Erano rispettati e potenti, in Sicilia e nel Nord Italia. Gli imprenditori mafiosi Franco Bonura e i fratelli Salvatore e Antonino Buscemi erano riusciti a fare affari con il gruppo Ferruzzi. Avevano un’arma in più, potevano contare sulle soffiate giuste.
Tra i primi a intuire il loro potere era stato Augusto Lama che all’inizio degli anni Novanta faceva il sostituto procuratore a Massa Carrara. Fui lui a scoprire l’infiltrazione dei mafiosi palermitani nelle cave toscane e a inviare gli atti alla Procura di Palermo.
Era la genesi dell’indagine “mafia e appalti”, ma l’inchiesta fu archiviata. Paolo Borsellino ne capì l’importanza, ma non ebbe l’opportunità di lavorarci. Il tritolo stroncò a sua vita e con essa ogni cosa.
Cosa Nostra tentava di ripulire gli enormi guadagni della droga investendoli nelle cave di marmo attraverso le imprese Sam e Imeg, controllate dalla Calcestruzzi spa del gruppo Ferruzzi, che a sua volta era controllata dalla mafia corleonese.
I telefoni erano intercettati. I pm di Massa Carrara lavoravano in gran segreto eppure, come lo stesso Lama ha confermato, “si notavano alcune intercettazioni in cui si diceva, da parte dei personaggi gravitanti sulle due aziende apuo-versiliesi, che vi era un’autorità giudiziaria che stava indagando sui collegamenti mafiosi all’interno del gruppo Sam e Imeg e che, sarebbe risultato chiaro che dietro a tutta questa operazione vi era proprio il signor Buscemi Antonino (ormai deceduto ndr)”.
Riepilogando: c’è chi sapeva che c’era un’indagine in corso e che il pezzo grosso era Antonino Buscemi, l’uomo di Cosa Nostra dentro le cave.
Ancora Lama: “Questo francamente è un aspetto un po’ misterioso della vicenda, perché, nel novembre 1991 io naturalmente operavo ancora del tutto cripticamente”. Come facevano a sapere delle indagini in corso? È uno dei tanti misteri. Di sicuro “i telefoni cominciavano a tacere”.
Silenzio. Così come, questa è l’ipotesi di accusa della Procura di Caltanissetta che ha ripreso in mano la vicenda tre decenni dopo, sarebbe stata silenziata l’indagine sui Buscemi che la Procura di Palermo aveva aperto sulla base delle carte inviate dai colleghi di Massa Carrara.
O meglio fu aperta un’indagine, ma non si andò a fondo. Si sarebbe fatto solo finta di indagare e poco dopo arrivò l’archiviazione. È andata veramente così e soprattutto c’è stata la complicità di magistrati? Riccardo Lo Verso LIVE SICILIA 11.8.2024
I miliardi del gruppo Ferruzzi e le stragi: la genesi di “mafia e appalti”
C’è un pezzo di storia italiana nell’indagine “Mafia e appalti”. Una storia di miliardi di vecchie lire, di mafiosi e tangentisti, e di collusioni con potenti gruppi imprenditoriali.
L’inchiesta di Caltanissetta, che vede coinvolto l’ex pubblico ministero di Palermo Gioacchino Natoli, riporta indietro le lancette del tempo, fino all’inizio degli anni ’90. L’accusa ipotizza che Natoli, ma il vero istigatore sarebbe stato l’allora capo della procura palermitana Pietro Giammancooggi deceduto, avrebbe insabbiato un’indagine partita da Massa Carrara.
Un’indagine che, qualora fosse stata alimentata, avrebbe arricchito il dossier “Mafia e appalti” a cui lavoravano i pm di Palermo e il generale del Ros Mario Mori, processato e assolto per la cosiddetta trattativa Stato-mafia.
Per anni il patto sporco è stato considerato come l’unica spiegazione di gran parte delle nefandezze repubblicane, la causa dell’accelerazione della strage di via D’Amelio. Paolo Borsellino si sarebbe accorto che lo Stato traccheggiava con Cosa Nostra e lo fecero saltare in aria. Un postulato, più che una ricostruzione, andato in frantumi al termine del processo.
