Luca Rossi in COMMISSIONE ANTIMAFIA: Borsellino mi disse: “Sono convinto che l’eliminazione di Falcone sia legata a una questione di appalti e collegata anche con l’omicidio Lima».

 

 

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RESOCONTO STENOGRAFICO

Seduta n. 53 di Giovedì 4 luglio 2024 Bozza non corretta

PRESIDENTE CHIARA COLOSIMO

Audizione di Luca Rossi, giornalista e scrittore.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’audizione di Luca Rossi, giornalista, scrittore e amico di Paolo Borsellino, nell’ambito del filone di inchiesta sulla strage di via d’Amelio.
Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell’audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione. I lavori potranno proseguire in forma segreta su richiesta dell’audito o dei colleghi.
In tal caso non sarà consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla webtv.
Senza aggiungere altro, come sempre faccio, ringrazio della disponibilità e della cortesia il dottor Rossi e gli do la parola, per farci un inquadramento delle sue conoscenze e delle confidenze che ha ricevuto e su cui spesso ha anche scritto.

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Buonasera a tutti. Sono stato convocato per raccontare un’esperienza personale. Premetto che sono stato molto amico di Borsellino, sono stato abbastanza amico di Falcone, però, all’epoca, nella mia posizione di giornalista, ma anche di scrittore, non ho mai avuto accesso a informazioni riservate o coperte da segreto istruttorio.
Se è questo che si cerca da me, non credo che sarà molto utile.
Se si cerca invece un inquadramento di quegli anni, penso che dal punto di vista personale forse posso dare un contributo. Sono andato a Palermo la prima volta per un libro che si chiamava «Arrivederci mafia», dove ho conosciuto per la prima volta Borsellino, però l’ho conosciuto in maniera piuttosto superficiale.
Ho conosciuto anche Laura Cassarà. Passati un paio d’anni, all’epoca del maxiprocesso, mi è tornato l’interesse per questa vicenda. A quel punto ho deciso di lavorare su due grossi temi: uno, la squadra mobile di Palermo, che era stata sostanzialmente azzerata dopo l’omicidio Cassarà; l’altro, il pool, che, a sua volta, era stato non proprio azzerato, ma notevolmente azzoppato per le note vicende. Sono dunque tornato da Borsellino e gli ho chiesto di raccontarmi come erano andate le cose – non eravamo ancora amici. Borsellino mi disse che aveva da lavorare e non aveva tempo, però mi propose di andare la sera dopo cena a casa sua e mi avrebbe raccontato tutto.
Con meraviglia risposi affermativamente e io, quasi ogni sera, alle 22, andavo a casa di Paolo, il quale mi fece questo colossale affresco della nascita del pool, del maxiprocesso, dei problemi che avevano e a mano a mano che si andava avanti diventavamo più amici, finché a un certo punto siamo Pag. 5passati al «tu».
È stata la mia grande scuola di mafia. Sono di Milano, non sono siciliano, quindi ero completamente avulso, anche se avevo scritto un libro sulla camorra e uno sulla mafia.
Borsellino e i poliziotti superstiti della squadra mobile sono quelli che mi hanno insegnato a valutare le cose di mafia.
La cosa principale era che nessuno di loro, a partire da Falcone, per arrivare all’ultimo dei poliziotti, nessuno di loro era un complottista, nessuno di loro parlava di massimi sistemi, compreso De Gennaro. Erano tutte persone che si basavano in maniera meticolosa sui fatti e i fatti, come poi ho visto nel corso del tempo, erano un po’ il rasoio di Occam: la soluzione più semplice era quella vera, era difficile vedere in loro chissà quali voli pindarici. Stavano sempre tutti molto sul pezzo.
La prima lezione, molto semplice, e probabilmente per alcuni di voi anche poco interessante, me la diede una di quelle sere Borsellino. Finivamo sempre tardi, verso l’una di notte.
Per andare a casa prendevo il taxi e una notte il taxi non c’era. Dissi che sarei andato a piedi – stavo dall’altra parte di Palermo e pensavo che sarebbe stata un’oretta di passeggiata.
Lui rispose che mi avrebbe accompagnato lui. Io dissi che non era il caso, visto che bisognava prendere la scorta. Lui disse: «Ma quale scorta, quale auto blindata!».
Prese la pistola, disse al capo scorta che sarebbe andato a prendere le sigarette. Salimmo in macchina, lui mi portò a piazza Massimo all’una di notte a Palermo, dove c’era l’unico tabaccaio aperto. Mi meravigliai molto di questo fatto, visto che non c’era neanche un poliziotto.
Arrivati a piazza Massimo, gli dico che sarei andato io a prendere le sigarette, rispose che non c’erano problemi.
Riprese la pistola, uscimmo e ci mettemmo in fila con certe facce da galera che aspettavano in fila al tabaccaio.
Finsi di essere una guardia del corpo. Una volta risaliti in macchina gli dissi che era matto a comportarsi così.
Mi spiegò: «Ma no, ma quando mai! Anche se avessimo incontrato Pino Greco “Scarpuzzedda”, quello, sono sicuro, non usciva la pistola perché non sa cosa c’è intorno, i delitti di mafia si fanno solo se c’è il 100 per cento di sicurezza che chi fa il delitto se la cava, altrimenti si rimanda.
L’incontro occasionale non significa nulla, non mi avrebbero fatto niente perché la piazza sarebbe potuta essere piena di poliziotti per quello che ne sapevano loro».
Questa è stata una delle prime piccole lezioni su come ci si comporta in quel mondo lì.
Abbiamo continuato con questi incontri e ho ricostruito un po’ quello che era successo. Non so se vi interessa che parli della Squadra mobile, perché anche lì, di nuovo, c’è questo discorso del rimanere attaccati ai fatti. Abbiamo il famoso omicidio Cassarà. 
Cassarà era un poliziotto un po’ anomalo, non era un travet, era uno che ci credeva, era uno anche po’ «esagerato» in certe cose, però era molto appassionato del suo lavoro.
La Mobile di quegli anni non aveva nulla, erano quattro gatti, era uscita dal periodo successivo all’omicidio di Boris Giuliano, era stata semidistrutta. Sono arrivati questi giovani, Montana, Cassarà, Accordino, ragazzi di buona volontà, ma non avevano sostanzialmente nessun supporto, questo mi è stato insistentemente ripetuto da tutti. Avevamo bisogno per esempio di autocivette. Ne avevano quattro che ormai tutta Palermo conosceva perfettamente, dunque totalmente inutili. Accordino e Cassarà di notte andarono a smontare la targa della macchina del padre, del fratello o dello zio, la montarono sull’autocivetta e andarono a fare i servizi.
Non avevano computer: Cassarà aveva scoperto che l’American Express regalava un computer con un certo numero di abbonamenti. Quindi fece fare l’abbonamento all’American Express a tutti i suoi poliziotti per avere questo computer, che arrivò due giorni dopo la sua morte.
Andavano a fare i pattuglioni con la Vespa del figlio e in tutto questo riuscirono a fare il «Rapporto dei 162» che fu la base del maxiprocesso. C’è sempre questo discorso dell’attenzione ai fatti, fatti anche microscopici.
Collura per esempio mi raccontò che intercettavano ore di discorsi totalmente inutili, o meglio, che sembravano completamente inutili, ma in realtà mi diceva che piano piano si entrava nella vita di una persona, nella sua testa, nel suo modo di parlare e se per caso tra cento voci in un’altra intercettazione si captava quella voce lì magari era la volta che serviva. Stavano quindi ad ascoltare per ore cose totalmente inutili che però poi potevano tornare utili.
