Via d’ Amelio, Avola sotto esame e parte la macchina del fango contro il suo legale

 

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“Il Fatto” mette in cattiva luce l’avvocato Ugo Colonna. In realtà la sua posizione è chiara e priva di qualsiasi anomalia. In compenso, si continuano a sottovalutare le intercettazioni di Nino Gioè del 1993 su qualche azione particolare avvenuta a Milano, in piena tangentopoli, assieme ai catanesi definiti dei “fedayn” 

Sono state due le giornate di udienza camerale a porte chiuse fiume disposte dal Gip nisseno Santi Bologna, per l’interrogatorio dell’ex collaboratore di giustizia Maurizio Avola, sicario del clan catanese Santapaola – Ercolano, che ha rivelato la sua partecipazione, assieme ai mafiosi catanesi, nell’esecuzione dell’attentato di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Come è noto, Avola non viene creduto dalla procura di Caltanissetta fin dall’uscita del libro rivelazione scritto a quattro mani da Michele Santoro e Guido Rutolo. A causa di questo libro, i due giornalisti e l’avvocato Ugo Colonna, storico legale di Avola, sono stati indagati, pedinati e intercettati con il trojan. Addirittura sospettati di depistaggio, tanto che la procura – nella richiesta di archiviazione sulle accuse dell’ex sicario catanese – scrive che è assai probabile che le dichiarazioni di Avola «possano essere state eterodirette da parte di soggetti non identificati». Ma è stato un buco nell’acqua, tanto che – nonostante le intercettazioni invasive – non è stato trovato nulla di tutto questo.

Come prevedibile, il Fatto Quotidiano, casualmente nei giorni dell’interrogatorio, ha tirato fuori la storia che l’avvocato Colonna avrebbe avuto un comportamento anomalo sui soldi che versava ad Avola e del fatto che era diventato garante del mutuo acceso dall’ex moglie dell’ex pentito per acquistare un appartamento. Come scrive il giornale diretto da Marco Travaglio, per la procura di Caltanissetta si tratta di un «comportamento che certamente esorbita da un mero rapporto professionale».

Ovvio che ai lettori arrivi la percezione che ci sia qualcosa di poco chiaro, losco. Niente di tutto questo. La verità è molto semplice, lineare. L’avvocato Colonna ha assistito Avola fin da quando si è pentito per la prima volta nel 1994. Ecco i fatti, tra l’altro documentati sia innanzi al Gip Bologna sia tramite nota dall’avvocato Colonna stesso, in occasione della sua audizione alla commissione Antimafia presieduta da Chiara Colosimo.

Non resta che spiegarlo, perché sono i fatti che contano e non la strategia del sospetto che può ricordare molto da vicino il fenomeno siciliano del “mascariare”, gergo che indica la delegittimazione morale. Spieghiamo i fatti. Nel 1994, la vita dell’avvocato Colonna si intreccia con quella di Avola e della sua famiglia, a causa di un grave fatto di cronaca. Cosa Nostra catanese tramava l’eliminazione del dottor Vincenzo Speranza, dirigente della Polizia di Stato, reo di occuparsi dei beni di Claudio Severino Samperi, uomo d’onore della famiglia Santapaola diventato collaboratore di giustizia nel gennaio 1993. La legge sui collaboratori di giustizia (art. 12 l. 82/91) spinge l’avvocato Colonna, su indicazione del Procuratore della Repubblica di Catania, ad assumere un ruolo delicato: quello di procuratore speciale per gestire i beni patrimoniali di Avola e dei suoi familiari a partire dalla fine del 1994. Il suo compito: amministrare le loro lecite disponibilità economiche, tutelando i beni a loro intestati e situati a Catania e provincia, soggetti a un programma speciale di protezione.

Dalla vendita dei beni mobili e immobili, iniziata sin dal 1994, al supporto al trasferimento della famiglia da Catania, resosi necessario per la collaborazione del loro congiunto, l’avvocato Colonna ha agito con dedizione e discrezione. Nel luglio 1995, in qualità di procuratore munito di specifica procura notarile da parte di Carmelo Avola, padre di Maurizio, ha presenziato all’atto di vendita di un’abitazione sita in Catania, via Medea, 3. Un impegno costante, protrattosi negli anni. All’uscita dei familiari dal programma di protezione, ricevute le opportune somme di capitalizzazione, il padre di Avola affida all’avvocato Colonna un incarico ben preciso: investire il denaro in un’attività commerciale da avviare al termine della detenzione del figlio. Un progetto che, per legittime ragioni, ha visto l’avvocato Colonna gestire le somme derivanti dalle vendite dei beni patrimoniali della famiglia Avola.

