MARIO MORI: “Non mi fidavo del Procuratore Giammanco”

 
“Sarò esplicito sul punto: decisi di non avvisare la Procura di Palermo, in attesa della sostituzione prevista di lì a qualche mese del suo responsabile, dott. Pietro Giammanco, perché non mi fidavo della sua linearità di comportamento e ne spiego qui di seguito i motivi. Quando fui nominato, nel settembre 1986, comandante del Gruppo CC. di Palermo, provenivo dall’esperienza della lotta al terrorismo condotta dal Nucleo Speciale di PG del Generale Dalla Chiesa, dove si era capito che nelle indagini contro le maggiori espressioni di criminalità – terrorismo ma anche delinquenza organizzata di tipo mafioso – si doveva agire considerando il fenomeno nel suo complesso e non per singoli aspetti. Mi resi conto che a Palermo le Forze di Polizia operavano di norma per eventi specifici – solo con Giovanni Falcone ed il pool antimafia si era cominciato ad affrontare analiticamente il fenomeno mafioso – ottenendo risultati complessivamente inadeguati. Mancava la cultura dell’indagine di lungo respiro, preferendo il più facile risultato immediato ma senza prospettive, a un’azione che, portata in profondità, consentisse alla fine di raggiungere risultati realmente consistenti. Questo concetto d’azione, cioè il differimento della perquisizione dell’abitazione, sarà alla base dell’indirizzo d’indagine prospettato ai magistrati subito dopo la cattura di Salvatore Riina. Per tornare al mio arrivo a Palermo, mi parve presto chiaro che “cosa nostra” non si preoccupava tanto della cattura di qualche suo elemento, perché sempre sostituibile, ma temeva gli attacchi alle sue attività in campo economico, quelle cioè che le consentivano di sostenersi ed ampliare il proprio potere. Individuai non nelle estorsioni, il cosiddetto pizzo, ma nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici, il canale di finanziamento più importante dell’organizzazione. Dalle prime indagini, da me assegnate al cap. Giuseppe De Donno, si evidenziò la figura di Angelo Siino quale uomo di “cosa nostra” incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell’affare appalti…… Dopo pochi giorni tutti, a cominciare da “cosa nostra”, seppero i risultati raggiunti dall’inchiesta e soprattutto dove questa poteva portare, perché alla scontata richiesta degli avvocati difensori di conoscere gli elementi di accusa relativi ai propri patrocinati, invece di stralciare e consegnare esclusivamente gli aspetti documentali relativi ai singoli inquisiti, così come previsto dalla norma, venne consegnata l’intera informativa: 878 pagine più gli allegati. Il procuratore Giammanco, addirittura, ritenne d’inviare l’informativa al ministro della Giustizia Claudio Martelli, iniziativa presa nell’agosto del 1991, provocando la reazione del ministro che, consigliato da Giovanni Falcone, la rispedì al mittente, rilevando e sottolineando l’irritualità della trasmissione di un atto di indagine che, in quanto tale, non poteva essere di competenza dell’autorità politica. Iniziò in quel periodo la crisi nei rapporti tra la Procura Palermo e il Ros. Nel marzo 1992 rientrò a Palermo, proveniente dalla Procura della Repubblica di Marsala, Paolo Borsellino, assumendo le funzioni di procuratore aggiunto. Tra lo stupore generale, il procuratore Giammanco, non gli delegò la competenza delle indagini antimafia su Palermo e provincia. A riguardo appare oltremodo significativa l’affermazione, riportata nella recente sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta (Borsellino quater), attribuita a Giuseppe “Pino” Lipari che, alla notizia del rientro del magistrato a Palermo, aveva sostenuto come il fatto avrebbe portato problemi a “quel santo cristiano di Giammanco ”. Il Lipari era un geometra palermitano che curava gli affari della “famiglia” corleonese. In quei primi mesi Paolo Borsellino divenne rapidamente il punto di riferimento di magistrati e investigatori impiegati nel contrasto alla mafia e continuò a mantenere costanti rapporti personali e professionali con Giovanni Falcone che il 23 maggio 1992, a Capaci, venne ucciso da una bomba che provocò anche la morte della moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e di tre addetti alla sua scorta. Da quel momento l’attività di Paolo Borsellino assunse un ritmo quasi frenetico e continuò sino alla sua fine, avvenuta il successivo 19 luglio 1992…”
Gen. Mario Mori:
