A Via D’Amelio, il 19 luglio 1992, sono morti con Paolo Borsellino 5 agenti di scorta: andiamo a scoprire chi sono davvero, che cosa fanno, come imparano, gli agenti che sempre nell’ombra fanno questo rischioso e complicato lavoro.
L’ombra è la loro dimensione: sono l’ombra delle persone che devono proteggere, stare nell’ombra è una necessità, per discrezione e perché passare inosservati li rende meno vulnerabili. Domenica 19 luglio fanno 23 anni dalla Strage di via D’Amelio in cui sono morti il magistrato Paolo Borsellino e gli aagenti Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Emanuela Loi, che una memoria sgarbata continua a chiamare “la scorta”. Nell’ombra per sempre, uniti in una sintesi inanimata che non tiene conto delle loro vite, della loro fatica, delle loro storie, del rischio che si sono presi – e che altri continuano a prendersi dopo di loro – da volontari: perché al servizio scorte si va per scelta.
I sentimenti delle famiglie, la brutta cronaca siciliana di questi giorni, il processo in corso a Caltanissetta – il quarto – in cerca si una verità sempre più difficile man mano che il tempo passa – fanno intendere che non è aria di passerelle e di commemorazioni. Meglio allora, quei cinque, provare a immaginarli com’erano, raccontando che cos’è una vita da scorta e come si arriva a quel ruolo in prima linea.
Agenti di scorta non si nasce, nel senso che non basta vestire la divisa della Polizia di Stato (anche se le scorte per non apparire lavorano in borghese), lo si diventa per scelta aggiungendo alla preparazione tecnica di base, un addestramento supplementare, specifico e selettivo che comincia con il corso di prima formazione di 5 settimane al Centro di addestramento e istruzione della Polizia di Stato (Caip) di Abbasanta in Sardegna (test psicoattitudinali in ingresso ed esami di idoneità in uscita) e continua con periodi di aggiornamento a cadenza triennale, per stare al passo con l’evoluzione di tecniche e rischi.
«La scuola di Abbasanta – spiega Antonio Pigozzi, primo dirigente della Polizia di Stato, direttore del Caip – esiste dal 1970, dal 1979 forma gli agenti destinati ai servizi di protezione personale dei soggetti a rischio di attentato, non solo della Polizia di stato, ma anche delle polizie a ordinamento civile». In Italia attualmente la legge prevede quattro livelli di protezione, dal 4 il più basso, all’1, il più elevato, con una dotazione di uomini e di mezzi in proporzione al rischio valutato oggettivamente secondo l’attività di intelligence. «Dal 2003 il servizio scorte è gestito dall’ Ucis, l’ufficio centrale interforze per la sicurezza personale, mentre prima faceva capo ai Prefetti. I corsi, patrocinati dall’Ucis, si svolgono con modalità analoghe perla polizia, i carabinieri, la guardia di finanza e la polizia penitenziaria».
Domenico Comunale, vicequestore aggiunto e vice direttore del Cais, traccia l’identikit dell’agente di scorta, ma sgombera il campo dall’immaginario muscolare del ruolo: «Accanto alle attitudini di base, estremo equilibrio, buon senso, capacità di gestire lo stress, formazione deontologica, dal punto di vista tecnico ha bisogno di intuito, intelligenza, capacità di osservazione degli scenari, capacità di previsione: l’essenza della funzione di un agente di scorta è la prevenzione del rischio: si tratta di fare in modo che la persona protetta non arrivi a trovarsi in situazioni di pericolo che vanno, invece, prevenute. E’ chiaro che questo non può prescindere dal livello di reattività fisica che il servizio richiede nei casi estremi, qualora dovessero verificarsi. Si cerca, comunque, di trasmettere l’idea che non esiste momento di stand by, che anche quando il protetto è in un luogo sicuro, chi fa scorta continua a gestire lo scenario per cogliere in tempo utile i segnali di cambiamento».
Un profilo complesso che richiede capacità di bilanciare relazione e discrezione, oltreché saperi tecnici, al quale negli anni si sono progressivamente affacciate anche le donne, sempre meno vissute come un’eccezione: «Il più efficace agente di scorta – continua Comunale – è quello che riesce a gestire il rapporto con la persona protetta in modo da averne la collaborazione attiva. Se la persona protetta avverte l’operatore – uomo o donna che sia – come colui che garantisce la continuazione della vita quotidiana e le sue attività in sicurezza, sarà più propensa ad accettare di sentirsi dire che una certa cosa non si può fare, perché non ci sono le condizioni per evitarne il rischio. Le donne, progressivamente più numerose negli anni, hanno avuto il problema di superare il concetto antropologicamente maschile dell’atto della protezione, ma hanno portato in più una preziosa dote di empatia, di intuito, di dimensione aggregante nella dinamica di gruppo». Elementi preziosi, quando si tratta – come sempre accade – di dover proteggere le vite degli altri, cercando di invaderle il meno possibile.
17/07/2015 FAMIGLIA CRISTIANA Elisa Chiari