Davanti al Gip di Caltanissetta, l’avvocato Colonna ha chiarito le motivazioni che lo hanno spinto a ricercare un’occupazione lecita per Avola: sostenere la richiesta di una misura alternativa al carcere, presentata nel 2018 al Tribunale di Sorveglianza di Milano. Ha inoltre fornito spiegazioni in merito al mancato avvio dell’attività commerciale originariamente pianificata (l’acquisto di strutture per un laboratorio di pasticceria) nel 2020, come da desiderio del padre di Avola, al termine della sua scarcerazione. L’impegno dell’avvocato Colonna non si è esaurito nella gestione dei beni. Ha infatti garantito ad Avola un minimo di riservatezza e tutela del luogo di domicilio dopo la sua scarcerazione avvenuta il 10 gennaio 2020. Inoltre, è stato nominato Tutore legale dal Giudice Tutelare, a seguito del passaggio in giudicato delle sentenze che ne disponevano l’interdizione durante il periodo di detenzione.Un’esperienza complessa e delicata, gestita dall’avvocato Colonna con professionalità e rigore, a tutela di una famiglia coinvolta – per colpa di Avola – in vicende di criminalità organizzata. Tra l’altro a fine maggio l’avvocato ha subito un furto particolare nel suo studio, apparentemente su commissione, del suo solo vecchio Pc portatile, sul quale sta indagando la polizia.

C’è qualcosa di singolare, fin dal primo momento, in questa potenza di fuoco attivata per le dichiarazioni di Avola. Eppure, nonostante l’evidente ostilità, ci sono dei riscontri (e tanti altri che ancora si devono ricercare) che non possono rimanere inosservati. D’altronde, non è un caso che il Gip ha respinto la richiesta di archiviazione invitando la procura a fare ulteriori indagini. Inoltre c’è da precisare che l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino, non ha posto alcun pregiudizio e ha scavato a fondo nella ricerca di eventuali riscontri. Non si comprende questo clima ostile, mai verificato con ben altri presunti pentiti che trattano e ritrattano la memoria, raccontano storie surreali. Nonostante ciò sono stati pompati e sponsorizzati dai mass media e procuratori. Inutile citare, solo a titolo esemplificativo, Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito. Oppure altri collaboratori che di punto in bianco, testimoniano de relato le donne bionde “amazzone” con Aiello, purtroppo conosciuto come “faccia da mostro”. Sembrerebbe che siano più credibili i pentiti che parlano di “entità” e de relato, invece di chi racconta i fatti svolti in prima persona.

Sullo sfondo, ma nemmeno tanto, c’è la questione delle intercettazioni ambientali del 1993 captate dalla Dia per conto della procura di Palermo nel covo di via Ughetti 17 a Palermo, utilizzato dai mafiosi Nino Gioè e Gioacchino La Barbera, che – come ha scritto Guido Rutolo in un articolo sul sito di “Servizio Pubblico” – se rilette oggi confermerebbero il coinvolgimento dei catanesi nelle stragi di Palermo e del Continente.

In effetti, leggendo parte delle intercettazioni, che sono state acquisite a suo tempo per il processo fallimentare trattativa Stato-mafia, c’è un passaggio che a parere di chi scrive sembra molto sottovalutato. È del 16 marzo 1993, Gioè dice che quel giorno doveva incontrarsi con Nitto Santapaola (in quell’occasione non fu catturato). Riferendosi ai catanesi come uomini che fanno determinate azioni, dice: «Per me i migliori di Catania sono quei quattro, cinque picciotti a livello di terroristi, di fedayn, loro sanno di queste cose, perché io ci sono stato insieme in cose particolari che interessano pure a noi». Ancora prima dice, sempre riferendosi ai Catanesi: «No, ne hanno a Milano, hanno fatto una “scanna”, caro mio, c’è una batteria caro mio, ma potente». C’è da chiedersi cosa ha fatto di particolare assieme a loro nel Nord. Mancano evidentemente dei pezzi fondamentali per la verità. Forse potrebbe interessarsi alla cosa anche la procura di Firenze. Dal tenore delle intercettazioni, anche se non sono tutte, emerge non solo il ruolo particolare e fondamentale dei catanesi, ma anche di qualcosa che stavano preparando. E siamo a qualche mese prima degli attentati continentali.