Questa era la situazione della Mobile di Cassarà che a un certo punto incomincia a essere veramente fastidiosa per la mafia palermitana.
In particolare, se non ricordo male, il primo vero omicidio fu quello dell’agente Calogero Zucchetto che viene ucciso per una ragione molto semplice. Lui stava a Ciaculli, era di Ciaculli e a volte andava con la «Vespa» a fare i pattuglioni a Ciaculli.
Questo nella filosofia della mafia non va bene perché se tu sei poliziotto e fai le tue indagini va bene, è regolare, fa parte dei patti, ma se le fai laddove tu sei nato e conosci tutti, stai sfruttando un vantaggio che non viene tollerato.
In particolare, Cassarà e Zucchetto – erano in macchina – incontrarono Marchese, mi sembra, e Pino Greco «Scarpuzzedda», si sfiorarono, e Zucchetto fece per prendere la pistola in macchina, Cassarà gli fermò il braccio.
Non successe niente perché non intendeva avere uno scontro a fuoco. Questa serie di eventi determinò però sostanzialmente la morte di Calogero Zucchetto, cose piccole, ripeto, piccoli fatti perché non è che Calogero Zucchetto fosse un grande investigatore, era un agente qualsiasi, ma stava violando delle piccole regole che chi lavora a Palermo deve conoscere.
Così fu poi per il commissario Montana, della «catturandi». Era molto bravo, molto intelligente, molto arrogante – fu quello che gettò delle monetine alla moglie di Greco quando andarono a fare una perquisizione a casa sua.
Lei iniziò a lamentarsi che non avevano soldi e lui le buttò delle monetine, «Andatevi a prendere un caffè».
Era un tipo così e anche lui, che aveva questa grande passione per il suo lavoro, fece questo sbaglio. Andava in vacanza con la fidanzata in barca vicino a Palermo e si portava il binocolo per studiare la situazione di quel quartiere, altra cosa che non è tollerata o che comunque infastidisce molto la mafia. Di conseguenza, a un certo punto fu evidentemente deciso di farlo fuori.
Quel giorno in barca con lui doveva esserci anche Cassarà che per una coincidenza non andò.
Montana fu ucciso, ripeto, per delle ragioni molto semplici.
La prima è che la Squadra mobile di Palermo finalmente stava funzionando e stava ottenendo dei risultati, ma poi perché sceglievano i vari personaggi.  
Di conseguenza ci fu l’arresto di Marino, che è stato assolutamente provato essere stato il basista dell’omicidio Montana.
Era un calciatore molto conosciuto nel quartiere però era sicuramente affiliato e comunque furono trovati dei soldi in un giornale con la data dell’omicidio, ed era assolutamente sicuro che fosse il basista. In Questura avvenne che Marino fu picchiato e poi torturato con la cassetta, per cui lo si mette sdraiato su un tavolo con una cassetta sotto la schiena, uno straccio sulla bocca, un imbuto e lo si riempie di acqua salata e lo si fa soffocare finché non parla.
Qui arriviamo a una delle cose secondo me più tristi e più difficili da raccontare, perché, da quello che ho appurato in tutte queste conversazioni, l’uomo che indicò questa tortura da fare e che fisicamente la fece si chiamava Natale Mondo ed era l’autista nonché l’uomo di fiducia di Ninni Cassarà, tenetelo presente perché tornerà di interesse. Naturalmente dopo l’omicidio di Marino ci fu una levata di scudi nazionale, la Polizia tortura, Pannella fece una manifestazione a Palermo, la mafia gongolava e quella fu la condanna a morte di Cassarà, che fu ucciso in maniera plateale, quasi hollywoodiana, cinematografica.  
Dai palazzi della casa a tre piani di fronte, gli spararono con il kalashnikov. Si era recato a casa della moglie. Tra l’altro usava sempre delle precauzioni diceva: «Sì arrivo subito» invece voleva dire che stava in ufficio, diceva: «No oggi non vengo», invece andava. Insomma era un po’ difficile che si riuscisse a capire dove andava. Certo potevano seguire la macchina, però la macchina andava in 10.000 posti. La tecnica di quell’omicidio fu che i killer stavano in un garage davanti a un muro, di qua c’era la casa di Cassarà e di là c’era un altro condominio. Stavano in questo garage, aspettavano lì o in un furgone, e quel giorno, su precisa informazione, salirono ai piani del palazzo non so se al secondo, al terzo o al quarto, sapendo con certezza che Cassarà sarebbe arrivato lì, perché altrimenti tre persone sul pianerottolo di un condominio con i kalashnikov non è un fatto così consueto, anche se a Palermo c’è l’omertà. Così fecero, andarono e cominciarono a sparare.
Normalmente, Natale Mondo, l’autista, andava davanti, entrava nel portone per controllare l’ascensore e l’androne delle scale, Cassarà dietro e dietro a Cassarà l’agente Antiochia che gli copriva le spalle.  
In questa situazione, stranamente, Natale Mondo non andò a controllare e rimase in macchina. Cassarà e Antiochia scesero. Iniziò la sparatoria, Antiochia fu falciato completamente perché era quello più verso l’esterno, Cassarà fu colpito al gomito. Nella corsa disperata verso le scale fu preso da un proiettile di rimbalzo all’aorta e morì facendo le scale. La cosa strana di tutto questo è che Natale Mondo sopravvisse e normalmente la mafia non prevede sopravvissuti negli attentati, era una cosa curiosa.
Io ne parlai poi con Falcone e ne parlai con tanti altri, anche con Laura Cassarà. Falcone – questo lo dico ed è una testimonianza di quello che m’ha detto lui, io non posso accertarla – mi disse che non era possibile e che secondo lui Natale Mondo era un basista, era quello che ha dato il segnale, prima di tutto perché la mafia non contempla sopravvissuti e in secondo luogo perché fu messa una macchina di traverso al cancello del compound dove abitava Cassarà, tant’è che Natale Mondo disse che con la macchina aveva cercato di inseguirli, ma che non era potuto uscire perché c’era la macchina. Falcone mi disse che questo non esisteva e che sembrava quasi una scusa prefigurata per Natale Mondo per poter dire che non aveva potuto fare niente.
Questo lo dico perché effettivamente è una delle storie più strane che ho visto e della quale però sostanzialmente non si può più parlare, anche giustamente, perché Natale Mondo fu ucciso due o tre anni dopo, adesso non ricordo, e anche il suo omicidio è curioso perché Natale Mondo era un agente qualsiasi, non è che avesse chissà quali responsabilità.
Il fatto che sia stato ucciso fa anche pensare che sia stato per tenergli chiusa la bocca.
Tutto questo ancora una volta per dirvi come l’attenzione ai piccoli fatti è quella che a me ha sempre colpito di queste persone, soprattutto di Falcone e di Borsellino, in quanto magistrati. Per i poliziotti è già più normale che si attengano ai puri fatti, per i magistrati è più complicato.
A questo punto, ho cominciato a frequentare, come vi dicevo, Borsellino e Falcone e ho cominciato a entrare nella storia del pool e anche lì ho ritrovato più o meno le cose che avevo trovato nella polizia. Dall’esterno, le persone qualsiasi, anche i giornalisti, pensano sempre che ci sia un Olimpo in cui accadono le cose e una pianura dove stiamo noi in cui non si capisce.
Loro mi hanno insegnato che no, l’Olimpo non c’è.
