FALCONE E BORSELLINO – UN BINOMIO INSCINDIBILE

 


di Francesco La Licata*

Falcone e Borsellino: due nomi, un solo luogo del nostro immaginario collettivo, a testimonianza di una tragedia che ha colpito tutti, un intero popolo. E’ difficile scindere questo binomio, impossibile parlare di Giovanni senza immediatamente ricordare Paolo.
Nella nostra mente si è insediato un automatismo che sarà difficile rimuovere. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano uniti in vita, legati da un mestiere che per loro era missione: liberare la società civile dall’oppressione di una mala pianta – la mafia – che nasce, vive e prospera nello stesso umore nutritivo prodotto dalla Sicilia.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono ora inscindibili nella nostra memoria. Come accade per quanti diventano simbolo contro la loro stessa volontà, eroi soltanto per aver voluto esercitare il diritto di affermare le proprie idee, per aver rifiutato la via facile dell’accomodamento e del quieto vivere.
La loro fine, orribile e tragica, li ha fusi insieme. Così che oggi, quasi naturalmente, il viaggiatore che si avvicini alla Sicilia sentirà i loro nomi prima ancora di mettere piede nell’Isola. Al momento dell’atterraggio sarà la voce del comandante ad informare che “tra pochi minuti atterreremo all’aeroporto Falcone – Borsellino“. I siciliani, i siciliani onesti, amano quei magistrati caduti a meno di due mesi l’uno dall’altro. I mafiosi li rispettano, come li temevano quando erano vivi. […]
I colpi subiti dai collaboratori di giustizia, i pentiti. Invenzione di Giovanni Falcone, quando nessuno osava soltanto pensare alla eventualità che uno strumento rivelatosi essenziale contro il terrorismo potesse risultare praticabile nella lotta alla mafia. Falcone portò in Italia un Buscetta pentito che doveva aprire la strada al ripensamento di tanti altri boss come Salvatore Contorno, Nino Calderone e Francesco Marino Mannoia. Bastò questo per segnare tanti punti, innanzitutto l’esito del primo maxiprocesso: una disfatta per Cosa Nostra.
Già, il maxiprocesso. Fu forse allora che Falcone e Borsellino firmarono la loro condanna a morte. Cosa Nostra capì che non ci poteva essere convivenza tra i propri interessi e quei due magistrati che parlavano in palermitano, capivano il linguaggio cifrato del baccaglio mafioso, si muovevano perfettamente a loro agio tra ammiccamenti, sguardi, segni apparentemente enigmatici, bugie e tragedie inesistenti, ordite semmai dal nulla per giustificare reazioni cruente. I due ex ragazzi della Kalsa, che in gioventù avevano giocato al calcio con coetanei poi arruolati dai boss, si ritrovavano insieme a contrastare un mondo che conoscevano e capivano perfettamente per averne trafugato, a suo tempo, la chiave di lettura. Per questo poterono dialogare coi collaboratori, riuscirono ad ottenerne la fiducia offrendo in cambio la semplice parola d’onore che avrebbero fatto tutto il possibile per aiutarli.
Eppure Falcone e Borsellino non dovevano vedersela solo coi bravi ragazzi che maneggiano pistole, eroina e tritolo.
La storia della vita e della morte di questi due eroi siciliani non lascia spazio a dubbi e ambiguità: Giovanni e Paolo non erano molto amati neppure nelle stanze che contano. Ovvio, si trattava di ostilità che si manifestava in modo diverso. Eppure quella ostilità pesava esattamente quanto le pallottole.
A Giovanni Falcone fu riservata prima la tagliente ironia del Palazzo di Giustizia di Palermo, poi la saccente campagna di stampa contro la presunta smania di protagonismo, quindi un vero e proprio sbarramento che gli avrebbe precluso il naturale ruolo di coordinatore delle inchieste sulla mafia. Analoghe difficoltà avrebbe poi incontrato Borsellino durante la sua permanenza a Palermo, dopo l’esperienza di Marsala, nella stanza di procuratore aggiunto.
Una marcia lenta, quella di Falcone, verso la delegittimazione, fino al tritolo di Capaci, passando per l’inquietante avvertimento dell’Addaura (attentato fallito del giugno 1989) che si saldava con le bordate anonime degli scritti del corvo.
Quando Falcone salta in aria, Paolo Borsellino capisce che non gli resterà troppo tempo. Lo dice chiaro: “Devo fare in fretta, perché adesso tocca a me”. Nessuna fantasia di tragediografo ha mai prodotto nulla di simile.
A rileggere oggi gli ultimi movimenti, le ultime parole di Paolo Borsellino, ci si imbatte in un uomo cosciente della propria fine imminente, perfettamente consapevole persino del possibile movente, eppure incapace di tirarsi indietro. Forse speranzoso di potercela fare, forse rassegnato ad una morte che in cuor suo doveva al suo amico Giovanni. […]

*Francesco La Licata nasce a Palermo nel 1957. Comincia la sua carriera da giornalista negli anni Settanta presso la redazione del quotidiano L’Ora. Negli anni Ottanta collabora con il quotidiano La Stampa.
Esperto di mafia, partecipa a vari progetti fra i quali: le trasmissioni televisive Mixer e Blu Notte.
Testimone delle pagine di storia più nere del nostro Paese, dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, alla cattura dei boss e degli uomini di mafia, da Riina a Provenzano, non ha mai smesso di approfondire le tematiche legate alla criminalità organizzata.
La Licata è fra coloro che pensano che “con Falcone e Borsellino vivi, la storia dell’Italia sarebbe andata in maniera diversa”.
Ha pubblicato:
- Falcone vive, con L. Galluzzo, S. Lodato, Flaccovio, 1992;
- Storia di Giovanni Falcone, Feltrinelli, 2003;
- Sbirri, con M. Numa, G. Olimpo, M. Portauova, E. Rosaspina, BUR, 2007;
- Pizzini, veleni e cicoria. La mafia prima e dopo Provenzano, con P. Grasso, Feltrinelli, 2008;
- Don Vito. Le relazioni segrete tra Stato e mafia nel racconto di un testimone d’eccezione, con M. Ciancimino, Feltrinelli, 2010.