GAETANO FONTANA

AUDIO DEPOSIZIONE AL “BORSELLINO QUATER”


Il boss Fontana: “Ho ucciso io quello spacciatore, ma l’attentato all’Addaura non c’entra”

 

L’aspirante pentito confessa ai magistrati l’omicidio di Francesco Paolo Gaeta, avvenuto nel 1992, e per il quale era stato già assolto nel 2005. Si è sempre pensato che il giovane fosse stato testimone dell’agguato fallito ai danni del giudice Falcone, ma il mafioso spiega: “Il movente è un altro…”

“Ho commesso fatti di sangue, un omicidio insieme a mio zio Angelo Fontana nel 1992, l’omicidio di Francesco Paolo Gaeta”. Così ha confessato il boss dell’Acquasanta Gaetano Fontana in veste di aspirante collaboratore di giustizia, lo scorso 9 ottobre. E non è un delitto qualsiasi, visto che è legato ad una delle pagine misteriose della storia recente: il fallito attentato all’Addaura ai danni del giudice Giovanni Falcone. “Ma il movente non è questo…”, afferma il mafioso che proprio per questo omicidio era stato processato e assolto, tentando di fatto di riscrivere la storia giudiziaria.

Secondo la versione che Fontana ha fornito al gip Piergiorgio Morosini e ai sostituti Amelia Luise e Dario Scaletta, infatti, il giovane pusher sarebbe stato eliminato come testimone scomodo sì, ma non – come si è sempre sostenuto – dei fatti dell’Addaura, quanto piuttosto di una specie di overdose dello zio Angelo Fontana a cui avrebbe spacciato droga. Il boss, inoltre, scagiona un pentito che ha invece raccontato di aver partecipato all’omicidio di Gaeta, Francesco Onorato: “Lui non c’è mai stato, non ha mai detto la verità, mente su questa cosa”, afferma. Finora le dichiarazioni di Fontana non hanno convinto i magistrati, anche se lui giura “sui miei figli” di voler essere una “persona libera e pagare le tasse come un normale cittadino” e chiede di essere creduto, perché “non ho mai condiviso gli ideali di Cosa nostra”.

“Sì, ho commesso fatti di sangue…”

“Sì, ho commesso fatti di sangue – mette a verbale Fontana – un omicidio insieme a mio zio Fontana Angelo, nel 1992, l’omicidio di Francesco Paolo Gaeta… Mio zio ha negato che io ero con lui, ha detto che l’ha fatto lui l’omicidio, io sono stato condannato (venne poi assolto in appello nel 2005, ndr) e ammetto di averlo commesso… Francesco Onorato mi ha accusato, di aver partecipato a questo omicidio insieme a me, a mio zio Angelo, Vito Galatolo, un altro Galatolo Angelo e un certo Domenico Caviglia… Mio zio poi si è pentito e mi ha scagionato dell’omicidio, questa è la prima volta che lo dico di aver commesso l’omicidio…”.

“Il fallito attentato a Falcone non c’entra”

Il boss svela poi che il movente del delitto non sarebbe quello fornito dallo stesso Angelo Fontana e che l’attentato all’Addaura non c’entrerebbe nulla: “Angelo Fontana – dice – gli dà la versione che è stato perché Gaeta è stato testimone dell’attentato all’Addaura del dottore Giovanni Falcone, come movente, ma il movente non è questo… Angelo Fontana dice di essere un uomo d’onore e io le assicuro che non è mai stato combinato in Cosa nostra, mi scagiona dall’omicidio perché mi vuole bene o perché sono suo nipote o perché mi rispetta… Mio zio mi toglie dall’omicidio perché siccome in Cosa nostra un minorenne non me lo posso portare a fare un omicidio per una cosa del genere…”.

