La procura nissena interrogherà l’ex magistrato del pool antimafia di Palermo sulle ipotesi di favoreggiamento e calunnia
Natoli avrebbe insabbiato elementi dell’inchiesta a Massa Carrara – poi confluiti nel ‘Mafia e appalti’ – nell’ambito della quale gli inquirenti avevano intercettato diversi imprenditori per dimostrare che gli affari di Cosa nostra si muovevano in Sicilia, ma anche in Toscana. Natoli avrebbe agito in concorso, secondo le accuse, con l’ex procuratore di Palermo Pietro Giammanco (deceduto) e con l’allora comandante della Guardia di Finanza Stefano Screpanti.
Lo scorso anno su ordine della procura di Caltanissetta le bobine dell’indagine di Massa Carrara – che inizialmente si era detto che erano state distrutte – sono state portate nella sede del Ros di Roma e qui è iniziato l’ascolto di tutte le conversazioni. Un anno dopo l’avvio delle operazioni i primi indagati della procura nissena.
Natoli è stato invitato a presentarsi dinanzi alla procura di Caltanissetta per fare fronte alle gravi contestazioni dei magistrati nisseni, su tutte “l’aggravante di aver agito al fine di favorire l’associazione mafiosa denominata Cosa nostra con riferimento – come emerge dall’invito “a presentarsi davanti al pm quale persona sottoposta alle indagini’ – agli interessi della stessa nel settore dell’aggiudicazione degli appalti (operazione gestita unitamente al mondo imprenditoriale e a quello della politica)”.
In relazione al reato di calunnia, Natoli, mediante “brevi note di chiarimento”, datate 23 gennaio 2024, “inviate spontaneamente” alla procura di Caltanissetta a mezzo pec il 6 febbraio scorso, avrebbe affermato “falsamente” che fosse stato compiuto “il reato di falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici”); segnatamente, “sostenendo che la locuzione manoscritta ‘e la distruzione dei brogliacci’, vergata sul provvedimento di smagnetizzazione delle bobine delle intercettazioni telefoniche eseguite nel procedimento penale n. 3589/1991, recante la sua firma e depositato il 25 giugno 1992, era stata apposta dopo il deposito dell’atto presso la segreteria del Centro intercettazioni telefoniche”, incolpando “l’allora responsabile amministrativo di tale ufficio, che aveva ricevuto il provvedimento del delitto di falso materiale, pur sapendolo innocente”.
Con “la circostanza aggravante”, si legge ancora nell’invito a presentarsi notificato a Natoli, “di aver commesso il fatto per nascondere il reato di favoreggiamento alla mafia, “in quanto in concorso con l’allora procuratore Pietro Giammanco”, quale “istigatore”; con “l’allora capitano della Guardia di finanza Stefano Screpanti, quale coesecutore materiale”, “aiutava Antonino Buscemi, Francesco Bonura, Ernesto di Fresco, nonchè Raoul Gardini, Lorenzo Panzavolta, Giovanni Bini (gli ultimi tre al vertice del cosiddetto Gruppo Ferruzzi) ad eludere le investigazioni dell’autorità”.
In questo modo, secondo la procura nissena, “insieme al capitano Screpanti, svolgeva, in seno al procedimento penale n. 3589/1991 R.G.N.R.Mod.21 della procura di Palermo, una ‘indagine apparente’, richiedendo, tra l’altro, l’autorizzazione a disporre attività di intercettazione telefonica per un brevissimo lasso temporale (inferiore ai 40 giorni per la quasi totalità dei target) e solo per una parte delle utenze da sottoporre necessariamente a captazione, per assicurare un sufficiente livello di efficienza delle indagini”.
Natoli avrebbe disposto “d’intesa con l’ufficiale della Guardia di finanza, che non venissero trascritte conversazioni particolarmente rilevanti, da considerarsi vere e proprie autonome notizie di reato, dalle quali emergeva la ‘messa a disposizione’ di Di Fresco in favore di Bonura, nonchè una concreta ipotesi di ‘aggiustamento’, mediante interessamento di Di Fresco, del processo pendente innanzi alla Corte d’Assise di Appello di Palermo, sempre a carico di Bonura, nonchè di Stefano Fontana e Vincenzo Di Maio per il duplice omicidio Chiazzese-Dominici”.
E non avrebbe avviato “alcuna indagine nei confronti degli imprenditori Luciano Laghi e Claudio Scarafia, “sebbene i due fossero risultati a completa disposizione di Francesco Bonurace dei suoi familiari”. Avrebbe poi richiesto l’archiviazione del “procedimento penale n. 3589/ 1991 Mod .21” della procura di Palermo “senza curarsi di effettuare ulteriori approfondimenti e senza acquisire il materiale concernente le indagini effettuate dalla procura della Repubblica di Massa Carrara; infine, per occultare ogni traccia del rilevante esito delle intercettazioni telefoniche, ha disposto la smagnetizzazione delle bobine e la distruzione dei brogliacci.