“Mi ero convinto che la Mafia avrebbe potuto reggere tranquillamente anche alla cattura dei suoi capi più importanti, ma non all’interno dei suoi traffici illeciti. Colpendola nel suo punto nevralgico, cioè gli affari, il danno sarebbe stato più pesante e difficilmente rimediabile. Avevo parlato di questa mia intuizione con il Tenente De Donno, chiedendogli di pianificare un’azione investigativa sulle attività economiche mafiose, e di creare un gruppo di lavoro che potesse occuparsi esclusivamente di quel fenomeno, senza essere distratto da altri tipi di indagini. Ero cosciente delle difficoltà e dei tempi necessariamente lunghi che avrebbe comportato un’inchiesta così complessa, e così lo avevo anche sollevato dall’obbligo di produrre risultati in tempi brevi…… Niente uovo oggi, né gallina domani, ma il pollaio appena possibile. Da quella premessa era nata l’inchiesta passata alla storia con il titolo <>. I primi accertamenti sull’omicidio di Baucina evidenziarono quale probabile movente un contrasto nella spartizione dei lavori pubblici gestiti da quel comune. La conferma venne dall’indagine serrata del Nucleo operativo del mio comando, dove avevo fatto trasferire De Donno, nel frattempo promosso Capitano. E subito la nostra attenzione si concentrò sul sindaco del comune, il professore Giaccone, un docente di Biologia marina all’Università di Palermo e Catania. Messo alle strette, il sindaco decise di collaborare con l’autorità giudiziaria. Eravamo a cavallo tra il 1988 e il 1989. Nessuno, fino al quel momento, aveva mai messo a fuoco il problema degli appalti pubblici come fattore criminale….. Eppure, a Palermo, stava accadendo qualcosa di molto importante. Un giudice istruttore, Giovanni Falcone, e un Ufficiale dei Carabinieri, il Capitano De Donno, avevano raccolto le dichiarazioni del sindaco <>, Giuseppe Giaccone. E grazie a quelle erano riuscite a ricostruire un quadro in cui emergeva in tutta evidenza la sistematicità dell’illecita gestione degli appalti da parte di imprese, professionisti, amministratori pubblici e uomini politici………! La Procura di Palermo si mostrò meno entusiasta di Falcone sulla bontà di quell’indagine e sui suoi potenziali risultati. E accadde che il professor Giaccone, appena ammesso al programma di protezione per i collaboratori di giustizia e affidato all’ufficio dell’Alto commissario per il coordinamento della lotta alla criminalità mafiosa, si rimangiò tutto. Accusò persino Falcone, De Donno e l’avvocato che lo aveva assistito fino a quel momento, Pietro Milio, di avergli estorto le dichiarazioni. Rinnegò ogni parola. Di conseguenza, l’inchiesta si spense in brevissimo tempo………..! Voglio solo dire che da allora, dal giorno in cui fu consegnato quel preziosissimo documento a Falcone, cambiò tutto………! Ma la verità è che aver capito che esisteva una centrale unica degli appalti in Sicilia, averla individuata, aver compreso anche che c’era un tavolo di compensazione tra politica e mafia non è stata un’operazione gradita a tutti. Probabilmente, come sostengono alcune sentenze giudiziarie, proprio quell’indagine fu all’origine della morte di Falcone e del suo collega Paolo Borsellino…………! Da quella indagine, comunque, si sviluppò anche un filone catanese, grazie alla collaborazione con l’autorità giudiziaria di un professionista arrestato nella prima fase del nostro lavoro su Mafia e appalti. Era il geometra Giuseppe Li Pera che, oltre a completare il quadro investigativo, permise di accertare senza ombra di dubbio un particolare a dir poco inquietante……! L’inchiesta sviluppata a Catania e istruita da un giovane e brillante magistrato, Felice Lima, fu infine trasferita a Palermo per competenza territoriale. E qui portò in carcere trentuno persone, tra esponenti di spicco di Cosa nostra e imprenditori. Per la parte che riguardava le connivenze politico-amministrative, invece, a tre giorni dalla morte di Borsellino, la Procura chiese e ottenne l’archiviazione. Ancora oggi non ne ho compreso i motivi………! A Catania, il gruppo di De Donno proseguì ancora con alcune indagini sempre nel settore degli appalti pubblici, che fra l’altro portarono all’arresto dei cavalieri del lavoro Domenico e Sebastiano Costanzo. “
Gen. Mario Mori
da Ad Alto Rischio, di Giovanni Fasanella
 
Agnese Borsellino: Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo». A nemmeno ventiquattr’ore da questi cupi presentimenti, alle 16.58 di domenica 19 luglio, dopo una nuova gita nella casa di Carini il giudice saltò in aria insieme a cinque agenti di scorta in via Mariano D’Amelio, davanti all’abitazione palermitana di sua madre.