Il problema più grande che hanno avuto Falcone, ma anche Borsellino, all’interno dell’ufficio istruzione della procura di Palermo, dipendevano da ragioni – per quello che loro mi hanno raccontato, ripeto non sono un magistrato, non ero lì come magistrato e quindi non posso certificarlo – da quello che mi dicevano loro, inerenti alla magistratura, ai loro colleghi – poi naturalmente la mafia abbiamo visto come è andata a finire quindi è ovvio che era un problema.
Relativamente però alle difficoltà che possiamo vedere nelle varie riunioni che ci sono state al CSM, con le polemiche del corvo, che erano cronaca e che sono ormai storia, nel mio libro c’è un’intervista ad Antonino Meli che prese il posto che avrebbe dovuto essere di Falcone come capo dell’ufficio istruzione ed è un’intervista che fa accapponare la pelle. Meli – peraltro un galantuomo, il classico magistrato molto attento alla forma e alla legge – per una serie di motivi di correnti interne alla magistratura, non pensiamo a un «grande vecchio», non c’è stato nessun «grande vecchio» che ha preso Meli e gli ha detto «adesso vai e freghi Falcone», per una serie di meccaniche – per esempio lui dice per aiutare il suo amico Motisi che altrimenti sarebbe stato umiliato da Falcone – Meli, dicevo, si trova a combattere con Falcone, ed essendo più anziano vince e Falcone perde la direzione dell’ufficio istruzione.
Meli smantella completamente il pool o quantomeno comincia a smantellarlo. Una delle logiche del pool era che tutti dovevano sapere tutto, tutti dovevano essere collegati, i processi che riguardavano questi fatti dovevano essere, essendo la cupola mafiosa una sola, accentrati e dati al pool che, a furia di costruire indagini, era in grado di interpretare fatti che un giudice che veniva dall’esterno non avrebbe mai capito. Meli distrugge sostanzialmente questa cosa.
Falcone che era un uomo di grandissima prudenza ed estremamente cauto – era forse una delle sue migliori qualità – cercava di «tenere botta».
Borsellino, che, come avete capito, era quello che prendeva la pistola e andava per strada, un guascone che non le mandava a dire, quando arriva questa situazione per cui Meli comanda l’Ufficio istruzione che si «spampana» rilascia questa famosa intervista in cui dice che stanno distruggendo il pool e da lì convocazioni al CSM, rischi di Borsellino di essere punito, caos inenarrabile.
Quello che mi aveva colpito era Falcone perché io pensavo che sarebbe stato molto contento dell’intervento del suo amico che prendeva decisamente parte per lui. Falcone mi disse che, pur essendo grande amico di Paolo, e ringraziandolo tanto per questa sua passione, disse che aveva però alzato la conflittualità dell’ufficio, l’ultima cosa che avrebbe voluto perché Falcone era uno che quando un sedicente pentito gli disse che Andreotti era «punciuto» o comunque legato alla mafia, la prima cosa che fece Falcone fu di querelare il pentito per calunnia perché sapeva benissimo che non c’era la minima prova, che la cosa era una specie di trappolone per fargli fare un passo falso e quindi lo incriminò.
La grande prudenza di Falcone era peraltro condivisa anche da Borsellino quando si trattava di indagini, erano persone che andavano con i piedi di piombo.
Ripeto, io non ho mai avuto informazioni tecniche sul segreto istruttorio però genericamente mi parlavano anche della tecnica con cui si procedeva.
Per esempio a questo riguardo mi raccontarono di quando spiccarono mandato di cattura sui Salvo, che erano personaggi di rilievo e quindi bisognava essere molto cauti.
Quando Buscetta li accusa loro hanno finalmente un substrato su cui lavorare però per sicurezza, siccome Buscetta diceva di essere stato ospite dei Salvo, gli fecero disegnare la piantina della casa dei Salvo dove era stato, soggiorno, camera da letto.
Dopo aver spiccato il mandato di cattura, quando andarono a fare un sopralluogo, Paolo Borsellino mi disse di essersi sentito male perché, entrato in soggiorno, Buscetta gli aveva raccontato che c’era un grande camino: non c’era nessun camino e quindi potevano nascere dei grossi problemi.
I poliziotti alla fine scoprirono che in un magazzino c’era il camino, che era smontabile, e che d’estate veniva spostato di lì, e quindi l’indagine era andata bene.
Questo sempre per sottolineare la rilevanza dei fatti. Dopodiché ci fu tutta la questione del CSM in cui Geraci, che era un grande amico di Borsellino, in realtà votò contro Falcone e fu visto come un tradimento etico.
Detto questo arriviamo al punto finale che è forse quello che vi interessa di più, dati i recenti fatti, e naturalmente se volete farmi domande sono più che felice di rispondere.
Non vi voglio annoiare con tutte le storie perché naturalmente ne ho di migliaia. Arriviamo alla morte di Falcone. Stavo ancora scrivendo questo libro, mi prese assolutamente alla sprovvista e ne fui scioccato perché lo conoscevo bene. Una sera sono andato all’Addaura dove Falcone aveva affittato una casa, ci siamo messi a chiacchierare.
C’erano tutti i poliziotti sulla strada, ovviamente, però la casa dava sugli scogli, era aperta. Dissi: «Dottore, ma a me pare che non sia tanto sicura». «Lei crede?». Si affacciò alla ringhiera, disse: «Buonasera!» e dagli scogli saltarono fuori tutti i carabinieri dicendo: «Buonasera!». Passiamo questa allegra serata e il giorno dopo parto e prendo la nave per Genova. Vi dico francamente che ero stufo marcio della mafia, di questi morti, delle vedove, dei poliziotti. Vado a Portofino, passo davanti a un bar e alla televisione vedo la villa dell’Addaura dove stavo due sere prima. Era il famoso giorno in cui fu trovata la bomba sugli scogli. Tant’è che io fui anche, non dico inquisito, ma attenzionato dalla polizia perché ero uno degli ultimi che era passato di lì, perché effettivamente due sere prima ero lì.
Quando gli chiesi spiegazioni, questa fu l’unica occasione in cui Falcone – naturalmente non mi disse nulla di rilevante – anche a me disse la famosa frase: «menti raffinatissime».
Non so a cosa si riferisse, a me non lo ha sicuramente detto. Certamente in quel caso stava andando al di là di questa logica che vi ho detto, di questo metodo sempre e solo attento ai fatti. Io però non so bene in che termini fosse la faccenda.
Quando Falcone venne ucciso andai da Borsellino non in veste di giornalista ma in veste di amico per sentire come stesse. Trovai quel famoso guascone con la pistola spezzato in due. Con le rispettive mogli andavamo con la mia Citroen 2 CV, una macchina fatta di latta, andavamo a cena senza scorta. Noi quattro sulla 2 CV: potevano ucciderlo con un cacciavite attraverso la portiera. Trovai un uomo assolutamente spezzato, non c’era più neanche l’ombra di quell’uomo lì.
Borsellino mi disse che il suo entusiasmo doveva reggerlo con le stampelle, come Giovanni anch’egli pensava che la morte fosse un bottone della sua giacca.
Giovanni era il suo scudo, e sapeva benissimo che finché era vivo lui non avesse da temere, ma adesso aveva pure lui da temere, era veramente distrutto. Ricordo che ci demmo appuntamento, disse che ne avremmo parlato meglio tra una settimana, qualche giorno. «Adesso devo andare un attimo a Roma, perché sto facendo queste indagini per capire come è andato l’omicidio di Giovanni».  

