ARCHIVIO 🟧 Borsellino: “Attenti a questi pentiti di mafia”

 

Intervista col procuratore di Marsala che definisce inaffidabili molte 
 
Intervista col procuratore di Marsala che definisce inaffidabili molte rivelazioni. «Solo Buscetta sapeva» Borsellino: attenti a questi pentiti di mafia «E i politici non collaborano»
«Fanno bene i giudici a prender con le molle le rivelazioni dei pentiti sul cosiddetto terzo livello. Sull’intreccio tra mafia e politica, anzi tra mafiosi e politici, per usare una formula più aderente alla realtà.
Spesso non sanno proprio nulla, parlano per avere orecchiato qualcosa, ma molto alla lontana.
Su questo argomento non mi pare siano in grado di dare molto».
Paolo Borsellino, procuratore della Repubblica di Marsala, uno dei fondatori, con Falcone e gli altri, del pool antimafia, ex «colonna» del primo maxiprocesso a Cosa Nostra, parla chiaro.
Com’è suo costume. E con competenza, alla luce della straordinaria esperienza acquisita negli anni delle grandi inchieste contro la mafia, della conoscenza diretta di pentiti piccoli e grandi a Palermo e, successivamente, a Marsala.
«Cosa volete che ne sappiano – riprende – della stanza dei bottoni killer e gregari? Possono conoscere episodi e nomi del loro ambiente: più si va in alto, meno attendibili diventano».
E’ una regola generale? Per l’esperienza che ho, posso dire che l’unico pentito in grado di parlare di certi argomenti è Tommaso Buscetta. La sua posizione all’interno di Cosa Nostra era tale da metterlo in condizioni di conoscere bene i meccanismi che s’instaurano tra l’organizzazione e il mondo politico o imprenditoriale. Ma lui, come afferma il giudice Giovanni Falcone, non vuole entrare in un terreno che considera scivoloso. Già, lo ha detto chiaramente che quello è un livello dove il giudice non si muove a proprio agio. La sua sfiducia non è rivolta al magistrato, bensì all’assenza di un clima favorevole alla soluzione di certi problemi. Per Buscetta esiste una soglia che non può essere varcata a causa di difficoltà insormontabili, avanzate ogni volta che il discorso cade sui rapporti tra boss e ambienti del potere. Eppure, a suo tempo, fece i nomi di Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori di Salenti. Tirò in ballo Vito Ciancimino. L’esempio calza perfettamente, perché spiega due cose. Che se si creano le condizioni, un clima di consenso per l’operato della magistratura, una volontà di andare a fondo, i risultati arrivano. All’inizio Buscetta aveva perfino negato di conoscere i Salvo; di Ciancimino non aveva detto gran che. Quando il suo intuito gli fece capire che si era creata una sorta di chma favorevole, raccontò fatti e particolari, perfettamente riscontrati e approfonditi. Sia i Salvo che Ciancimino finirono così in carcere.
E cos’altro spiega, l’esempio? Che il pentito può dare un contributo importante solo se il politico o rimprenditore, o l’amministratore di cui parla è inserito organicamente nella mafia. Ma non sempre il legame presuppone un rapporto organico. Così tirare dentro nomi grossi, senza adeguate prove, può finire con l’inficiare anche il resto della verità processuale.
Il professore Giaccone, l’ex sindaco di Baucina, però, ha parlato degli affari, ha spiegato il meccanismo di appalti e finanziamenti pilotati. Ho letto sui giornali, non conosco bene la vicenda. In ogni caso mi sembra che Giaccone non sia un mafioso, ma un addetto ai lavori. Ciò che racconta si riferisce alla sua sfera di conoscenza. Anche altri hanno parlato di mafia e affari. Insalaco, l’ex sindaco di Palermo ucciso da Cosa Nostra, per esempio. Ma non sempre si è andati a fondo. Evidentemente non si è riusciti a stringere. In qualche caso il massimo risultato possibile è stata la descrizione di un contesto, l’affermazione dell’esistenza di una contiguità fra i due mondi. Ed è comprensibile, viste le difficoltà.