26 giugno, 2024  IL DUBBIO – Damiano Aliprandi.


La strage, i regali, il mutuo e il libro. Quei soldi dall’avvocato al pentito Avola

26/06/2024 – Due anni di affitto pagato, un lavoro ottenuto subito dopo la scarcerazione, la garanzia sul mutuo acceso dalla sua ex moglie. Ogni tanto, poi, ci sono alcuni “regali” in contanti. Va “ben oltre il semplice rapporto tra assistito e legale di fiducia” la relazione tra il pentito Maurizio Avola e l’avvocato Ugo Colonna. A sostenerlo sono gli investigatori della Dia, in alcune informative depositate agli atti dell’inchiesta della procura di Caltanissetta, che da più di quattro anni indaga sulle dichiarazioni del collaboratore. Ex killer del clan dei Santapaola di Catania, Avola si è pentito nel 1994: tra il 2019 e il 2020 – quindi dopo quasi 26 anni di collaborazione con la giustizia – ha sostenuto per la prima volta di aver partecipato alla strage di via d’Amelio. Un racconto affidato ai giornalisti Michele Santoro e Guido Ruotolo, che lo hanno riportato nel libro Nient’altro che la verità, e poi ripetuto davanti ai magistrati. Una ricostruzione che il procuratore Salvatore de Luca e l’aggiunto Pasquale Pacifico non ritengono credibile. Secondo i pm, infatti, è “assai probabile” che le dichiarazioni di Avola “possano essere state eterodirette da parte di soggetti, non identificati sulla scorta delle indagini in corso, interessati a porre in essere l’ennesimo depistaggio”.

La procura aveva documentato come il 18 luglio del 1992, il giorno prima della strage, Avola non si trovasse a Palermo ma a Catania, con un braccio ingessato a causa di una frattura al polso. Anche per questo motivo i pm volevano archiviare l’indagine. Il gip Santi Bologna, però, ha rigettato la richiesta, ordinando nuovi approfondimenti. A cominciare da una perizia medica sul polso di Avola: l’ex killer, infatti, sostiene che all’epoca si era fatto sostituire il gesso con una fasciatura mobile, in modo da poter partecipare all’eliminazione di Paolo Borsellino. Una versione definita “possibile” dai periti nominati dal giudice, ma che i consulenti dei pm considerano “improbabile”.

Due pareri medici opposti, che sono stati illustrati nelle scorse settimane, durante l’incidente probatorio ordinato dal gip. Ieri, a Caltanissetta, è stato lo stesso Avola a parlare: un’audizione fiume, che proseguirà ancora oggi, in cui il pentito ha ripetuto la sua versione. Un racconto che continua a non convincere gli inquirenti.

Parallelamente, infatti, i pm hanno aperto un fascicolo per tentare d’individuare la genesi delle dichiarazioni di Avola, indagato per calunnia e autocalunnia. Dal marzo del 2022, la prima contestazione è stata estesa anche all’avvocato Colonna. Già durante i sopralluoghi compiuti nei dintorni di via d’Amelio con Avola e il suo legale, gli investigatori avevano notato “un atteggiamento di eccessiva partecipazione propositiva da parte del difensore, il quale spesso sollecitava il proprio assistito nella ricostruzione delle varie fasi degli eventi”. Quel sopralluogo è stato deludente: Avola non è stato in grado di condurre gli inquirenti al garage di via Villasevaglios, dove – secondo Gaspare Spatuzza – venne preparata l’autobomba per uccidere Borsellino. Quel giorno gli investigatori notano che “Colonna spesso interveniva per cercare di sollecitare Avola e di supportarlo in presenza di evidenti falle nella sua ricostruzione dei fatti”.

Da quel momento cominciano a indagare per approfondire “alcune anomalie”. Una risale al 2004, quando Colonna accetta di fare da garante del mutuo acceso dall’ex moglie di Avola per acquistare un appartamento: per la procura si tratta di un “comportamento che certamente esorbita da un mero rapporto professionale”. “Io sono il tutore di Avola, gestisco i suoi beni dal 1994: ecco perché ho fatto da garante. Solo che la Dia omette di riferirlo, nonostante sia facilmente riscontrabile”, spiega il legale al Fatto.