Mi fece questa rivelazione che in realtà non lo era perché non mi diede nessun elemento, però mi disse: «Io sono convinto che sia legato a una questione di appalti e collegato anche con l’omicidio Lima».

Ve lo dico così, perché francamente non ho nessun elemento per giustificare questo, però mi disse che ne avremmo riparlato «Guarda domani vado a Roma, non ho tempo, ci vediamo, ci sentiamo fra una settimana» e una settimana dopo era morto.

Quindi non ho mai potuto sapere che cosa fosse quella storia, ammesso che me ne avrebbe parlato, perché, ripeto, era una persona serissima e di una integrità pazzesca, per cui non credo che mi avrebbe dato mai degli elementi specifici, però, se a qualcosa può servire, le ultime notizie che ho avuto dell’attività investigativa di Borsellino riguardavano gli appalti.
Se avete bisogno di qualche delucidazione, sarò felice di darvela. Penso di aver raccontato più o meno tutto quello che potevo.

PRESIDENTE. Grazie dottor Rossi. Ho alcuni iscritti a parlare, se ce ne sono altri possono segnalarmelo. Inizio io. Lei ha fatto riferimento più volte al libro «I disarmati», però io, nel preparare questa audizione, ho letto anche l’articolo che lei scrisse il 21 luglio 1992 sul «Corriere della Sera». In quell’articolo ci sono diversi passaggi che hanno attirato la mia attenzione e che penso possano essere utili a questa Commissione. Lei scrive: «Borsellino pensava che potesse esserci una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone e che il trait d’union fosse una questione di appalti in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando». Quindi, in altre occasioni Borsellino o Falcone le avevano parlato dell’interesse dei mafiosi per gli appalti? Può spiegarci, se ovviamente se lo ricorda e lo sa, che cosa intendeva Borsellino per «Falcone stava studiando»? Poi, sempre nello stesso articolo, anche in riferimento a quello che lei ci ha detto adesso sullo stato d’animo del dottor Borsellino a seguito della morte di Falcone, lei dice: «Dopo Falcone c’era lui che sarebbe stato il prossimo». Si ricorda, perché è indicativo, che cosa le disse nello specifico? Sempre in relazione a quell’articolo, così ho finito, le leggo la frase per non sbagliare: «Falcone diceva di essere stato costretto all’immobilità e di essere stato messo in condizione di non poter lavorare». Parliamo quindi di una situazione interna alla procura di Palermo?

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Parto da quest’ultima domanda. Il riferimento era chiaramente al procuratore Giammanco e al fatto che peraltro si stava sostanzialmente ricreando la situazione precedente. Non è che ci fosse, ripeto, un grande vecchio o un cattivo che diceva: «Falcone tu adesso non ti occupi di mafia perché non mi va o non è giusto» o arrivasse un politico che gli dava due sberle dicendogli che non se ne doveva occupare.
La questione era come fu ai tempi di Meli, «Riempilo di processetti», questo era il mantra di Meli dell’epoca. Tu non mi consenti di lavorare non perché me lo impedisci, ma mi dai altre cose da fare o non mi dai il sostegno necessario. Praticamente mi metti nella condizione di non lavorare che era esattamente la ragione per cui all’epoca di Meli e del CSM Falcone diede le dimissioni, che poi ritirò. Tu non mi fai lavorare perché mi metti in questa condizione.
Mi ricordo assolutamente, questo sì, che Borsellino parlò esplicitamente di Giammanco però disse: «Adesso aspetto due anni e poi ho buone probabilità di diventare Procuratore a Palermo quando Giammanco se ne va e quindi preferisco stare buono».
Inoltre, a proposito della superprocura, che dopo la morte di Falcone Martelli gli offrì, lui si chiede cosa sarebbe andato a fare alla superprocura e su cosa avrebbe indagato se non aveva nessuno che gli facesse da sponda in Sicilia. Mi sono dimenticato l’altra domanda.

PRESIDENTE. Che cosa intendesse per il fatto che Falcone «stesse studiando».

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Non so nello specifico, ma quello era proprio un classico di tutto il pool e di Falcone, cioè si andava a vedere dov’era il denaro, si andava a vedere dove erano gli assegni, si andava a vedere dove erano gli appalti. Ci si potrebbe chiedere se ammazzano due eroi per così poco: no quella roba lì è la vita della mafia. A parte il traffico di droga, il controllo del territorio, gli appalti, le amicizie sono fondamentali nella struttura mafiosa. Anch’io lì per lì, quando Borsellino me l’ha detto, mi sembrò quasi esagerata la morte di  
Falcone per qualche centinaio di milioni. Poi ci ho ripensato, in effetti sono quelle le cose su cui hanno costruito prima il Rapporto dei 162, poi il maxiprocesso, poi l’intera visione della mafia. Che poi ci sia il politico corrotto, che ci siano delle collusioni, per l’amor di Dio, e anche tentativi di interferire, sì, ma quello che mi dissero sempre sia Falcone sia Borsellino: «La mafia non si fa comandare».
La mafia fa le sue cose, poi certamente ci sono collusioni, ma gli interessi della mafia sono una cosa molto concreta.
La politica certamente si inserisce in questo discorso ma è sempre – almeno questa era la loro visione e io peraltro la condivido – in una posizione marginale.

La mafia si fa i suoi interessi, punto. Quindi anche nel caso, ripeto, degli appalti, detta così sembra una sciocchezza, ma gli appalti sono una roba fondamentale. Non ho nessuna evidenza, ma se Falcone si stava occupando di quello, si stava occupando di ciò che si è sempre occupato, cioè della sostanza della mafia.

PRESIDENTE. Quindi le avevano già parlato in altre occasioni di questo loro approfondimento?

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Non di questo in particolare, mi hanno sempre parlato genericamente delle questioni degli appalti, così come della droga.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare, lo facciamo subito perché è l’unico collegato da remoto, il senatore Cantalamessa.

GIANLUCA CANTALAMESSA. Grazie dottore perché la sua esposizione, rispetto alle tante che abbiamo avuto è terza e di tipo personale al tempo stesso, e quindi credo che ci abbia dato uno spaccato che fino ad oggi nel lavoro che sta facendo la Commissione ci è mancato. Riprendo quanto detto oggi da lei e scritto nell’articolo del 21 luglio sul Corriere della sera, cioè quando il giudice Borsellino argomenta la sua non adesione alla proposta di Procuratore nazionale, lei ha riferito che egli disse che se se ne andava via da Palermo non avrebbe avuto più nessuno che gli facesse da sponda. Sull’articolo c’era anche scritto: «Qui non è rimasto nessuno, non ci sono più inchieste, non c’è un lavoro organico.
Che cosa posso coordinare da Roma se nessuno fa indagini in Sicilia?». Credo che sia una dichiarazione importantissima. Lei in linea di massima lo ha già accennato però volevo farle questa domanda.
Dalle parole di Borsellino si evince un giudizio complessivamente negativo sull’intera procura di Palermo e non solo sul suo capo Giammanco? A cosa, per quello che può ricordare un concreto, si riferivano le parole del giudice? Grazie mille.

