PAOLO BORSELLINO: “La vita di Giovanni Falcone è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”

bORSELLINO FALCONE

 

 


Il ricordo di Falcone: Dentro di noi eravamo convinti che qualcosa dovesse cambiare

 

Nel sesto capitolo del suo libro, “1992 sulle strade di Falcone e Borsellino”, Alex Corlazzoli traccia un profilo di Giovanni Falcone attraverso le parole pronunciate da Paolo Borsellino in occasione della fiaccolata svoltasi ad un mese dall’assassinio del giudice e della sua scorta:

Via Roma 

Ogni volta che me ne vado da Palermo e rimetto piede sull’autobus che porta all’aeroporto “Falcone e Borsellino” partendo da piazza Giulio Cesare, non riesco a non pensare al 23 giugno 1992, a quella fiaccolata in memoria di Giovanni Falcone che passò proprio sotto la statua di Vittorio Emanuele II, davanti alla stazione centrale. 

L’ultimo re di Sardegna e primo re d’Italia, dalla sua postazione, deve averli visti uno a uno quei giovani giunti a migliaia da ogni parte del Paese per accendere una luce nel buio di Palermo dopo la strage di Capaci. Arrivati da via Lincoln, che dalla Centrale scende verso il mare passando di fronte al maestoso orto botanico, proseguirono in via Roma fino alla chiesa di San Domenico. La stessa strada che percorre il bus per uscire dalla città. 

Un tragitto che migliaia di persone fanno ogni giorno tra le auto strombazzanti, i motorini che fanno zig-zag tra le macchine e i turisti che attraversano la strada incuranti del via vai. 

“Buongiorno. Un biglietto di sola andata, grazie”. 

Il mio interlocutore è un giovane autista. Non è facile trovare dei volti sotto i quaranta a fare questo mestiere. Una rarità. 

“Prego, si accomodi. È la prima volta a Palermo?” 

“No, sono più di vent’anni che vengo qui”, rispondo orgoglioso del mio rapporto con questa città e con la Sicilia. 

“Allora non le devo spiegare nulla, nemmeno che non si sa quando arriveremo di preciso… perché, sa, tutto dipende dal traffico come spiega bene il film ‘Johnny Stecchino’”. 

L’autista, quel “traffico” lo dice alla palermitana, facendo scomparire la erre e inserendo una “ci”: ciaffico

Basta poco per entrare in sintonia. A Palermo ogni volta è così. Nel giro di pochi minuti corri il bel rischio di essere invitato a bere un caffè oppure a cena a casa del tuo interlocutore.

E così scopro che Angelo ha due bambine di dodici e nove anni, vive a Mondello, ha frequentato il liceo classico, ma è finito a fare il conducente di bus perché non aveva più voglia di studiare e a Palermo travagghiu non c’è. 

“Quanti anni hai?”, chiedo al mio giovane amico. “Trentotto”.

Il bus è arrivato a metà di via Roma: due-tre chilometri in venti minuti.

“A quest’ora è sempre così su questa via. Abbia pazienza. 

A che ora ha l’aereo?”

La mia risposta neanche l’aspetta. Mi anticipa: “Vedrà che arriviamo”.

Poi aggiunge: “Scusi, lei che lavoro fa?”

“Sono un giornalista. Sono tornato a Palermo per andare sui luoghi dove hanno vissuto Falcone e Borsellino e raccontarli ai più giovani, a chi non ha conosciuto quello che è accaduto in questa terra venticinque anni fa. Vorrei scrivere un libro che faccia tornare anche noi più grandi in quelle strade segnate dal lutto di quei giorni ma anche dalla speranza che avevamo nel 1992… Lei si ricorda quanta voglia di lottare aveva la gente?” 

Angelo, mi guarda stupito: “Certo che me lo ricordo. Io a quella fiaccolata in memoria di Falcone c’ero. Il corteo attraversò proprio la strada che stiamo facendo ora. Ero andato con mio padre che ai tempi era un capo scout. Frequentavo la terza media e le scene di quella serata non le potrò mai dimenticare. L’appuntamento era in piazza Magione. Tutti avevano in mano una fiaccola. Arrivarono ragazzi da tutta la Sicilia, dalla Calabria, dalla Campania. C’erano il sindaco Leoluca Orlando, il cardinale Salvatore Pappalardo. Dentro di noi eravamo convinti che qualcosa dovesse cambiare. In piazza arrivò all’ultimo momento anche Paolo Borsellino”. 

Il sole era già tramontato quando il magistrato scese dall’auto blindata. Forse nemmeno lui aveva pensato che ce l’avrebbe fatta a essere presente. Aveva chiesto alla sorella Rita di esserci lei ma poi non volle rinunciare all’appuntamento con tutti quei ragazzi. O forse, più semplicemente, non poteva mancare alla chiamata che arrivava da tutt’Italia. Anche se la sua assenza sarebbe stata accolta, perdonata, quella presenza significò molto. Era una sorta di “Ci sono, ci siamo. Siamo ancora qua”. 