“Il movente è che mio zio si è sentito male dopo essersi drogato”

E chiarisce: “Io non vado con questo gruppo di fuoco, non siamo un gruppo di fuoco. L’omicidio di Gaeta lo commetto io e Angelo Fontana e il movente è che Gaeta è il pusher personale di Angelo Fontana. Gaeta in quel periodo lavora a Villa Igiea, fa il facchino e Angelo Fontana usava l’hotel anche per andarsi a drogare. Quando gli ha consegnato la dose, Angelo Fontana si è sentito male, forse se n’è fatta più del dovuto, il pusher spaventandosi glielo andò a raccontare a Gaetano Galatolo, che è lo zio di Angelo Fontana…”.

“Si è vendicato della brutta figura”

A quei tempi, come racconta l’aspirante collaboratore di giustizia, una storia simile “era una vergogna”, infatti “succede che Angelo Fontana si chiude a casa, era una vergogna allora, gli fanno dei lavaggi, viene un infermiere… Lui per questa brutta figura mi chiama e mi dice: ‘Vieni con me’ e siamo andanti dove abita Gaeta, io a 16 anni pensavo che lui ci voleva litigare”.

“Gli ha sparato quattro colpi in testa”

Invece Fontana si sarebbe poi accorto che le intenzioni dello zio sarebbero state ben altre: “Facendo dei giri di perlustrazione mi sono accorto che lui aveva la pistola addosso, ci siamo fermati sotto casa di Gaeta in via Venanzio Marvuglia, io portavo la macchina. Fontana è sceso e quando Gaeta posteggiò la macchina a lisca di pesce sopra il marciapiede, gli ha aperto lo sportello e gli ha sparato quattro colpi in testa, è risalito in macchina e siamo andati via”. 

“Quel pentito mente ed è più vigliacco dei mafiosi”

La versione acclarata da un punto di vista giudiziario è però diversa, ma Fontana spiega: “Francesco Onorato ha detto sempre una bugia su questa cosa, ha mentito sempre, non c’è mai stato Francesco Onorato. Io ricordo tutti i dettagli perché purtroppo l’ho commesso e mi dispiace perché era un bravo ragazzo Paolo Gaeta”. E tiene a rimarcare: “Io dico ben vengano i collaboratori di giustizia, i mafiosi collaboratori di giustizia che dicono la verità, ma i mafiosi che già sono vigliacchi di suo, che devono collaborare con la giustizia e devono dire bugie sono più vigliacchi dei primi”.

“Onorato è venuto a cercarmi a Milano”

Gaetano Fontana racconta poi che avrebbe temuto negli anni successivi per la sua vita, che proprio Onorato “mi stesse preparando qualche cosa”, perché – a suo dire – il pentito, nel 2018, sarebbe andato a cercarlo a Milano: “Io mentre vivevo già a Milano da 10 anni sono stato cercato, non so il motivo, attenzionato da un collaboratore di giustizia, Francesco Onorato… Un bel giorno io sono seduto davanti al bar Andrew, di fronte al negozio di mia moglie, e vedo passare Onorato… Io non l’ho mai visto in vita mia, l’ho visto solo durante un processo, ha un fisico notevole perché è un metro e 90. Si ferma davanti al bar e inizia a guardare dentro, si gira, attraversa la strada…”.

“Mi sono preoccupato, ho pensato: mi vuole fare del male”

A quel punto, racconta ancora il boss, “io mi sono preoccupato, ci sono andato dietro senza farmi notare… Lui in effetti non mi conosce, mi ha accusato di un omicidio, lui l’omicidio (di Gaeta, ndr) non l’ha mai fatto, ma ha l’astio nei nostri confronti perché gli è stato ucciso un nipote… Comunque lo seguo per un bel po’ in mezzo alla gente e vedo che si siede su un muretto, prende un telefono e inizia a guardare a destra e a sinistra, tutto insieme si alza, apre con le mani un negozio e si chiude. Mi sono preoccupato perché ho pensato si è fatto l’appoggio davanti al negozio e mi vuole fare del male, non frequento più il negozio, non frequento più il bar… Poi succede un’altra volta, passa di nuovo e guarda dentro il bar, sicuramente gli avevano detto che eravamo i proprietari… Ripassa, riguarda, prende e sale su una moto e si mette un casco, ho preso il numero di targa …”.