L’attenzione (anche fra coloro che, stampa inclusa, hanno sposato acriticamente la teoria della Trattativa come atto di fede) e le indagini sono tornate a concentrarsi sul dossier “Mafia e appalti” che sarebbe stato colpevolmente trascurato (nella migliore delle ipotesi) o (nella peggiore) dolosamente insabbiato. Nel cambio di prospettiva ha inciso la forte critica dei figli di Borsellino nei confronti di chi ha sempre e solo parlato di Trattativa. Ed ecco che le carte ingiallite dal tempo tornano di attualità. Il procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca, l’aggiunto Pasquale Pacifico e i sostituti Davide Spina e Claudia Pasciuti ipotizzano che Natoli avrebbe aiutato a eludere le indagini sui mafiosi Antonino Buscemi e Francesco Bonura, l’imprenditore ed ex presidente democristiano della provincia di Palermo Ernesto Di Fresco e i vertici del Gruppo Ferruzzi, e cioè gli imprenditori Raul Gardini, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini.
Ricevute le carte da Massa-Carrara sulle infiltrazioni mafiose nelle cave toscane, a Palermo avrebbero avviato una “indagine apparente”. Avrebbero fatto finta di scavare. Insomma, una messinscena giudiziaria. Tutto inizia il 2 settembre 1991 quando il sostituto procuratore Augusto Lama invia una nota ai colleghi palermitani che già lavorano al dossier e hanno acceso i riflettori sulla Calcestruzzi Spa, colosso delle opere pubbliche controllato dal gruppo Ferruzzi-Gardini.
A Massa Carrara hanno scoperto il legame tra la mafia siciliana e il gruppo Ferruzzi, proprietario delle due società Sam e Imeg che controllano il 60% dei bacini marmiferi. All’inizio si parla di “elementi siciliani non ben definiti”.
L’amministratore delegato della Sam è l’ingegnere palermitano “Girolamo Cimino, coniugato con Buscemi Giuseppe Pia Maria, sorella di Buscemi Salvatore e di Buscemi Antonino. Costoro insieme al cognato Bonura Francesco sono gli attuali reggenti del mandamento mafioso Passo di Rigano-Uditore”.
Il vero affare di Gardini “non sarebbe tanto il controllo del commercio dei marmi in sé per sé quanto e soprattutto il cosiddetto processo di desolforazione, cioè l’abbattimento degli acidi nei processi di lavorazione industriale in cui è previsto l’uso di polvere di marmo. Il che consisterebbe l’uso diretto dello scarto, un affare di centinaia di miliardi”.
Le cose non vanno come previsto. “A seguito del recente terremoto al vertice della Ferruzzi che ha visto l’allontanamento di Gardini”, i siciliani fanno il colpo grosso e prendono il controllo delle cave.
I pm di Massa Carrara hanno raccolto “alcune informazioni riservate secondo cui al siluramento di Gardini non sarebbero state estranee, tra l’altro, anche alcune informazioni pervenuta alla Ferruzzi circa le indagini condotte da questo ufficio sui rapporti tra Gardini e i suoi uomini della Calcestruzzi Ravenna ed ambienti dell’edilizia e dell’attività estrattiva siciliana di provenienza mafiosa”.
Natoli, incaricato di occuparsi della nota e delle indagini, chiede l’archiviazione il 9 giugno 1992. Il 19 giugno 1992 il gip Renato Grillo accoglie la richiesta e chiude il caso.
Nella richiesta di Natoli, basate sulle indagini della finanza (anche l’allora comandante Stefano Screpanti è ora indagato), si legge che “gli esiti di tali investigazioni non hanno consentito però di accertare circostanze specifiche, singoli episodi o altri elementi di fatto che possano ricollegarsi ai fatti criminosi ipotizzati (associazione di tipo mafioso e riciclaggio di denaro sporco) e non invece a normali rapporti commerciali, legati alle partecipazioni e alle cointeressenze dalle suddette società ed altre note ed importanti società operanti nel settore mammifero o in altri a quello correlati”.
Ed ancora: “In particolare è risultato che i fratelli Buscemi Salvatore da Antonino in realtà hanno un ruolo di notevole spessore nel controllo delle due società ed anche della Calcestruzzi spa di Palermo e che queste società sono state in rapporti oltre che commerciali anche di scambio o di concambio di pacchetti azionari con la calcestruzzi Ravenna Spa di proprietà della nota famiglia Ferruzzi”.
