Via D’Amelio, dopo 32 anni certa “antimafia” vede crollare i suoi dogmi

 

18 luglio, 2024 • DOMANI Damiano Aliprandi

Mafia- appalti e la via crucis di Paolo Borsellino nel “nido di vipere” della procura di Palermo. Da Ottaviano Del Turco a Chiara Colosimo: nei loro confronti lo stesso ostruzionismo politico in antimafia

Per oltre 30 anni è esistito un fronte granitico di una certa antimafia, non priva di personaggi grotteschi – si pensi all’uomo con le stimmate che parla con gli esseri di luce provenienti dal Sole – che ha sponsorizzato le teorie più disparate sulla strage di Via D’Amelio, ciclicamente riproposte come novità. Questo fronte è però andato in cortocircuito quando, per la prima volta, Fiammetta Borsellino, la figlia più piccola del giudice trucidato dalla mafia, è “scesa in campo” ricordando il ruolo, poco esplorato, dei magistrati inquirenti sulla gestione del pentito farlocco Scarantino. Non solo: la goccia che ha mandato in isteria l’antimafia da palcoscenico è stata quando ha indicato la questione del dossier mafia-appalti e la sua gestione da parte della Procura di Palermo di allora. E questo non le verrà mai perdonato.

Un duro colpo al fronte unico e interessato lo ha dato l’avvocato Fabio Trizzino, genero di Borsellino e rappresentante legale dei figli. Da quando ha articolato con minuzia di particolari la via crucis del giudice in quei cinquantasette giorni che separano la morte di Falcone dalla sua, e soprattutto smontando le manipolazioni, è partita la macchina della denigrazione. Incredibile è stato il comportamento di alcuni deputati del Pd, in particolare Walter Verini, che nella commissione Antimafia guidata da Chiara Colosimo ha contribuito a delegittimare l’audizione dell’avvocato Trizzino. Come non ricordare quando, in audizione, il legale dei figli di Borsellino ha ricordato la singolare richiesta da parte dell’allora magistrato Gioacchino Natoli volta alla distruzione dei brogliacci e alla smagnetizzazione delle bobine relative alle sue indagini – secondo l’attuale procura di Caltanissetta guidata da Salvatore De Luca – “apparenti”, scaturite dalla nota giunta dal procuratore Augusto Lama di Massa Carrara sul ruolo dei fratelli mafiosi Buscemi con la Ferruzzi-Gardini, individuati dall’allora maresciallo della finanza Franco Angeloni. Ruolo delineato anche dal dossier dei Ros, già depositato.

Ebbene, subito Natoli si fa intervistare dal Fatto Quotidiano. A seguito di quell’intervista, il deputato Verini chiede di farlo sentire in Antimafia, per le “ricostruzioni scarsamente credibili, che hanno messo perfino in discussione ruoli e comportamenti posti in essere da un magistrato di valore e di coerente impegno nel contrasto alla mafia come Gioacchino Natoli”. Secondo Verini, la ricostruzione dell’avvocato Trizzino, voce dei figli di Borsellino, era “scarsamente credibile”. Forse, così scarsa non è, visto che Natoli stesso è stato raggiunto da un avviso di garanzia e, per ora, legittimamente si è avvalso della facoltà di non rispondere. È comprensibile che il M5S, che ha tra le sue fila gli ex magistrati Roberto Scarpinato e Cafiero De Raho, si opponga ferocemente alla ricostruzione dell’avvocato Trizzino, ma è singolare che lo faccia il Pd. Forse Elly Schlein, la quale anche per questioni anagrafiche è fuori, per dirla come Giovanni Falcone, da quel “gioco grande”, potrebbe intervenire.

Un cambiamento ci vuole, perché la problematica politica è antica. Mentre Chiara Colosimo è contrastata dai commissari che sono all’opposizione (tranne Italia Viva, +Europa e almeno per adesso anche l’alleanza Verdi e Sinistra, i quali hanno dimostrato di avere rispetto per il legale dei figli di Borsellino) – un contrasto particolarmente significativo data l’inspiegabile interruzione dell’audizione dell’avvocato Ugo Colonna, legale del collaboratore Maurizio Avola -, alla fine degli anni 90 si verificò un precedente singolare. Ottaviano Del Turco, all’epoca presidente della commissione Antimafia, incontrò l’opposizione della sua stessa maggioranza di centrosinistra quando portò in audizione l’allora maresciallo Carmelo Canale, braccio destro di Borsellino. La motivazione ufficiale era che all’epoca Canale era sotto inchiesta (poi definitivamente assolto), ma la verità è che egli osò affermare che Borsellino non aveva piena fiducia in alcuni colleghi della procura di Palermo. Su consiglio dello stesso Del Turco (per proteggerlo dalle inevitabili ripercussioni), Canale non fece i nomi.