Sigaretta in bocca, giacca verde, camicia bianca, cravatta blu, Borsellino appena arriva altro non fa che abbracciare Rosaria Schifani, che ha avuto la forza di tornare tra la gente a un mese dalla morte del marito. 

Nelle immagini che narrano quella fiaccolata il magistrato sembra non aver voglia di parlare con i giornalisti. Ha l’aria tesa, preoccupata. Quando un cronista gli si avvicina per chiedergli: “Giudice, questa fiaccolata cosa significa per lei?”, lui lo allontana con la mano sinistra. 

La manifestazione è aperta da uno striscione bianco con la scritta rossa “Insieme contro la mafia” sorretto dalle mani dei ragazzi. 

I giovani cantano “Fratello sole, sorella luna”, fanno sentire le loro voci. Il corteo procede verso via Carlo Rao. Arrivato all’incrocio prende per via Abramo Lincoln lasciando alle spalle l’orto botanico e il bar Touring, entrato a far parte del patrimonio della città per le sue arancine “bomba” da gustare accanto alla porta Reale. Davanti alla stazione il fiume in piena di uomini, donne, ragazzi e bambini prende la direzione di via Roma: passa davanti a piazza Sant’Anna, piazza Cassa del Risparmio. 

Paolo Borsellino una delle ultime volte che ha camminato per le strade della sua amata città lo ha fatto nel ventre di Palermo, dove un tempo trovarono casa la più grande moschea della città, prima, e più tardi la sinagoga. 

Quando il bus arriva all’altezza di via Lattarini mi viene in mente d’aver letto che quella via potrebbe aver preso il nome dal mercato arabo dei droghieri, il Souk el Attarine, che durante l’occupazione musulmana si trovava in quella zona. 

E pensare che, dall’altra parte della strada, la città accolse gli ebrei fino alla fine del 1400. Per capire bisogna andare verso l’arco della Meschita in via Calderai: c’è ancora un passaggio con un arco tipico della “cittadella ebraica”. Lì, accanto alle botteghe degli artigiani che lavorano il ferro, tra stradine anguste e consumate dal tempo, sorgeva il luogo di culto degli ebrei nella stessa area usata dagli arabi per la loro moschea. 

Non c’è più nulla di quell’antico tempio, ma quell’angolo di città è rimasto nelle mani dei fedeli che hanno costruito la chiesa dedicata a San Nicolò Tolentino. 

Scorci di città dove sacro e profano si mischiano consegnando al turista una cartolina di Palermo che ricorda l’Havana, a Cuba. 

Chissà se anche Paolo Borsellino quella sera avrà desiderato scendere per una di queste strette vie e “ritrovare” la città che aveva conosciuto da piccolo alla Kalsa. 

Entrare in via Calderai è un’esperienza sensoriale che va fatta. I calderai, o quararara, gli artigiani che producono bracieri, tegami, pentole e altri oggetti in rame, alluminio o bronzo, in questa strada hanno ancora le loro botteghe. Come scrisse un viaggiatore inglese nell’Ottocento passando da questa via: “il sito forse più tumultuoso di tutta l’Europa, dove si ammassano considerevoli blocchi di stagno per la manifattura di lampade, forchette e altri utensili da tavola e da cucina”. 

Se entri dal lato della gelateria che prende il nome della strada trovi la scritta “Via Calderai” in arabo e in ebraico. Già questo dovrebbe bastare a intuire in che posto stai mettendo piede. Dentro è un ritorno alle origini, in tutti i sensi. Sono rimasti i bottegai di un tempo, con pignatte e pentoloni, articoli casalinghi in rame battuto che si intervallano alla barberia al civico 29 e al parrucchiere per uomo con la saracinesca da poeta che recita “Perché tu uomo di notte accendi la città e di giorno spegni la natura?” 

Sono tornati anche coloro che pregano altri dei. È come se le tracce di quella moschea e di quella sinagoga non se ne fossero mai andate da questo luogo, e così è spuntato anche “Bangladesh Garden” con il suo indian fast food accanto all’artigiano che stagna e batte sul fondo della padella. 

Scene di una Palermo diversa da quelle della sera in cui i ragazzi con la loro fiaccola in mano non cercavano altro che dare una parola di conforto a una città in ginocchio. 

Rivedo le riprese video del servizio di Rai Tre. È un’altra Italia. Altri italiani. 

“Perché sei venuto a Palermo?”, chiede il cronista a un ragazzo che avrà dodici-tredici anni. 

La risposta è spontanea, sincera: “Uno scout deve fare il suo dovere anche nei momenti più duri”. E un altro aggiunge: “Cerchiamo di smuovere il cuore delle persone che stanno sopra di noi”. Sono voci che abbiamo dimenticato ma che restano ugualmente nella storia, come quelle trasmissioni tv che non si possono scordare. Non ci ricordiamo la puntata del 10 luglio del 1976 del “Carosello” ma sappiamo che quel programma ha cambiato la storia della comunicazione. 

Così le parole di questa ragazza che la cronaca di Rai Tre ci ha consegnato senza nome: “Credevo che con la morte di Falcone sarebbe morta la speranza ma poi mi son detta che non era possibile continuare così. Qualcosa deve cambiare”. 