“Mi stava organizzando qualche cosa”

“Avevo la sensazione – spiega il boss ai magistrati – che mi stesse organizzando qualche cosa… Mi metto su una moto e lo seguo e ho visto dove abita, che lavora fa, perché lui seguiva a me, ma io seguivo a lui, ma lui voleva incontrare mio fratello Giovanni, da quello che ho potuto capire, perché Giovanni è stato imputato nell’omicidio del nipote Agostino… Onorato era inisieme al pentito Francesco Di Carlo”.

“Avevo 16 anni, sono rimasti i traumi”

Conclude Fontana: “E’ stata una cosa brutta, in quel momento ho pensato: io sono tranquillo, me ne sono andato, ho fatto, ho detto, però essere cercato pure dai collaboratori di giustizia, che un giorno mi accusò, mentendo, io oggi sto ammettendo la mia responsabilità, ma Onorato non c’era nel fatto, non c’è mai stato, si è accusato senza fare l’omicidio, solo per vendicare la situazione che gli era successa col nipote. Io so il calibro della pistola, so qual è la macchina, di chi era, non era rubata, la guidavo io, avevo 16 anni, ti rimangono impresse queste cose e da allora sono rimasti i traumi…”. PALERMO TODY


Il boss Fontana ai pm: “Credetemi vi dico la verità, voglio essere libero e mi pento per i miei figli”

 

Il primo verbale di Gaetano, membro della storica famiglia mafiosa dell’Acquasanta, aspirante collaboratore di giustizia che finora non ha affatto convinto i magistrati: “Sono stato in Cosa nostra solo tra il ’94 e il ’97, non ne condivido gli ideali”. E racconta: “Ho studiato Gemmologia in cella, la ricchezza di mio padre nasce dal contrabbando di sigarette”
Orologi e denaro sequestrati al boss Gaetano Fontana

“Voglio essere una persona libera e domani avere la possibilità di lavorare, di poter pagare le tasse come un normale cittadino, perché non è tutta provenienza di mafia quello di cui io mangio”. Sono le parole dell’aspirante pentito Gaetano Fontana, il boss dell’Acquasanta che racconta ai magistrati di aver studiato Gemmologia in carcere, di fare perizie sui diamanti, di essere un appassionato di orologi d’epoca, di essere stato mafioso – ma solo dal 1994 al 1997 – perché “ho respirato l’aria sin da bambino” anche se “non ho mai condiviso gli ideali di Cosa nostra, tranne che Fontana mi chiamo”.

Il primo verbale da aspirante pentito

Il 9 ottobre scorso, davanti al gip Piergiorgio Morosini, il boss, riferendosi alla sua intenzione di collaborare con la giustizia, ripetutamente giura che “ormai l’ho intrapresa questa strada e non torno indietro per il bene soprattutto dei miei figli e della persona perbene che me li ha dati, che si trova in una situazione dove non gli appartiene nulla di tutto ciò. Glielo giuro sui miei figli, io non mi voglio aggrappare sugli specchi…”. Dice di voler vuotare il sacco, che “se mi devo disfare di tutti i beni immobili che ho ereditato da mio padre, sono pronto a farlo” e racconta anche che la ricchezza della sua famiglia trae origine dal contrabbando di sigarette che suo padre Stefano, storico boss, aveva messo su quando era stato confinato in Puglia negli anni ’80. “Mai fatta un’estorsione, lo giuro al 100 per cento”, così spiega cercando di convincere i suoi interlocutori.