Le cointeressenze sono indubbie, ma “le indagini, giova ripeterlo, non hanno comunque fornito spunti idonei a individuare singoli episodi costituenti fatti di reato”.
Natoli firma il provvedimento per smagnetizzare le bobine delle intercettazioni e distruggere i brogliacci (allora era praticamente una prassi per riciclare le bobine). L’ex pm sostiene che la frase “la distruzione dei brogliacci” sia stata aggiunta dopo il deposito dell’atto. Ed è per questo che la Procura di Caltanissetta lo accusa di calunnia per aver incolpato ingiustamente Damiano Galati, responsabile amministrativo del Centro Intercettazioni.
La smagnetizzazione però non è avvenuta. Il Gico di Caltanissetta ha recuperato le bobine trovate al palazzo di giustizia di Palermo e ha riascoltato tutte le intercettazioni.
L’ex pm di Massa-Carrara Augusto Lama è convinto che una maggiore attenzione agli esiti dell’indagine avrebbe consentito di avviare l’inchiesta sulla questione “Mafia-appalti” con qualche anno di anticipo.
Il gruppo Ferruzzi nel frattempo, insieme a Montediso, diviene un colosso da 20 mila miliardi di lire, 52 mila dipendenti e 200 stabilimenti in tutto il mondo. Sarà travolto da tangentopoli. Nel ’93 Gardini si suiciderà.
Borsellino cercava collegamenti con la mafia siciliana, ne aveva anche parlato con Antonio Di Pietro uno de pm del pool “mani pulite”. Borsellino non aveva, però, la delega per le indagini su Palermo che arrivò alle 7 del mattino del 19 luglio 1992 con una telefonata da parte di Giammanco. Qualche ora dopo Borsellino sarebbe saltato in aria in via D’Amelio.
Trent’anni dopo si torna a indagare su quella stagione. Il fattore tempo non aiuta e forse confonde. Difficile riannodare i fili, facile dare per scontate circostanze con il senno di poi e raggiungere conclusioni che allora probabilmente non erano così chiare. Di sicuro bisogna chiedersi perché tutto ciò si stia facendo trent’anni dopo. Riccardo Lo Verso LIBE SICILIA
Strage di via D’Amelio, indagato l’ex magistrato Gioacchino Natoli
Mafia e appalti
La vicenda riguarda un filone dell’inchiesta mafia-appalti, svolta nel capoluogo siciliano agli inizi degli anni ’90, che potrebbe essere il vero movente della strage costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli.
A Natoli la Procura nissena guidata da Salvatore De Luca contesta di aver insabbiato l’indagine avviata dai pm di Massa Carrara e confluita nel procedimento mafia-appalti per favorire mafiosi, imprenditori e politici.
Natoli avrebbe agito in concorso con l’ex procuratore di Palermo Pietro Giammanco, nel frattempo deceduto e definito dai pm “istigatore”, e con l’allora capitano della guardia di finanza Stefano Screpanti.
L’ex magistrato avrebbe aiutato i mafiosi Antonino Buscemi e Francesco Bonura, l’imprenditore e politico Ernesto Di Fresco e gli imprenditori Raoul Gardini, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini (gli ultimi tre al vertice del Gruppo Ferruzzi) ad eludere le indagini.
“Indagine apparente”
La Procura di Massa Carrara aveva aperto un fascicolo e trasmise le carte a Palermo sulle presunte infiltrazioni mafiose nelle cave toscane. I pm palermitani, secondo l’accusa, si limitarono ad avviare una “indagine apparente”, “richiedendo, tra l’altro, l’autorizzazione a disporre attività di intercettazione telefonica per un brevissimo lasso temporale (inferiore ai 40 giorni per la quasi totalità dei target) e solo per una parte delle utenze da sottoporre necessariamente a captazione, per assicurare un sufficiente livello di efficienza delle indagini”.
Ed ancora, “d’intesa con l’ufficiale della guardia di Finanza Screpanti”,Natoli avrebbe fatto in modo “che non venissero trascritte conversazioni particolarmente rilevanti, da considerarsi vere e proprie autonome notizie di reato, dalle quali emergeva la ‘messa a disposizione’ di Di Fresco in favore di Bonura, nonché una concreta ipotesi di ‘aggiustamento’, mediante interessamento del Di Fresco stesso, del processo pendente innanzi alla Corte d’Assise di Appello di Palermo, sempre a carico di Bonura per un duplice omicidio”.