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. La mia sensazione fu che si riferisse all’intera Procura, poi magari avrà avuto qualcuno che invece stimava, però, complessivamente, queste indagini non è che le possa condurre un ragazzino, sono indagini complesse che richiedono un apporto di più magistrati, di forze dell’ordine e quindi penso che Borsellino si riferisse a questo, che lì non stava funzionando nulla e siccome Borsellino era abituato sia, agli inizi, alle difficoltà di non avere sostegno, ma poi si era abituato ad avere un super sostegno perché c’è stato un momento in cui lo Stato è stato super-presente, da Scalfaro alle fotocopiatrici, cioè per i due eroi per un breve periodo è stato così.
Mi immagino che a quel punto se Falcone – che dice: «Io qui non riescono a lavorare» – e Borsellino – che dice: «Non c’è nessuna sponda» – si sia tornati indietro, ma penso che fosse abbastanza vero, anche se sta di fatto che Borsellino mi disse che in quel momento c’era stata una specie di «pioggia di pentiti», ce ne erano circa una trentina, tra cui uno che parlava dei fatti recenti. Loro ovviamente avevano una grande conoscenza dei fatti passati, ma la mafia si evolve e continua a suo modo, quindi non avevano tante informazioni su quello e on 30 pentiti a disposizione sicuramente ci sarebbe stata la possibilità di fare altro che un’indagine. Questo però non accadeva e mi pare che non sia accaduto.

PRESIDENTE. La parola al senatore Scarpinato.

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Lei è stato sentito come testimone il 6 luglio 2012 nell’ambito di un procedimento a carico del generale Mori e del capitano De Donno per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, come teste della difesa e si accertò che l’incontro è avvenuto il 2 luglio 1992, come risulta dal verbale. In quella occasione, l’avvocato della difesa le chiese di chiarire quale ipotesi investigativa Borsellino avesse sull’omicidio Falcone e lei testualmente ha detto: «Sì vagamente, sempre molto vagamente, però diceva che lo collegava in qualche modo all’omicidio di Salvo Lima e a una generica, mi pare generica, pista di appalti, abbastanza vagamente». La prima domanda è: in che senso vagamente? Le disse che stava facendo qualche indagine? Lei ricorda che qualche giorno prima erano stati pubblicati dei brani del diario di Falcone, esattamente, se non ricordo male, il 24 giugno sul Sole 24 ore, dalla giornalista Milella? Inoltre, tenuto conto che l’incontro con Borsellino è avvenuto il 2 luglio, lei è sicuro che Borsellino le disse che alla data del 2 luglio c’erano 30 collaboratori di giustizia?

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Forse me lo disse prima, adesso questo non lo ricordo, però, riguardo alla sua domanda principale, è ovvio che ero in tribunale, e, come ho detto qui, non avevo nessun elemento probatorio sicuro che stesse facendo un’inchiesta su qualcuno. Quindi io dissi «vagamente» proprio per cautelarmi e per cautelare

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Ma, esattamente, vagamente cosa le disse Borsellino, per capire questo «vagamente».

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Quello che ho detto, cioè che si stavano occupando di questa relazione tra l’omicidio Lima e l’omicidio Falcone, in rapporto a un problema di appalti.
Ora lei capisce che questo è parlare vagamente, ma giustamente, perché non ero ha autorizzato a sapere di più. In questo senso dico che ne parlò vagamente. Però se lei mi chiede: ma ci credeva? Era ubriaco? Non aveva interesse? No. Me lo disse seriamente, però ovviamente non dandomi nessun tipo di elemento probatorio, quindi io, che sono abbastanza serio, cerco di non speculare se non ho motivo, se invece ho motivo, lo dico e lo scrivo. Solo per quello io dissi «vagamente». Le dirò poi che in quella situazione c’era un PM molto aggressivo, che mi saltò addosso, e io ero anche un po’ intimorito perché non è il mio mestiere di fare il testimone in un processo e quindi tentavo di cautelarmi, affermando che non stavo dicendo niente di preciso. In quel senso dissi «vagamente». Mi scusi, cosa mi ha chiesto ancora?

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Se era sicuro che le disse che c’erano 30 collaboratori alla data del 2 luglio.

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Qui mi mette in difficoltà perché io l’avevo sentito anche prima al telefono. Se l’ho scritto, direi di sì, però può darsi che mi sbagli su questo, francamente.

PRESIDENTE. Grazie mille. La parola al senatore Russo.

RAOUL RUSSO. Volevo ringraziare il dottor Rossi per la sua esposizione di contesto, da testimone privilegiato, di fatti e Pag. 21anche di personaggi di questa caratura. Devo sottolineare come da questa riflessione, a parte il metodo di lavoro di Falcone e Borsellino, soprattutto di Falcone, legato a seguire il denaro, ci sia un’altra cifra che è quella di seguire i fatti, una cosa molto importante. Se ne è sempre parlato, però è anche importante che lei, che ha avuto la possibilità di questi colloqui, al di là dell’ufficialità, riferisca questo passaggio. Lei peraltro ci ha parlato anche di questo rapporto conflittuale con il dottor Meli e anche con il dottore Giammanco. Nel libro «I disarmati» c’erano delle riflessioni del dottore De Francisci che parlava proprio di odi che esistevano da parte della magistratura, addirittura più forti di quelli della mafia, specificatamente nei confronti di Falcone, di un ventre molle della magistratura che forse allignava anche nel CSM di allora. Le chiedo se, in base ai suoi ricordi, oltre ai fatti contestuali rispetto agli atteggiamenti di Meli si ricorda delle confidenze di Falcone e Borsellino su questo pregiudizio, su questo clima ostile, che ha fatto addirittura parlare di odio da parte del dottore De Francisci, non solo dei procuratori ma di un certo ambiente della magistratura.

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Adesso mi mette in difficoltà perché devo ricordare cose di trent’anni fa. Era sempre un po’ un leitmotiv, ricordo anche Ayala, il fatto che ci fosse all’interno della magistratura una ostilità, anche come dice giustamente De Francisci una invidia proprio miserabile per la posizione, per il fatto che sei più visibile, per il fatto che sei più famoso. Questa era una costante. Se lei mi chiede adesso esattamente un nome, francamente non mi ricordo, anche perché devo dire che sia Falcone sia Borsellino, quando mi parlavano di queste cose, tendevano a parlare in generale, era difficile, a parte la questione Meli e Geraci – su questi due, specialmente Borsellino, erano super espliciti. Del resto non mi Pag. 22interessava neanche molto: non ero un giornalista classico che va lì, sta una settimana perché deve sapere la notizia e torna a casa. Stavo cercando di scrivere un affresco su quegli anni e del singolo fatto mi interessava poco, della singola storia di cronaca di quel momento. Mi interessava vedere un sistema in generale e capire come questi uomini, a mio avviso straordinari, facessero a reggere quella pressione, oltre a quella naturale della mafia. Non riesco a darle una risposta precisa, dicendo sì, parlavano di tizio, no, non riesco.

PRESIDENTE. Senatore Russo, vuole fare un’integrazione?