Le perplessità dei magistrati

E’ una storia molto strana quella di Gaetano Fontana che finora non ha affatto convinto il procuratore aggiunto Salvatore De Luca ed i sostituti Amelia Luise e Dario Scaletta. Perché dice e non dice, il boss, ammette, ma non fino in fondo. Si presenta come uno che ha avuto la sfortuna di nascere nella famiglia sbagliata, in una città come Palermo da cui ha sempre cercato di allontanarsi, che ha come unica “colpa, io non dovevo continuare quello che mio papà aveva avviato, questa è stata la mia colpa”. Come se gli fosse capitata la disgrazia di chiamarsi “Fontana” e la sua vita non fosse frutto delle sue scelte ma quasi del Fato.

“Ho la passione per gli orologi e ho studiato”

“Io sono un commerciante di alta orologeria d’epoca e poi faccio le perizie sui diamanti e se li posso mediare come faccio con gli orologi, li medio, è una mia passione fin da piccolo e poi ho studiato”, spiega Fontana al giudice e aggiunge: “Io non avrei alcun problema nel dirgli che sono il capo della famiglia dell’Acquasanta, la dirigo, perché io andrò oltre, su fatti nuovi che magari la Procura non sa e che io intendo rivelare, ma io intendo dire quella che è la realtà dei fatti…”. Solo che – almeno in questo interrogatorio – non si spinge poi chissà quanto oltre e, se lo fa, è per dare una lettura diversa di fatti già accertati da un punto di vista giudiziario.

“Non sono mai stato combinato, ma Fontana mi chiamo”

“Io non sono stato formalmente mai combinato, dottore – dice Fontana al gip – ho avuto questa fortuna, non sono mai stato combinato in vita mia, cioè ho avuto la possibilità ma io stesso ho rinunciato, perché non sono stati mai questi sinceramente i miei ideali. Dopo tanti anni di carcere pensavo di esserci riuscito a farmi una famiglia, a fare il lavoro che a me è sempre piaciuto fare, lontano da Palermo… Io non posso essere sempre associato alla realtà palermitana e a tutto quello che è mafia… Glielo giuro sui miei figli e non sono degno di nominarli oggi vista la situazione che ho, non faccio parte di nessun contesto mafioso, tranne che Fontana mi chiamo. Ho ereditato purtroppo le attività da mio padre…”.

“Nel 2011 mi sono costituito, non è da mafioso”

A dimostrazione della sua scarsa attitudine alla “mafiosità”, il boss racconta: “Io nel 2011 mi sono andato a consegnare, non è solito di un mafioso, mi vado a costituire nel carcere di Opera il 24 dicembre 2011… Quel giorno ciò che mi è dispiaciuto di più, lasciamo stare la vigilia di Natale, lasciai una persona perbene insieme a un bambino di un anno, in una città non sua, che questa persona è quella che mi ha incentivato di più ad allontanarmi dal ceto sociale palermitano di cui io facevo parte”. E aggiunge: “Mia moglie è una persona perbene, non doveva conoscere Fontana Gaetano per motivi di interesse, è già benestante di suo, grazie al sentimento reciproco devo dire che mi ha incentivato tanto a portarmi fuori mia moglie e a farmi uscire dalla realtà palermitana…”.

“Voglio essere libero, pagare le tasse come un normale cittadino”

Fontana sarebbe pronto a dire tutto quello che sa perché “non mi faccio smentire da un collaboratore di giustizia, che oggi arrivano facilmente, e deve dire: ‘Ma come, io vado a fare la figura di niente nei confronti della Signoria Vostra, io sto dicendo la realtà dei fatti, io dal ’97 in poi non faccio… Io con mio padre nel 2011 ho iniziato il primo attrito, infatti mi sono andato a consegnare, poi ero pronto a casa con la borsa pronta a farmi arrestare, perché volevo chiudere ogni mio debito passato con lo Stato, glielo giuro sui miei figli, io non ne sto dicendo bugie… Se mi devo disfare di tutti i beni immobili che ho ereditato da mio padre – afferma l’aspirante pentito – sono pronto a farlo… Però io voglio essere una persona libera e domani avere la possibilità di lavorare, di essere ascoltato con le intercettazioni, di poter pagare le tasse come un normale cittadino, perché non è tutta provenienza di mafia quello di cui io mangio… Il mafioso non esce dal carcere e se ne va a studiare e va a fare la professione che gli piace, io non ho mai condiviso gli ideali di Cosa nostra o di cosa di tutti, perché si dice Cosa nostra ma è cosa di tutti”.