Con l’aggravante di aver agito al fine di favorire l’associazione mafiosa denominata cosa nostra con riferimento agli interessi della stessa nel settore dell’aggiudicazione degli appalti (operazione gestita unitamente al mondo imprenditoriale e a quello della politica”).
Natoli, pm ‘duro e puro’ e il Rapporto mafia appalti
Una fama di duro e puro, pronto a mostrare la Costituzione della Repubblica in una manifestazione di protesta generale indetta nel 2010, quando Gioacchino Natoli era vicepresidente nazionale dell’Anm:all’inaugurazione dell’anno giudiziario, per rivendicare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura rispetto alle invasioni di campo della politica (presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi, guardasigilli Angelino Alfano), i giudici si presentarono in toga e con la Costituzione in mano.
Presidente dell’associazione nazionale di cui Natoli era vice, all’epoca, era Luca Palamara, poi finito al centro di inchieste e oggi radiato dalla magistratura. Ora, d’improvviso, in bassa fortuna si ritrova lo stesso ex pubblico ministero del processo Andreotti, poi divenuto giudice e che ha concluso la carriera da presidente della Corte d’appello di Palermo, incarico che ha avuto fino al 2017, per chiudere del tutto con un anno di incarico al ministero della Giustizia, guidato da Andrea Orlando, come capo dell’Organizzazione giudiziaria.
Natoli – adesso indagato a Caltanissetta per calunnia e favoreggiamento, in riferimento al rapporto mafia e appalti – ha oggi 77 anni ma da giovane era stato, negli anni ’80, giudice istruttore del pool antimafia di cui facevano parte anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Erano gli anni di piombo siciliani, quelli in cui stavi da una parte o dall’altra: e da una parte, quella di magistrati, investigatori, politici scomodi, si moriva o comunque si rischiava.
Gioacchino Natoli si era sempre collocato su quelle posizioni intransigenti, restie ad accordi, interlocuzioni, colloqui, compiacenze con la parte opposta, quella delle collusioni e delle inconfessabili intese con Cosa nostra, fatta di borghesia e politica. Così, dopo le stragi del ’92, Natoli – nel frattempo passato in procura – si ritrovò in mezzo al guado. Non fu tra gli otto firmatari della lettera con cui, dopo via D’Amelio, un gruppo di pm presentò le proprie dimissioni, di fatto chiedendo al procuratore Pietro Giammanco di lasciare. E lui, il criticatissimo capo della Dda, ritenuto molto vicino all’esponente democristiano Mario D’Acquisto, della corrente andreottiana siciliana di Salvo Lima, lascerà effettivamente tra le polemiche.
Tra gli otto firmatari non c’era Natoli ma nemmeno Guido Lo Forte: eppure i due si ritroveranno, con Roberto Scarpinato (che invece la lettera la firmò) a far parte di un altro pool antimafia, quello della Procura, guidato, a partire dal 15 gennaio 1993, da Gian Carlo Caselli. Il nuovo procuratore arrivato da Torino e dall’esperienza maturata nella lotta al terrorismo (e poi al Csm) si fiderà ciecamente dei tre pm, ai quali affiderà la gestione della delicatissima inchiesta sull’omicidio proprio di Salvo Lima e poi l’istruttoria del processo dei processi, quello contro il senatore a vita Giulio Andreotti.
Caselli si insedia il 15 gennaio 1993, giorno della cattura di Totò Riina, successo enorme dello Stato e dei carabinieri del Ros, subito macchiato dalla mancata sorveglianza del covo del superboss, che poi verrà ripulito da emissari corleonesi, sicuri di non essere scoperti. La villa del complesso residenziale di via Bernini, ufficialmente, sarà “trovata” solo il 2 febbraio, diciotto giorni dopo. Nelle polemiche al veleno che ne seguiranno, più e più volte l’allora vicecomandante del Ros, Mario Mori, regista dell’operazione conclusa con la cattura di Riina, evocherà il rapporto Mafia e appalti come la vera causa dello scontro con i magistrati di Palermo.
Un rapporto, presentato la prima volta nel 1990, che conteneva la fotografia dei rapporti tra Cosa nostra, politici e imprenditori collusi: questo secondo il Ros, mentre la procura ha sempre sminuito il peso di quel contributo investigativo, ritenuto monco o privato a bella posta di varie parti. In oltre trent’anni di quell’informativa si è parlato tantissimo e proprio di recente è stata nuovamente indicata dall’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino nei processi sulla strage e sul depistaggio delle indagini, come il filone in cui Paolo Borsellino credeva di più per dare un volto agli assassini e ai mandanti esterni della strage Falcone.
Nel tempo gli ambienti della procura, di Mafia e appalti avevano detto l’opposto e cioè che serviva a poco, che era aria fritta e che da li’ non sono mai venuti fuori filoni importanti. Oggi torna ancora una volta di attualità con l’inchiesta della Procura di Massa Carrara, che nel 1991 era stata trasmessa proprio al pm Natoli.
E a raccontare questi fatti alla commissione nazionale Antimafia era stato l’avvocato Trizzino.