RAOUL RUSSO. Una riflessione che mi è venuta dalla sua risposta. Al di là del fatto che si parlasse o meno di personalità puntuali, questa ostilità secondo le sue percezioni era più da attribuire a un’invidia diffusa nei confronti dei «primi della classe» o anche ad altro?

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. In parte era l’invidia, che era proprio il substrato miserabile della cosa, in altri casi per la carriera, parliamo proprio di carriera, anzianità e posti di comando – che era una cosa già più seria – e penso anche, in ultima analisi, che in certi casi ci fosse il famoso «ventre molle» che in qualche modo cercava di ostacolarli nelle indagini, nel loro vero e proprio lavoro. Quella difficoltà era quindi a tre livelli, però, come ho cercato di spiegare prima, con il caso Meli o anche con Geraci, è difficile pensare che Meli fosse una sciabola impugnata da Totò Riina. Nel libro c’era un aneddoto che mi raccontò Falcone su un altro magistrato che credo fosse proprio Geraci. A un certo punto interroga un pentito di mafia, si vedono più volte, comincia a nascere un rapporto non dico di amicizia ma di stima. A un certo punto, alla fine di uno degli interrogatori, il magistrato chiede al mafioso: «Ma insomma Pag. 23alla fine dei conti, cosa è questa mafia?». Quello lo guarda e risponde: «Faccia conto che ci sia un concorso per un posto di magistrato e ci siano tre candidati: uno è un cretino completo che non capisce niente, uno è un super raccomandato e il terzo è bravissimo. Quale verrà scelto?» «Non lo so». «Il coglione». Questa è la mafia. Questo è secondo me abbastanza rivelatore perché, ripeto, non c’è un grande vecchio, sono sufficienti l’inefficienza, la stupidità, l’avidità, l’invidia.

PRESIDENTE. Grazie mille. È iscritto a parlare l’onorevole Congedo.

SAVERIO CONGEDO. Anch’io mi associo ai ringraziamenti e ai complimenti al dottor Rossi per la sua esposizione, ma anche per il libro che tratteggia storie di protagonisti della mafia siciliana che raccontano e si raccontano. C’è un passaggio nel libro in cui il dottore Falcone, rispondendo alla domanda su chi abbia ucciso il pool, mi sembra risponda «la politica e la casta, ma dei due la minore responsabilità ce l’ha la politica», ammettendo quindi di fatto che la responsabilità maggiore dello smantellamento, credo lui la definisca proprio «uccisione», si riferisca proprio all’interno della magistratura. Riprendendo anche un po’ la riflessione che faceva il collega Russo, rispetto al clima che c’era nel pool antimafia, nido di vipere per Borsellino, covo di odio e di invidia per De Francisci, ciò tratteggia qual era il clima interno al pool antimafia. Le volevo chiedere se, con riferimento a questa dichiarazione del dottore Falcone su chi abbia smantellato il pool, lei avesse raccolto qualche riflessione del giudice Borsellino, cioè se il giudice Borsellino condividesse quell’impostazione che in realtà lo smantellamento del pool fosse attribuibile più che alla politica all’interno stesso della magistratura.

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Assolutamente sì, la condivideva e, anzi, essendo Borsellino quello che era, era anche più esplicito su questo. Ripeto, per lui il tradimento di Geraci fu una ferita aperta, perché con Geraci erano amicissimi, quindi il tradimento di Geraci è per questioni di carriera, di voto, di CSM, però era un tradimento di casta, legato alla politica, perché, se non sbaglio, Geraci poi diventò anche senatore democristiano. C’era questa interconnessione, però Borsellino anzi era furibondo, tant’è vero che anche in quella famosa intervista che fece ai quotidiani «la Repubblica» e «l’Unità» parlò della politica ma che quello che contava sono i magistrati. È quello che io continuamente mi sentivo dire. Non abbiamo mai parlato di Ayala, ma anche Ayala sostanzialmente mi diceva queste cose, poi Ayala era un bon vivant e viveva più in maniera più allegra tutto questo, mentre loro la vivevano più pesantemente. Però, sicuramente, che la casta fosse il principale ostacolo al lavoro efficace del pool antimafia e in particolare di Falcone e di Borsellino, su questo io, per la mia esperienza, non ho alcun dubbio.

PRESIDENTE. Grazie mille. La parola alla senatrice Rando.

VINCENZA RANDO. Lei ha riferito che era molto amico di Borsellino. In tutti i processi che ci sono stati per la strage di via d’Amelio e Capaci è stato testimone, è stato indicato dalla parte civile per riferire anche dell’ultimo incontro che ha avuto con Borsellino? Se sì, dove? Così cercheremo di avere dai verbali un ricordo più preciso. Inoltre, lei ci riferisce che ha avuto un incontro anche con Falcone il quale le ha parlato – ma questa è una cosa che si sa da fonti aperte, lo ha sempre detto – di menti raffinatissime. Dietro a tutto quello che stava succedendo a Palermo e a quello che era successo nell’attentato ci potevano essere menti raffinatissime. Lei, amico di Falcone, approfondì questo dato? Che cosa pensò nel momento in cui le viene detto «menti raffinatissime», da giornalista, da scrittore? C’è anche una curiosità, che cosa succede, che cosa c’è dietro queste menti raffinatissime, gli appalti, Riina?
L’altra cosa mi ha un po’ ferito.
Quando parlava dei poliziotti che sono stati vittime, alcune giovanissime, tra cui anche Montana, appunto di Montana ha detto che era arrogante perché aveva gettato queste monetine. Ne ho lette tante, ma a me questa non risulta. Mi piacerebbe capire, proprio perché la memoria delle vittime per me è sacra, dove è stato rilevato questo dato e come lo conosce. Quando parliamo di Montana, di Cassarà, di tanti altri, di Falcone e Borsellino, parliamo di persone che sono state non solo coraggiose ma anche oltre: ci faccia capire cosa intende quando dice «arrogante», che cosa significa? Quello che risulta dagli scritti e da fonti aperte è che Montana al contrario, se vedeva situazioni di povertà, quando andava a fare le perquisizioni, le persone le aiutava. Questo anche per fare chiarezza.

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Le rispondo subito. Ho parlato di arroganza in merito all’omicidio, cioè per cercare di spiegare quali fossero le possibili cause. Come dicevo di Zucchetto che andava a Ciaculli e non era autorizzato a farlo. La stessa cosa per Montana, ben lungi da me criticarlo e dargli dell’arrogante gratis, però questo episodio credo mi sia stato raccontato da Pippo Russo che era all’antirapine della Mobile. Credo che mi sia stato raccontato per farmi capire perché in certi casi si rischi troppo se si va oltre il seminato. Naturalmente concordo con lei, la memoria di queste persone è più che sacra e sono perfettamente d’accordo con lei. Però, a proposito di episodi di arroganza, per esempio, mi fu raccontato, non mi ricordo più da chi, che uno dei motivi dell’omicidio Cassarà fu che dopo l’omicidio Montana, Cassarà, tornando in Questura, Pag. 26disse: «D’ora in poi niente prigionieri». Francamente a questa frase non credo, però mi fu raccontata, e se mai l’avesse detta è una frase che da un punto di vista della mafia, è una condanna a morte perché vuol dire: «D’ora in poi non vi arrestiamo più, vi spariamo» e quindi sarebbe stata tombale. L’ho scritto nel libro «I disarmati», c’è qualcuno che la riferisce, ma sono cose che è difficile provare. La questione delle monetine me l’hanno detta oltre a Pippo Russo credo anche altri. Bisogna però anche calarsi nello spirito di questi uomini. Uno come Montana che passa la vita, con uno stipendio da fame, a correre dietro a questi che hanno i miliardi e poi quando va a fare la perquisizione la moglie del mafioso dice che non hanno una lira e sono disperati, lo scatto da parte di Montana o di un poliziotto qualsiasi lo capisco perfettamente cioè non è una cosa strana, ti viene voglia.