“Qui non c’è neanche il 10 per cento di ciò che possediamo”

Un aspetto molto importante quando si parla dei Fontana sono proprio i loro beni ed è lo stesso boss a sostenere che “io sul bene, sull’intestazione fittizia, le sto confermando quello che è realmente la famiglia Fontana e quello che non è la famiglia Fontana, magari in un’altra sede io dirò tutto, tutti gli altri immobili, perché ce ne sono… Qua rispetto a quello che c’è realmente ci sarà il 10 per cento e neanche”. Dunque esiste un patrimonio vastissimo riconducibile al clan dell’Acquasanta, che tuttavia nell’interrogatorio di ottobre Fontana non indica con precisione.

“La mia colpa è stata continuare quello che papà aveva avviato”

Il boss spiega che se – come emerge dalle intercettazioni dell’operazione “Mani in pasta” – gli viene attribuito un ruolo centrale è in realtà perché “io sono il fratello più grande e nelle famiglie siciliane, anche al Nord, magari mio figlio più grande, è visto come… magari sono colui che, in assenza di papà, ho saputo portare la famiglia avanti… Io ho una colpa, io non dovevo continuare quello che mio papà aveva avviato, questa è stata la mia colpa”.

“Mio padre era un mafioso, non era un santo ma era umile”

Ma da dove vengono i beni dei Fontana, com’è stata costruita la ricchezza di cui, agli atti, “c’è solo il 10 per cento”? “Noi siamo stati sempre benestanti e le spiego da dove veniva il denaro – dice Fontana al gip e ai pm – mio padre ha sempre odiato la frase estorsione… Non sto dicendo che mio padre era un santo, mio padre era un mafioso, però mio padre era un mafioso con la mentalità vecchio stampo, non preferisco né l’uno e né l’altro… Mio padre qualcosa di buono ce l’aveva era uno umile, era umile e sapeva cosa significava andarsi a guadagnare la mille lire la mattina, era un lavoratore, era un commerciante nato, poi al di là della sua seconda vita che poteva avere… Mio padre quando esce nel 1986, io avevo 12 anni, tutto inizia da qua, giudice, questa è una storia reale, dice: ‘La famiglia Fontana non ha reddito, come mai sta dicendo Fontana Gaetano che sono stati sempre benestanti?’. Non provengono, non c’è, non sto dicendo che è lecito: intanto mio papà nei primi anni ’80 aveva una gioielleria con Marco Favaloro, che poi è diventato collaboratore di giustizia, e un’altra persona in via Isidoro Carini, già fine anni ’70 e poi un colorificio”.

“Al confino in Puglia mio padre ha iniziato il contrabbando di sigarette”

Fontana continua a raccontare la storia di suo padre e dell’origine della sua “roba”: “Mio papà è stato arrestato nel 1982, esce nel 1986 e gli danno il confino… Io andavo il fine settimana a trovarlo, perché lui era lì con mamma… Poi è stato trasferito in provincia di Brindisi, vicino al mare, quelli erano i così detti tempi d’oro per quanto riguarda il contrabbando di sigarette, papà era socio con un certo Giacomo Sabatelli e iniziò l’attività di contrabbando delle sigarette. Io mi ricordo ero piccolo e delle volte, ma era visibile, non era una cosa che veniva celata, era una cosa visibile, che delle volte mentre eravamo al mare, il pomeriggio arrivavano le barche come se era una cosa normale…”.