“In sostanza se la signora non paga le rate, è Colonna che versa i soldi in banca”, è la sintesi fatta ai pm da Pietro Ruggeri, un pentito della Stiddache ha trascorso alcuni anni nello stesso carcere di Avola. Con lui il boss catanese si confidava: già nel 2015 gli aveva raccontato di essere il killer del giudice Antonino Scopelliti, mentre ai pm lo confesserà solo quattro anni dopo. “Mi ha detto che il suo silenzio era una sorta di assicurazione sulla sua vita e su quella dei figli. Ho compreso che era legato ad una sorta di strategia da lui attuata nel corso della collaborazione: è sempre stato un calcolatore”, ha messo a verbale Ruggeri nel 2017.

Tre anni dopo, il 10 gennaio del 2020, Avola esce definitivamente dal carcere: passano venti giorni e va dai pm per raccontare di aver compiuto la strage di via d’Amelio. Nel frattempo, il 20 gennaio, comincia a lavorare per una grossa società di costruzioni, che fattura una trentina di milioni all’anno e in passato ha vinto appalti importanti, come quello per progettare la tramvia di Erbil, nel Kurdistan iracheno. A procurargli quell’impiego è sempre l’avvocato Colonna. “Il titolare di quella ditta è un mio fraterno amico, gli ho chiesto un favore”, dice il legale. Dalle indagini emerge anche che l’avvocato ha affittato e pagato le spese dell’appartamento in cui Avola è andato ad abitare dopo essere tornato in libertà: un conto che tra il 2020 e il 2022 ammonta a 22.800 euro. “Non si comprende perché Colonna abbia stipulato i suddetti contratti di locazione, se sia stato spinto da motivazioni di carattere personale, se abbia agito solo al fine di preservare l’identità dell’ex collaboratore, o vi siano altre ragioni”, annotano gli investigatori.

“Se Avola si fosse intestato personalmente le utenze sarebbe stato facile rintracciarlo: cosa avrei dovuto fare? Esporlo in questo modo?”, sostiene sempre Colonna. Che poi nega di aver coperto le spese con fondi propri. “Quei soldi vengono da alcune somme del padre di Avola. Vendette alcune case e mi affidò il ricavato, chiedendomi di aiutare il figlio ad aprire una pasticceria, alla fine della sua detenzione”. Una vicenda di cui il pentito non fa mai cenno nelle intercettazioni depositate. In più occasioni, al contrario, Avola parla di denaro che avrebbe ricevuto dal suo avvocato. “Quando Ugo mi dà soldi… mi fa i regali, diciamo così! Lui lo sa che non ci posso arrivare, né ora né mai”, raccontava a un’amica. “Cinquecento me li ha dati Ugo”, spiegava in un’altra occasione. Secondo la Dia quei soldi arrivavano quasi sempre in contanti, visto che le dazioni “non sono state riscontrate documentalmente”.

È parlando con la sua ex moglie che il pentito sostiene di aver ricevuto 13 mila euro come “proventi per la vendita del libro” di Santoro. Il giornalista, però, ha spiegato agli investigatori di aver dato ad Avola al massimo 1.500 euro. E di averlo fatto a titolo di donazione, visto che l’ex killer ha ceduto gratuitamente i diritti della sua intervista. Ricostruzione riscontrata dalle indagini: ad Avola sono stati dati 1.150 euro in due tranche e in un caso il tramite era proprio Colonna. Non c’è traccia, invece, dei 13 mila euro di cui parla nelle intercettazioni. “Versamenti che – annotano gli inquirenti – sono avvenuti con ogni probabilità per contanti in modo da non essere tracciabili”. Chi è che ha dato questi soldi ad Avola? E per quale motivo? O forse il pentito ha “gonfiato” le cifre delle royalties, parlando al telefono con la sua ex moglie? In un’altra occasione, invece, Avola raccontava alla donna di essersi attivato per trovare un lavoro alla figlia, sempre con l’aiuto di Colonna. A un certo punto sembrava quasi vantarsi: “Perché ho le strade giuste, le persone giuste. Però voglio… io se capisco che mi sfruttano, poi mi girano i coglioni! Insomma, tu mi conosci, io non faccio niente per niente”.

Giuseppe Pipitone (Il Fatto Quotidiano)