19 luglio 1992, i ricordi del fotoreporter Lannino. Fra i primi a giungere in Via D’Amelio

Domenica 19 luglio di 32 anni fa, verso le 17 e 20, camminavo su pezzi di cadavere e lamiere contorte. Fotografavo una scena di guerra e di orrore che la mano mafiosa aveva voluto.
A Palermo avevano appena fatto una strage, avevano ucciso con un’autobomba il giudice Paolo Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta. Il 20 luglio dopo un paio d’ore di “stacco” serviti a sviluppare le pellicole e a stampare le foto, tornai in via D’Amelio e all’alba presi delle panoramiche del luogo della strage. Le presi dall’alto, dall’ottavo piano salendo rampe di scale e di macerie del palazzo di fronte. Subito dopo volai a Milano dove il mio agente mi aspettava per “piazzare” il mio materiale fotografico ai maggiori rotocalchi dell’epoca.
La sera stessa tornai a Palermo. Non avevo dormito nè mangiato e non mi ero fermato neppure dieci minuti. Il 21 luglio tornai sul luogo dell’eccidio per fotografare gli sfollati che furono costretti a lasciare le loro abitazioni dichiarate inagibili.
Questa fu la prima coppia che fotografai, erano circa le nove del mattino. Io non avevo idea di chi fossero. Seppi poi dalle redazioni dei giornali a cui le avevo proposte che erano la sorella del magistrato ucciso, Rita, e suo marito. Loro vivevano nella stessa casa delle vecchia madre di Borsellino e vissero quel dramma in diretta attaccati al citofono. Paolo Borsellino quella maledetta domenica andava a trovare proprio la sua mamma. Non ci è riuscito, non ha mai potuto salutarla. La mafia non glielo ha consentito.

Ricordo le prime immagini in TV, il suono continuo, quasi la colonna sonora di un film dell’orrore, degli antifurto delle auto e dei palazzi, che non la smettevano di “urlare”. Poi il frastuono degli elicotteri, le sirene delle ambulanze e delle auto delle forze dell’ordine. Il getto d’acqua degli idranti dei vigili del fuoco.
Quello che poteva sembrare l’esplosione di una bombola del gas era invece l’attentato che aveva trasformato Palermo in Beirut nuovamente.
Ma quanto si sentiva era nulla rispetto a ciò che si vedeva. Il corpo di Paolo Borsellino era nel giardino dell’abitazione della madre. Gonfio per l’esplosione, quasi nero per la combustione. Poco distante, sul muro del palazzo, c’era l’impronta lasciata dal corpo di Emanuela Loi prima di scivolare giù a terra. Il cadavere carbonizzato di un agente della scorta, probabilmente Agostino Catalano: era praticamente seduto, appoggiato a un palo della luce. L’unica cosa che aveva resistito al fuoco era una collanina d’oro che l’uomo portava al collo.
Antonino Vullo, l’agente sopravvissuto, si aggirava spaesato e in stato confusionale tra le auto in fiamme prima che di lui si prendessero cura i medici e gli infermieri di un’ambulanza.
A poco a poco uscirono anche gli abitanti del palazzo di via D’Amelio. In lacrime, sconvolti. Sembravano le vittime di un bombardamento. Abbandonavano le case sventrate. Tra loro, in barella, l’anziana madre di Paolo Borsellino.
Il corpo del magistrato, nel frattempo, era stato coperto da un lenzuolo. Stessa cosa per quelli delle altre vittime. Tutto intorno l’odore nauseante di carne bruciata, misto a quello del carburante e dell’acido delle batterie degli scheletri delle auto di scorta e delle altre vetture posteggiate nella strada.