“Il danaro della mia famiglia viene da quel business”

Prosegue Fontana: “Poi questa attività si dislocò in Montenegro perché in questo modo non si rischiava più di tanto e si facevano i grossisti, praticamente c’era la concessione Philippe Morris in Svizzera dove si acquistavano le sigarette tramite Jugoslavia, Slovenia, arrivavano in Montenegro e quelli che poi contrabbandavano andavano ad acquistare le sigarette in Montenegro dove si pagava la tassa di 50 mila lire a cassa, là non era contrabbando, era legale… Diciamo che la maggior parte dei danari provenivano dal contrabbando delle sigarette. Mi ricordo che nel ’97 io me ne sono andato in Montenegro per circa due mesi, poi sono stato arrestato, quindi tutta la provenienza del danaro che aveva mio padre era da Brindisi. Poi aveva fatto anche degli investimenti nel brindisino, avevano acquistato un hotel, era un terreno che poi loro avevano costruito una struttura, sempre intestato ad un’altra persona, che poi questo era andato in fallimento, ma la maggior parte dei soldi che mio padre aveva – ripete Fontana – erano di provenienza pugliese per quanto riguarda il contrabbando di sigarette”.

“L’ambiente era quello, ho respirato l’aria mafiosa sin da bambino”

Il boss racconta anche come sarebbe iniziata la sua esperienza in Cosa nostra: “Ho iniziato perché mio papà era stato arrestato, già in carcere dal 1989, io avevo 13 anni, non è che… e l’ambiente era quello, io sono nato all’Acquasanta con residenza in vicolo Pipitone 32, dico, vicolo Pipitone… Fin da bambino ho respirato purtroppo quell’aria, vedevo diversi personaggi, quindi crescendo io con Gaetano Galatolo, lo zio di Vito Galatolo, fratello di Vincenzo Galatolo, Angelo Galatolo, eravamo quelli che reggevamo la zona dell’Acquasanta, che non è mai stata una zona bersagliata dalle estorsioni anche perché la famiglia Galatolo-Fontana avevano le ditte, i Galatolo avevano le ditte nei cantieri navali, per un periodo c’è stato mio papà che era socio in un’altra zienda, poi c’erano i Galatolo che erano soci nelle costruzioni con la famiglia Graziano, sia la famiglia Madonia che i Galatolo con i Graziano… C’erano i rottamai che prendevano materiali ferrosi dentro i cantieri navali. In quel contesto si dividevano i guadagni…”.

“A noi figli fu vietato essere combinati ufficialmente in Cosa nostra”

Fontana si spertica poi per indicare chi sarebbero stati i capi di Cosa nostra all’Acquasanta nel passato: “Vincenzo GaLatolo, Raffaele Galatolo, Pino Galatolo, mio padre, Stefano Fontana, Angelo Galatolo, quello che è stato uccio negli anni ’80 dalla polizia o dai carabinieri, non mi ricordo, in un attentato, come famiglia di sangue e mafiosa questi erano. A tutti i figli, i ragazzi, gli era stato vietato di essere combinati ufficialmente in Cosa nostra… Io avevo Giacomo Sabatelli che veniva in Sicilia una volta l’anno e mi dava il danaro di mio padre”. 

“Ho rifiutato un ruolo più serio nel clan”

Il boss racconta anche di aver rifiutato ad un certo punto la proposta pressante di avere un ruolo nel clan: “E’ come se uno nasce, cresce… ho avuto la possibilità, ma ci deve essere un impegno che io, ad onor del vero, non mi sono mai voluto prendere soprattutto perché non condividevo alcune cose, ho avuto l’occasione e ho rifiutato e non è una cosa bella per chi te la propone, addirittura si dice che si poteva anche morire… Ho rifiutato la combinazione…”.

“Lo giuro sui miei figli, non ho più niente a che fare con Cosa nostra”

Una cosa per Fontana sarebbe certa: “Adesso, glielo giuro sui miei figli, io non ho più niente a che fare con Cosa nostra, completamente, dal 1997”, rimarcando che nel 2011 “mi sono consegnato perché volevo dare un segnale, come a dire basta, qua sono, devo pagarle le mie colpe, basta”. I suoi giuramenti serviranno a renderlo più credibile agli occhi degli inquirenti?   14.1.2021 Palermo TODAY