sua squadra mobile che lavorano a tempo pieno sui massacri dell’ estate del 1992. “Ma è stato determinante anche l’ apporto dei carabinieri del Ros per l’ arresto di Pietro Scotto”, raccontano Ilda Boccassini e Fausto Cardella, i due sostituti procuratori distaccati a Caltanissetta per indagare sulla morte di Falcone e di Borsellino, “determinante perchè hanno riversato numerose informazioni preziosissime che si sono rivelate decisive”. Naturalmente tutto è assolutamente top secret. Le ultime conferme agli indizi e alle prove raccolte in questi 10 mesi su Scotto – ma anche su altri personaggi ancora oggetto di investigazioni – sono arrivate con le confessioni di due pentiti palermitani. I magistrati di Caltanissetta non hanno voluto fare i loro nomi (“Chiamiamoli Alfa e Beta per ora”) ma è probabile che siano collaboratori di giustizia già ampiamente utilizzati in altri processi. Uno dei due pentiti ha raccontato ai sostituti Ilda Boccassini e Fausto Cardella molti particolari sulle principali “attività” di Pietro Scotto: traffico di stupefacenti e intercettazioni telefoniche per conto degli “amici”. Fino all’ altro ieri l’ impiegato della Elte era incensurato nonostante la “pesante” vicinanza con il fratello Gaetano. Una vita apparentemente tranquilla, 4 figli, un matrimonio fallito. Pietro Scotto era sposato con una ragazza della zona, una delle sorelle di Marco Favaloro, il titolare di una concessionaria di automobili che qualche mese fa ha deciso di collaborare – ma senza troppa convinzione – coi giudici di Palermo. Sul conto di questo “tecnico” di Cosa Nostra investigatori e magistrati almeno per ora non vogliono dire di più. La sua cattura potrebbe portare agli autori materiali della strage, a chi ha riempito di esplosivo la Fiat 126 parcheggiata sotto l’ abitazione di Maria Borsellino, a chi ha premuto il comando a distanza. E naturalmente ai mafiosi che – grazie alla linea telefonica intercettata da Pietro Scotto – quel sabato sera si trovavano in una “postazione di ascolto”. E con quattordici, quindici ore di anticipo sapevano cosa avrebbe fatto l’ indomani il procuratore aggiunto Paolo Borsellino. Hanno avuto tutto il tempo per ritirare l’ auto che avevano “preparato” nei giorni precedenti. Probabilmente era stata nascosta in un garage dalle parti di via D’ Amelio. Un autista l’ ha poi portata sotto il palazzo di Maria Borsellino. Forse hanno ascoltato anche l’ ultima conversazione fra il magistrato e la madre, la telefonata del pomeriggio di domenica 19 luglio che annunciava il suo arrivo. Ma, oramai, per gli assassini quello era solo un dettaglio.  dal nostro inviato ATTILIO BOLZONI 28.5.1993 La Repubblica 

 

Strage Borsellino, processo di revisione: la corte d’Appello di Catania assolve tutti gli imputati condannati in precedenza