All’epoca scoppiò il bubbone di mafia-appalti. Ne nacque una polemica fra Ros e l’allora procura di Palermo che aprì la sequenza di processi contro il generale Mario Mori, e lo scontro si spostò sui giornali, dove le parti della procura furono sostenute da Repubblica e Unità e quelle del Ros da Peppe D’Avanzo, allora al Corriere della Sera. Ci furono indagini a seguito delle querele vicendevoli tra l’allora Ros De Donno e alcuni dell’allora procura palermitana. Addirittura scoppiò il caso della gestione del pentito Angelo Siino da parte dei magistrati palermitani, quando per questioni di opportunità non potevano farlo visto che c’erano indagini in corso sulla questione della fuga di notizie e corruzione. Le accuse vicendevoli si conclusero con l’archiviazione dell’allora Gip Gilda Lo Forti. Sul fatto di Siino, la corrente Unicost chiese al Csm di aprire una procedura contro alcuni togati palermitani. Ovviamente non fu dato seguito a tale richiesta. E in quel contesto c’era appunto Del Turco come presidente della commissione Antimafia. Ma la procura di Palermo di allora era intoccabile, guai a muovere critiche. La storia in qualche modo si ripete, ma forse ci sarà un finale diverso. Dopo 32 anni di tesi fuorvianti, non è ammissibile che tutto ritorni come prima.

Al netto delle varie ricostruzioni, bisogna partire da un dato di fatto. Borsellino si era insediato nel nuovo ufficio di procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo nel gennaio del 1992 e il suo arrivo era stato percepito con preoccupazione da Cosa Nostra, al punto che Pino Lipari (vicino ai vertici dell’organizzazione mafiosa) aveva commentato che il suo arrivo avrebbe creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco (l’allora capo della procura, ndr)”. Non erano state poche le difficoltà iniziali incontrate dal giudice Borsellino, al quale erano state delegate solo le indagini per le province di Trapani e Agrigento, e non per quella di Palermo. A tale proposito le plurime sentenze del tribunale di Caltanissetta hanno ricostruito, anche sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla moglie del magistrato e da alcuni suoi stretti collaboratori e colleghi, le ragioni del contrasto fra Borsellino e l’allora procuratore capo della Procura di Palermo, ricordando come tale delega, più volte sollecitata da Borsellino, gli fosse stata conferita solo la mattina del suo ultimo giorno di vita.

Borsellino, inoltre, aveva mostrato particolare attenzione, dopo la morte del collega e amico Giovanni Falcone, per le inchieste riguardanti il coinvolgimento di Cosa Nostra nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale. Come dichiarato, nell’ambito del procedimento Borsellino ter, dai testi Mario Mori e Giuseppe De Donno, il magistrato aveva loro proposto – nel corso di un incontro dedicato che aveva avuto luogo il 25 giugno 1992 presso la caserma dei Carabinieri Carini di Palermo – la costituzione, presso il Ros dei Carabinieri, di un gruppo coordinato da De Donno che avrebbe dovuto sviluppare le indagini in tema di mafia e appalti. L’interesse mostrato dal giudice Borsellino per quel settore di indagini, unitamente all’incarico che ricopriva quale Procuratore Aggiunto e alla prospettiva che venisse nominato Procuratore Nazionale Antimafia, costituivano ragioni idonee, per Cosa Nostra, a far ritenere necessaria l’accelerazione (sia Borsellino che Falcone erano condannati a morte fin dagli anni 80) e la determinazione della sua eliminazione. Anche perché, a quel punto, avrebbe avuto la forza di coordinarsi con Antonio Di Pietro e allargare la questione di tangentopoli alla mafia. Che Borsellino, negli ultimi giorni di vita, stesse lavorando sugli appalti, emerge dai verbali desecretati dalla attuale commissione Antimafia. Qualcuno, all’interno della procura, aveva remato contro. E non poteva essere solo Giammanco.