Un cambiamento desiderato, cercato, a cui credeva anche il magistrato che quella notte camminò fianco a fianco con i giovani. 

Borsellino nelle immagini di Rai Tre lo si vede all’ingresso della chiesa di San Domenico. Stringe la mano al cardinale, saluta Orlando. Poi entra composto, con lo sguardo basso. Sorride a Giulio Campo, uno dei capi scout. Sarà lui dopo quel tragico 1992 a organizzare ogni 18 luglio una veglia di preghiera proprio in via D’Amelio. 

Il giudice si alza dal banco della chiesa solo quando tocca a lui prendere la parola. Si avvicina al pulpito tra gli applausi scroscianti dei giovani che lo circondano anche sull’altare. Alza il braccio destro con in mano la fiaccola quasi in segno di ringraziamento. Prende gli occhiali dal taschino della giacca; estrae un foglio con gli appunti del discorso, uno degli ultimi, quello che la sorella Rita considera il suo testamento spirituale. 

Gli applausi durano per oltre un minuto. Borsellino non li interrompe. Indossa gli occhiali, prende in mano il microfono come se stesse per iniziare ma si accorge che non è il momento. Toglie di nuovo gli occhiali, aggiusta l’asta del microfono, appoggia la mano all’altare. Poi sembra fare un sospiro commosso. 

Quando prende la parola, con la voce decisamente emozionata, inizia così: 

Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua morte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! 

La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. 

Per lui e per noi che gli siamo rimasti accanto in questa meravigliosa avventura, l’amore verso Palermo ha avuto e ha il significato di dare ad essa qualcosa. Tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la Patria cui essa appartiene. Lavorare a Palermo da magistrato con questo intento fu sempre fin dall’inizio nei propositi di Giovanni Falcone, anche durante le sue peregrinazioni nell’Est e nell’Ovest della Sicilia. Qui era lo scopo della sua vita e qui si preparava a cambiare qualcosa. Qui ci preparavamo ad arrivare e ci arrivammo dopo un lungo esilio provinciale proprio quando la forza mafiosa a lungo sottovalutata e trascurata esplodeva nella sua più terrificante potenza. Morti ogni giorno: Basile, Costa, Chinnici, dalla Chiesa e tanti altri. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche d’indagine. Ma perché consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno, di ogni cittadino. 

La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte perché meno appesantite dai condizionamenti e dai ragionamenti utilitaristici che fanno accettare la convivenza con il male, a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità. 

Ricordo la felicità di Falcone e di tutti quelli che lo affiancavamo, quando, in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza della mafia.

Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza al prezzo che la lotta alla mafia, la lotta al male, costringeva la cittadinanza a pagare. 

Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini; insofferenza che finì per legittimare un garantismo di ritorno, che ha finito per legittimare a sua volta provvedimenti legislativi che hanno estremamente ostacolato la lotta alla mafia. Parlo del nuovo Codice di procedura penale. Hanno fornito un alibi a chi dolosamente spesso e colposamente ancor più spesso di lotta alla mafia non ha voluto più occuparsene. 

In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì ma cercò di ricreare altrove le ottimali condizioni del suo lavoro. Venne accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. Non è vero! Pochi mesi di lavoro al ministero non possono fare dimenticare il suo lavoro di dieci anni. Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. Per fare il magistrato, indipendente come sempre lo era stato. 

È morto con sua moglie, con gli agenti della scorta e allora tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato e talora odiato hanno perso il diritto di parlare! 

Nessuno tuttavia, ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. La morte di Falcone e la reazione popolare che ne deriva dimostrano che le coscienze si sono svegliate e possono svegliarsi ancora. Molti cittadini, ed è la prima volta che avviene, collaborarono con la giustizia. Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli, e cerca di correggerli, almeno in parte, almeno con la modifica di alcune norme paralizzanti del Codice di procedura penale. 

Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro: occorre dare un senso alla morte di Falcone, alla morte di sua moglie, alla morte degli uomini della sua scorta. Sono morti per noi e abbiamo un grande debito verso di loro; dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera: facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarne dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne, anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro; collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, anche nelle aule di giustizia, accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità: dimostrando a noi stessi ed al mondo che Falcone è vivo! 

Appena pronuncia, urlando, quel “Falcone è vivo!”, ripone i fogli nella tasca della giacca ma non si allontana dal pulpito. Rialza la fiaccola tra gli applausi dei ragazzi che sembrano non finire mai. 

È quasi mezzanotte. Borsellino si ferma ancora attorno alle candele che sono state piantate nel cortile davanti alla grotta della Madonna di Lourdes. Vorrebbe non andarsene. Con lui c’è la figlia Lucia, una ragazza che somiglia a quelle che ha incontrato stasera. 

È una Palermo diversa quella di questa notte. 

Diverse lo sono rimaste questa piazza di San Domenico, via Roma, via Lincoln. Non sono più solo strade, sono entrate a far parte della mappa della memoria.