PRESIDENTE. Come sempre diciamo, fate tutte le domande e poi si risponde se no se si fa botta e risposta non ne usciamo. Mancava la risposta sulle menti raffinatissime di Falcone.

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Circa le menti raffinatissime, la prima cosa che ho pensato sono stati i servizi segreti, naturalmente, però, ripeto, non ho avuto nessuna indicazione da lui. Ne avevo parlato anche con la giudice svizzera Dal Ponte, molti anni dopo, e anche lei non aveva indicazioni.

PRESIDENTE. Ricordi lei l’ultima domanda, senatrice Rando, non voglio fare da interprete.

VINCENZA RANDO. Le chiedevo se era stato teste nei tanti processi che ci sono stati, anche chiamato dalla parte civile.

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. No, solo nel processo richiamato dal senatore Scarpinato.

PRESIDENTE. Grazie, la parola al senatore Sallemi.

SALVATORE SALLEMI. Grazie presidente. Grazie dottore anche per lo spaccato di vita privata che ha raccontato oggi pomeriggio, è importante avere anche una visione umana di quegli eroi. Tornando al libro «I disarmati», lascia disorientati la lettura dei capitoli 16 e 17 nei quali fa parlare il consigliere Mele e il componente del CSM Geraci – lo aveva anticipato anche prima – per una sorta di disistima nei confronti di Falcone e Borsellino, per non dire anche un disprezzo, per usare un termine un po’ più forte. A seguito della pubblicazione del libro, se ricorda questa circostanza, vi sono state iniziative delle persone chiamate in causa, nello specifico Geraci e Meli, che abbiano manifestato un disappunto, chiesto correzioni, sporto una denuncia, chiesto rettifiche?

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Guardi, è curioso, io sono stato querelato da Collura, che era un poliziotto che ho intervistato – tra l’altro con Collura aveva un ottimo rapporto e credo di avergli fatto anche un bel servizio nel libro «I disarmati» – per una frase che tra l’altro aveva detto Laura Cassarà: «Lui è un fango». La cosa curiosa di Meli – e questo secondo me è anche rivelatore di un certo clima – è questa: Meli, lei ha letto questa intervista, definisce Borsellino non un farabutto ma apertamente «un delinquente» e io lo scrivo. Sono frasi da querela. Ma poi anche su Falcone. Fu un intero pomeriggio in cui io non feci una domanda e questo signore a rotta di collo fece quattro ore di chiacchiere, di insulti, di cose terrificanti e io mi chiedevo se non si rendesse conto che se io avessi scritto queste cose avrebbe fatto una figura terrificante. Era talmente rabbioso e pieno di odio che mi investiva con questa serie di calunnie e io scrivevo tutto. Un disastro. Pubblicai. Falcone non l’ha vista, ma Borsellino mi disse poi che la intervista con Motisi era stata fantastica. Dopo la morte di Borsellino, fui chiamato a fare conferenze e in particolare una la dovevo fare con il giudice Caponnetto, che era l’ultimo rimasto di quella vicenda. Il giudice Caponnetto si rifiutò di incontrarmi perché avevo pubblicato quell’intervista. Per me fu un mistero perché io stavo totalmente dalla parte del pool, totalmente, se uno legge. In genere tendo a non dare dei giudizi, ma da quello che scrivo, da quello che si legge, si capisce. Caponnetto si rifiutò di incontrarmi e per me è sempre stato un dolore. Disse che avevo dato voce a questo suo nemico che gli aveva dato del farabutto cosa che considerava estremamente scorretta. Mi dispiace perché avevo stima di Caponnetto, una stima indotta da Falcone, però nella vita non si può avere tutto.

PRESIDENTE. La parola all’onorevole De Corato.

RICCARDO DE CORATO. Anch’io la ringrazio, dottore. Quello che abbiamo sentito ci dà uno spaccato un po’ più chiaro. Di mafia e appalti il giudice Falcone in che termini gliene ha parlato, se ne ha parlato? Volevo capire se il giudice Borsellino le aveva riferito di pentiti che hanno parlato di mafia e appalti, se per caso ne avesse parlato con lei, non parlo di nomi, ma se ha detto che alcuni pentiti avessero fatto riferimento a questa vicenda.

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Con Falcone parlavamo di cose più generali, mai sul fatto specifico di una inchiesta, quindi no, non mi ha mai parlato in particolare degli appalti. Certo me ne ha parlato in termini generali, come se lei mi chiedesse se avesse parlato di droga sì, altro che, però con Falcone non si andava mai così nello specifico. Borsellino no, anche lui mi parlò per esempio di tanti pentiti, di altre cose, ma quando faceva gli excursus storici. Nello specifico, nel momento Pag. 29in cui c’erano delle indagini in corso, non mi diceva nulla. Mi ricordo che mi parlò per esempio di un killer che si chiamava Sinagra, se non sbaglio, che doveva fingersi pazzo, per ottenere un’infermità mentale e finse di suicidarsi in cella. Poi però si accorse che quello che era il suo camerata che doveva salvarlo per impedire che davvero morisse lo stava tirando giù e quindi capì che era a rischio perché lo stavano facendo fuori. Quindi Sinagra si pentì e diventò uno dei pentiti. Mi raccontava cose così, però parliamo di un episodio successo chissà quanto tempo prima, quindi, no, se devo darle una risposta concreta, preferisco dire di no.

PRESIDENTE. La parola al senatore Verini.