Natoli inoltre non avrebbe aperto alcuna indagine nei confronti degli imprenditori Luciano Laghi e Claudio Scarafia, “sebbene i due fossero risultati a completa disposizione di Bonura e dei suoi familiari” e avrebbe chiesto l’archiviazione del procedimento “senza curarsi di effettuare ulteriori approfondimenti e senza acquisire il materiale concernente le indagini effettuate dalla Procura della Repubblica di Massa Carrara”.
Il giallo delle bobine
Infine, secondo la procura nissena, “per occultare ogni traccia del rilevante esito delle intercettazioni telefoniche, avrebbe disposto la smagnetizzazione delle bobine e la distruzione dei brogliacci”. Si tratta di 190 bobine dimenticate per decenni e ripescate dai magistrati di Caltanissetta nei sotterranei del Palazzo di giustizia di Palermo. Contengono ore di intercettazioni e si intrecciano con il dossier “mafia e appalti” a cui lavorarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Le parole di Natoli
“Sono stato e sono un uomo delle istituzioni e ho piena fiducia nella giustizia. Darò senz’altro il mio contributo nell’accertamento della verità”, commenta Natoli che è stato anche presidente della Corte di appello di Palermo.
Quando venne fuori la storia delle bobine, di cui aveva anche parlato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino e marito di Lucia, uno dei figli del magistrato assassinato, Natoli chiese di essere sentito dalla Commissione parlamentare antimafia.
“Accuse false”, replicò a chi sosteneva di avere insabbiato l’indagine.“La nostra era una semplice indagine collegata, l’inchiesta principale è rimasta sempre a Massa”, spiegò. E la decisione di archivarla? “Il 26 marzo 1992 la finanza dà conto del contenuto delle intercettazioni scrivendo che ‘non hanno consentito di individuare episodi, circostanze o elementi che possano ricollegarsi ai fatti criminosi ipotizzati’. Riccardo Lo Verso LIVE SICILIA
Strage Borsellino, il mistero delle 190 bobine dimenticate nei sotterranei
C’è un nuovo mistero che si aggiunge a quelli con cui storia e processi si confrontano da decenni. Ci sono 190 bobine dimenticate per 31 anni e ora ripescate dai magistrati di Caltanissetta nei sotterranei del Palazzo di giustizia di Palermo. Contengono ore di intercettazioni e si intrecciano con il dossier “mafia e appalti” a cui lavorarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Le bobine negli archivi
La Procura palermitana, allora diretta da Pietro Giammanco, aveva disposto le intercettazioni in un filone di indagine che venne, però, archiviato nel giugno del ’92. Un mese prima che Borsellino e gli uomini della scorta saltassero in aria in via D’Amelio fu ordinato di smagnetizzare le bobine e distruggere i brogliacci dove vengono appuntate e riassuntate le conversazioni prima di un’eventuale trascrizione completa.
I nastri sono riemersi dagli archivi di Palermo su richiesta della Procura di Caltanissetta competente per le indagini sulle stragi di mafia. Tocca ai carabinieri del Ris scoprire se, come sembra a primo acchito, quei nastri contengano ancora delle voci registrate. Di chi? Di boss, imprenditori e politici protagonisti di quel groviglio di interessi sugli appalti che potrebbe legare Tangentopoli alla morte di Borsellino? Basta ricordare che dietro la Calcestruzzi Spa, colosso delle opere pubbliche della potente famiglia Ferruzzi, c’era Totò Riina. Così raccontò il pentito Leonardo Messina a Borsellino.
Il dossier “mafia e appalti”
Solo oggi dopo tre decenni di inchieste e processi (molti dei quali divenuti carta straccia dopo avere sbugiardato i falsi pentiti) si tornano ad analizzare le bobine. Bisogna fare attenzione, basta poco per rovinare i nastri. Serve tuta la perizia dei super esperti. Borsellino si interessò all’indagine su mafia-appalti dopo che colui che l’aveva avviata, Giovanni Falcone, era stato ammazzato a Capaci. A condurla erano gli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno per anni tenuti sulla graticola e alla fine assolti nel processo sulla trattativa Stato-mafia. C’era un gruppo di potere composto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi» Su quella indagine Mori, con l’allora giovane capitano De Donno, tra il 1990 e l’inizio del 1991, lavorò per mesi. Pochi giorni prima di essere ucciso Borsellino incontrò i carabinieri per fare il punto.