Spesso si arriva in prossimità di uno scenario che è inquietante, politicamente e moralmente inaccettabile, ma ti procuratore della Repubblica di Marsala Paolo Borsellino penalmente irrilevante. Mi chiedo per esempio: se si riuscisse a provare gli indizi a carico di qualche politico, a proposito della gestione dei voti di preferenza, che genere di reato si dovrebbe contestare? Un conto è la pulizia sociale, un conto quella giudiziaria. I giudici devono mirare alla seconda. L’altra spetta ai partiti e alle istituzioni.
Vi hanno mai aiutato veramente i politici? Non ho grande esperienza in questo campo. Ma posso dire di non avere mai ricevuto collaborazione. Qualche volta, però, ho avvertito la sensazione che non mi stessero facilitando il compito.
Perché, secondo lei, questa smania di alcuni pentiti di gettarla in politica? L’ultimo è Giuseppe Pellegriti con le sue accuse all’eurodeputato Salvo Lima. Ripeto ciò che ho detto prima, ma non intendo fare singoli riferimenti: la loro posizione all’interno di Cosa Nostra non mi sembra tale da avergli consentito di accedere ai segreti della stanza dei bottoni. Lo stesso Calderone (altro pentito catanese, ndr) dimostra di essersi accontentato delle briciole lasciate dal fratello, che era il vero boss.
Sta dicendo che potrebbero addirittura depistare le indagini? Dico che il pentito, non parlo di rivo Buscetta a decifrarle.
Eppure, dottor Borsellino, la Cassazione non è stata molto tenera con i collaboratori. C’è stata una certa reazione di rigetto presso quei magistrati che guardavano al fenomeno con maggiore distacco. Adesso, però, il nuovo codice credo abbia sancito un principio generale, quello della cosiddetta «corroboration»: le rivelazioni dei pentiti vanno valutate in correlazione ad altre prove.
Ciò vuol dire che, in ogni caso, i collaboratori sono fonte di prova. Un prossimo passo? La legge che noi magistrati invochiamo da dieci anni. Una norma che sia garanzia per tutti. Bisogna regolare la gestione dei pentiti. Non può essere il giudice ad occuparsene come un padre. Si rischia un rapporto perverso fra protettore e protetto, a scapito della credibilità del teste.. Dovranno essere distinte le autorità che segnalano la volontà di parlare del pentito, quelle che decidono di accordargli protezione e quelle che si occupano dell’esecuzione tecnica del programma. Così si evita .la contrattazione. Sì, perché sa cosa dice adesso la maggior parte dei pentiti: «Io le potrei dire di più, ma non mi sento sicuro. Se mi fa proteggere meglio…. nessuno in particolare, tende sempre ad alzare il prezzo. Sa che quando il suo nome è sui giornali l’attenzione è vigile e si sente più sicuro, protetto. Quando non se ne parla, l’attenzione cala, si sente dimenticato. E sui giornali ci finisce solo pronunciando nomi celebri. Non è un bel quadro… Attenzione, ciò non vuol dire che i pentiti siano inutili o pericolosi. Anzi, il bilancio del pentitismo, nelle indagini di mafia, è ampiamente in attivo. Dipende dai giudici utilizzarli bene. Nelle inchieste confluite nei maxiprocessi l’attendibilità dei pentiti credo sia ormai fuori discussione. Sono serviti per consentire la riappropriazione di conoscenze che erano state azzerate da un vuoto durato dieci anni, dal ’70 all’80. Più d’una volta i pentiti hanno facilitato la rilettura di fatti che erano rimasti oscuri o addirittura incompresi. Ricordo alcune intercettazioni telefoniche col Brasile. Parlava il boss Salamone e non capivamo cosa volesse dire, a chi si riferisse. Stessa cosa leggendo le intercettazioni ambientali, in Canada, compiute in casa del faccendiere Paul Violi, legato a Ciancimino. Capimmo tutto solo quando … Francesco La Licata
 
 

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