WALTER VERINI. Ringrazio anch’io il dottor Rossi per le cose che ci ha detto, anche se non dirò una parola in più rispetto a quelle che ha detto la senatrice Rando, che condivido totalmente, circa alcune definizioni. Lei ci ha anche descritto il suo amico – Borsellino – e lo ha fatto evidentemente con affetto, come un violatore dei protocolli di sicurezza. A parte le battute. Ha parlato poi di Andreotti e dell’episodio delle querele per diffamazione che sono state fatte nei confronti di quei pentiti, eppure erano noti i rapporti di Andreotti con i fratelli Salvo, così come erano notissimi i rapporti di Andreotti con Salvo Lima, così come è nota una sentenza della Cassazione che ha prescritto Andreotti per avere commesso il fatto fino alla primavera del 1980 e lo ha assolto per il successivo periodo. Mi fermo qui, non è questa la sede per dare giudizi ma, visto che lei ama nel suo lavoro fare quadro, anche questo è un elemento di quadro.
Mi ha colpito anche una cosa. Lei ha parlato di Geraci come di amico di Borsellino. Faccio presto, presidente, leggerò un virgolettato. Notoriamente, dopo la strage di Capaci, ci fu, tra Pag. 30le altre cose, anche la famosa assemblea indetta da MicroMega alla biblioteca di Palermo nella quale Borsellino parlò di giuda riferendosi a chi al CSM aveva tradito Falcone a favore di Meli. Naturalmente questa è una querelle, perché poi il giuda era stato per alcuni individuato, e il dottor Geraci ha vinto anche diverse citazioni in giudizio per diffamazione che aveva intentato. Ne aveva vinta in primo grado anche una nei confronti del giornalista Rino Giacalone. Il 20 giugno scorso, quindi dieci giorni fa, la Corte d’appello di Perugia ha dato ragione a Giacalone. Non c’è ancora la motivazione, ma nella sentenza però è riportata una frase che lei dovrebbe conoscere perché è contenuta nell’intervista che lei fa a Geraci. «La mia posizione di traditore» dice Geraci «venne già fuori nel pool. Quello che ho sostenuto al CSM è l’evoluzione di cose che vado dicendo dai tempi in cui ero parte del pool antimafia, quindi non è un tradimento». Prosegue nell’intervista: «Il paradosso è che sono stato io a sostenere la candidatura di Borsellino a Marsala, ho fatto il regista dell’operazione, ho convinto gli altri al CSM. Se non ci fossi stato Borsellino non avrebbe avuto alcuna chance. Oggi dopo quello che è successo le dico: sono pentito di aver fatto promuovere Borsellino a Marsala. Oggi come oggi mi guarderei bene dal farlo, mi sono convertito al principio dell’anzianità meritevole, è molto più utile» finisco «ma Borsellino» aggiunge Geraci nell’intervista a lei «voleva Marsala e lo sa perché? Perché voleva la procura con il mare, sì con il mare, a lui piace molto il mare, lo disse a me in presenza di amici, ma a lei Borsellino dice che voleva la regionalizzazione del pool, non le dice procura con il mare, a me non risulta che ci fosse un progetto di regionalizzazione, mi risulta invece che la scelta di Marsala fu per stanchezza». Ora, francamente, Geraci sarà stato anche amico di Borsellino, ma queste frasi non mi pare Pag. 31che rivelino un’amicizia, una lealtà. Questo per dire che spesso niente è come pare, oppure spesso così è se vi pare.
Infine la domanda. Lei sembra, per la sua esperienza, quindi in assoluta buona fede, circoscrivere molto il tema delle stragi, Capaci e poi via d’Amelio, al tema mafia e appalti, che certamente, per le audizioni che abbiamo fatto, è una delle componenti di quella fase. Mi pare però che «menti raffinatissime» esclusivamente rivolte all’indirizzo dei servizi segreti sia un grande complimento ai servizi segreti, specialmente deviati, e sia un tenere un po’ fuori dell’obiettivo e dal focus menti raffinatissime che probabilmente vanno individuate nei livelli politici, «istituzionali», magari italiani e anche internazionali. Pensa che sia una cosa plausibile questa?

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. Purtroppo, come le ho già detto prima, io sono molto legato al metodo Falcone, e quindi se non ho una prova, difficilmente mi lancio in un excursus. Come le ho detto, è possibilissimo che ci fossero influenze esterne, però una delle ragioni per cui ho pubblicato «I disarmati», incompleto, perché non era finito quando l’abbiamo pubblicato, è stata proprio questa. Mi ricordo che nei giorni immediatamente successivi alla morte di Falcone si leggevano le più strane interpretazioni. Addirittura ce n’era una, ricordo di averlo letto da qualche parte, che diceva che forse era stata la CIA, Central Intelligence Agency. Ecco, a me quelle cose hanno sempre fatto arrabbiare perché se uno si lancia nel campo delle illazioni, tutto vale e niente vale, come dire che Falcone è stato ucciso dai puffi, perché no? Poi te lo dimostro. Quando parliamo di interpretazioni che vanno al di là della possibilità di prova, sono molto cauto. Poi, per l’amor di Dio, se qualcuno mi dimostra che Falcone o Borsellino sono stati uccisi perché i servizi segreti tunisini li volevano eliminare, benissimo, però fino a quel momento preferisco pensare quello che loro mi hanno sempre insegnato cioè che, come le dicevo, che la mafia non si fa comandare.
La mafia può avere un interscambio di carattere commerciale, di uso, di beneficio con un politico, con diversi politici, ma quello che loro mi hanno insegnato è che non si fa comandare da nessuno, tantomeno da un politico.
La mia interpretazione, non è tanto mia: purtroppo sono cresciuto a quella scuola che insegnava così. Ripeto nessuno, né Falcone né Borsellino, ha mai escluso interferenze della politica, anzi c’erano e ci sono sempre state, e lo sappiamo bene quello che ricordava lei. Andreotti era strettamente legato ai Salvo e a Lima, erano uno dei suoi grossi bacini elettorali, quindi lungi da me negare questo, anzi sono molto contento che lo ricordi, però da questo a dire che Andreotti è mafioso ci passa un mare ed è la ragione della querela di Falcone. Se dico che gli amici di Andreotti, tra cui i Salvo, o sono mafiosi o hanno avuto frequentazioni è giustissimo, se dico Andreotti è «punciuto», lo devo dimostrare altrimenti la prima cosa che mi succede è che Andreotti mi querela. Quindi è in quel senso la cautela che ebbe Falcone in quello specifico caso che ho ricordato: in realtà poi la vera ragione, che Falcone capì subito, era che si trattava di una trappola, il pentito non era affidabile. Se lui avesse incriminato, cosa folle, Andreotti sulla base delle informazioni di questo qui, sarebbe finita malissimo, perché l’informazione di questo qui non valevano niente e sicuramente sarebbe stato un boomerang per Falcone. Questo fa parte della sua grande intelligenza, l’ha sempre detto: se si deve andare contro qualcuno particolarmente potente, bisogna avere tre ferri dietro la porta, l’ha sempre detto e penso che sia giusto e molto saggio.

PRESIDENTE. Grazie, prima di chiudere ho soltanto una domanda che mi viene proprio da queste cose che lei sta dicendo o più che altro dal metodo, che lei ci dice ci hanno lasciato Falcone e Borsellino, cioè di stare sui fatti. Nelle domande di prima mi sono soffermata sul famoso articolo del 21 luglio e l’ho fatto perché lei scrive quell’articolo sull’aereo andando a Palermo il 20 luglio, cioè il giorno dopo la strage, quindi con ricordi attuali, freschi, molto presenti, oserei dire. In quell’articolo racconta di questo famoso incontro con Borsellino, avvenuto 15 giorni prima, ma la Procura non la chiama? Non le chiede se quello che scrive era vero? Perché nel seguire i fatti mi verrebbe spontaneo parlare con chi afferma di aver avuto delle confidenze da una persona che è appena saltata in aria.

LUCA ROSSI, giornalista e scrittore. La Procura però era quella di Giammanco.

PRESIDENTE. Chiaro. Non ho altre domande. Non essendoci altri iscritti a parlare, ringrazio il dottor Rossi e dichiaro conclusa l’audizione.

  La seduta termina alle 17.40.


Luca Rossi intervista Paolo Borsellino, 6 luglio 1992

 

 

Strage di Via D’Amelio – In COMMISSIONE ANTIMAFIA le audizioni dei famigliari di Paolo Borsellino e testimoni

 

 

 

Il Rapporto “Mafia&Appalti” e l’eliminazione del dottor Paolo Borsellino