Il “nido di vipere”
E se Borsellino avesse scoperto dei servitori infedeli dello Stato all’interno della procura di Palermo definita da lui stesso un “nido di vipere”? Erano gli anni in cui, e lo ha detto Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino, mafiosi come Antonino Buscemi e Giuseppe Lipari avrebbero goduto di coperture. Il primo sospettato è l’allora procuratore capo Giammanco. Trizzino, marito di Lucia Borsellino, ne ha parlato a Rai Tre nel nuovo programma “Far West” condotto da Salvo Sottile. C’è chi scandaglia, finalmente, il dossier “mafia e appalti” colpevolmente messo da parte per decenni nella narrazione dei media. La Trattativa è stato l’unico e solo faro investigativo. Si è sostenuto che Borsellino fosse stato ucciso o quantomeno che la sua uccisione fosse stata accelerata perché aveva scoperto l’esistenza del patto sporco fra boss e rappresentanti delle istituzioni.
L’agenda rossa
Ci sono tanti misteri da svelare, rimasti tali probabilmente perché si è guardato dalla parte sbagliata. Il buco nero ha risucchiato uomini e cose. Alcune trame potevano essere smascherate sul nascere ed invece tutti, per i primi i magistrati, hanno creduto alle bugie dei falsi pentiti. Oggi spuntano bobine di registrazioni e relazioni di servizio. Ciò che non si trova è l’agenda rossa. Spuntano, però, nuovi testimoni. Tre decenni dopo si scopre che il sottufficiale Giuseppe Lo Presti, il pomeriggio della strage, averebbe fermato il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, facendosi consegnare la borsa del giudice perché l’indagine era di competenza della polizia. Poi, di mano in mano, la borsa passò ai poliziotti Armando Infantino e Francesco Maggi, che la portò nella stanza del capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera. I funzionari Andrea Grassi e Gabriella Tomasello hanno confermato di avere visto la borsa nell’ufficio del poliziotto che guidava il gruppo investigativo per le stragi. Arcangioli fu prosciolto nel processo, rinunciando alla prescrizione. È lecito chiedersi perché dei ricordi dei poliziotti si parli solo adesso. Riccardo Lo Verso LIVE SICILIA
Strage Borsellino, dopo 31 anni spunta un’annotazione del falso pentito
Chi l’ha tenuta nascosta?
Fino a poche settimane fa nessuno ne era a conoscenza perché non c’è traccia nei processi. Un’annotazione anomala, nella forma ma anche nella sostanza visto che si fa riferimento a luoghi inediti dopo tre decenni di indagini e processi. Dimenticata oppure volutamente nascosta, da chi e perché? Era un modo per evitare che venisse smascherato Scarantino, un malacarne di borgata a cui hanno colpevolmente creduto decine e decine di magistrati prima che i processi basati sulle sue menzogne crollassero?
Processo “depistaggio”
Il procuratore generale di Caltanissetta Fabio D’Anna, i sostituti Gaetano Bono e Antonino Patti, e il pm applicato dalla Procura Maurizio Bonaccorso hanno depositato l’annotazione nel processo d’appello sul depistaggio. Sotto accusa ci sono tre poliziotti che indagarono sulla strage agli ordini di La Barbera, deceduto nel 2002: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Sono accusati di concorso in calunnia, aggravata dall’avere agevolato Cosa Nostra, per aver spinto Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, a dichiarare il falso sulla strage, autoaccusandosi e indicando come colpevoli altre sette persone scagionate dopo anni di carcere e che ora sono parte civile con l’assistenza degli avvocati Rosalba Di Gregorio, Giuseppe Scozzola e Salvatore Petronio.
In primo grado è caduta l’aggravante mafiosa ed è scattata la prescrizione per Bo e Mattei, mentre Ribaudo è stato assolto nel merito. “Senza la prescrizione Bo e Mattei sarebbero stati assolti”, hanno sempre sostenuto gli avvocati Giuseppe Seminara, Giuseppe Panepinto e Riccardo Lo Bue.
Una vicenda surreale
La vicenda è surreale sin dall’incipit. Il 5 ottobre scorso un poliziotto della squadra mobile di Palermo sta spostando alcuni fascicoli dall’archivio prima che entrino gli operai per una ristrutturazione. Gli occhi cadono su un “raccoglitore di cartone di colore scuro marca Fabius”, chiuso con dei “nastrini”. C’è scritto a penna, in rosso, “Materiale gruppo Borsellino”. L’agente lo apre e trova una carpetta “ingiallita dal passare del tempo” con la dicitura “Maurizio”, firmata da Maurizio Zerilli all’epoca ispettore di polizia e ora indagato dalla procura di Caltanissetta per false dichiarazioni al tribunale nel processo di primo grado.
C’è un’altra anomalia. Il 5 luglio successivo La Barbera invia una nota all’allora pubblico ministero di Caltanissetta Ilda Boccassini. In calce c’è il timbro con il nome del super poliziotto, ma manca la firma. Nel documento vengono riassunti gli esiti delle indagini per riscontare la credibilità di Scarantino. Sono elencati 38 allegati. Tra questi c’è anche l’annotazione saltata fuori solo ora. Strano, perché nei processi finora celebrati gli allegati risultano 36. Dei due mancanti uno è proprio la relazione sui sopralluoghi.
I sopralluoghi di Scarantino
L’annotazione d’indagine è anomala. Si parla dei luoghi visitati con Scarantino ma non c’è traccia dei riscontri sulle sue dichiarazioni. Ad esempio Scarantino, annota Zerilli, “ha indicato il punto dove ha posteggiato la macchina a circa 200 metri dall’officina di Orofino Giuseppe”. Ha parlato anche dell’officina? Non c’è traccia. Ed è parecchio anomalo visto che sarebbe stato un riscontro decisivo, tenendo conto che si tratta di uno dei luoghi simbolo delle bugie del falso pentito. Si disse, infatti, che Orofino aveva fornito una targa pulita per la 126 rubata – che avrebbe anche tenuto nella sua officina – utilizzata come autobomba in via Mariano D’Amelio a Palermo il 19 luglio 1992. Tutto falso, Orofino, oggi deceduto, fu arrestato nel 1993, poi condannato in via definitiva, quindi assolto nel processo di revisione nel 2017 e risarcito per gli anni ingiusti trascorsi da innocente in cella. Orofino dopo la lettura della sentenza di condanna scoppiò a piangere, urlando di disperazione, sbattendo la testa nel vetro della “gabbia” di imputato, proclamandosi innocente.
I summit e l’acido per i cadaveri
Nella annotazione del 1994 si ricostruisce che Scarantino durante il giro con il poliziotto ha parlato di un casolare a Borgo Molara “nella disponibilità di Carlo Greco dove venivano nascosti armi e droga”, di una casa in “via Santicelli” dove avvenivano summit di mafia. Ed ancora di appartamenti nella disponibilità di Pietro Aglieri “in via dell’Orsa Minore”, in via Guido Rossa, “in una parallela in viale Regione siciliana dopo il ristorante dove fu assassinato Pace Stefano”, di “un magazzino” in via Paterrnò dove “veniva scaricato l’acido per i cadaveri”. Aglieri era il boss di Santa Maria di Gesù, Greco il suo vice. Sono racconti di una certa rilevanza, ma nulla sappiamo sui riscontri.
Ci sono tanti, troppi interrogativi. Che ci faceva l’annotazione alla squadra mobile di Palermo visto che le indagini erano coordinate dalla Procura di Caltanissetta? Com’è possibile che a distanza di decenni ci siano ancora documenti sconosciuti a chi indaga? I poliziotti verificarono ciò che disse Scarantino? Finora nessuno dei protagonisti aveva parlato dell’annotazione. Alcuni dissero che non ricordavano di averla vista. Altri che a redigerla doveva essere stato Arnaldo La Barbera, capo della squadra mobile di Palermo a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta e poi a capo del “Gruppo Falcone-Borsellino”. Il pm Bonaccorso ha chiesto che vengano convocati Scarantino e Zerilli. Certamente loro sanno come sono andati i fatti in una vicenda paludosa che non smette di sorprendere. Riccardo Lo Verso LIVE SICILIA