ANTONIO VULLO: quella volta in ascensore con il dottor Borsellino

 

Vullo, il sopravvissuto della strage Borsellino: «Quel pezzo di me, rimasto in via D’Amelio»

 

L’intervista all’agente che il 19 luglio 1992, per un caso fortuito, uscì vivo dall’attentato in via D’Amelio, a Palermo. E che in Adesso Tocca a me, docufilm realizzato per i venticinque anni dalla strage e in onda su Raiuno, dà il contributo più emozionante. «Anche se io», dice, «neanche avrei voluto»

«Sono stato coinvolto in questo progetto, ma non avrei voluto: rivivere quei momenti è sempre molto doloroso per me». L’agente Antonio Vullo, oggi in pensione, è l’unico sopravvissuto della strage di Via D’Amelio, venticinque anni fa il 19 luglio. Sei morti – il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta -, ancora senza un colpevole: al processo di revisione, nei giorni scorsi, la corte d’appello di Catania ha assolto tutti gli imputati.

Vullo, all’epoca, era in servizio come autista: il giorno della strage, alle 16, nell’attimo in cui Borsellino e i cinque colleghi della scorta scendevano dall’auto per andare a citofonare alla madre del giudice (prima di saltare in aria con una Fiat 126 imbottita di tritolo), lui è tornato indietro a parcheggiare meglio la macchina. «Mentre ero girato con il viso per fare retromarcia, ho sentito un’ondata di calore infernale e poi il boato. Sono sceso dall’auto che era già in fiamme. Intorno a me era tutto buio», ha raccontato. «Anche se ne avrei fatto a meno», il suo sarà l’intervento più toccante di Adesso Tocca a me, il docufilm con protagonista Cesare Bocci nei panni di Borsellino realizzato in occasione dei venticinque anni dall’attentato e in onda su Raiuno il 19 luglio in prima serata.

«Perché io sì e gli altri no»: quante volte se lo sarà domandato.«Sempre, ma è impossibile dare una risposta. La cosa mi ferisce, ma non ho nessuna colpa: non mi sono né nascosto né tirato indietro o piegato. È successo e lo devo accettare. Molti mi dicono che sono stato fortunato ma non è stata proprio una fortuna vivere questo».

Ha detto di sentirsi più un «miracolato»****.«Ho avuto una sensazione quel giorno. Fisicamente sono uscito dall’auto da solo, ma è stato come se i miei cinque colleghi e il magistrato mi avessero tirato fuori mentre stava prendendo fuoco».

A chi nel 1992 non era neanche nato: chi era, «da vicino», il giudice Paolo Borsellino?«Sono stato aggiunto alla scorta il 31 maggio del ’92, perciò sono stato poco con lui. Quella che ho conosciuto era una persona stupenda e molto umile. Che aveva a cuore anche noi della scorta».

Un ricordo «piccolo» ma particolare?«Una volta ero in ascensore con una collega e il magistrato. Borsellino lesse il cartello “Capienza 4 persone” e domandò: “Quante persone entrano qua?”. “C’è scritto quattro, signor giudice”. “Sbagliato: qui ci capi Enza più quattro persone», rispose. “Capi” in dialetto significa “entra”, lui si divertiva molto a fare questi giochi di parole in siciliano».

A quel tempo sapeva di essere in pericolo.«Era consapevole che dopo Falcone c’era lui. Solo negli ultimi giorni, però, il suo umore è cambiato: aveva saputo che era arrivato il tritolo».

Venticinque anni dopo che cosa rimane all’Italia di Falcone e Borsellino?«Molto, perché il sacrificio che loro e i miei colleghi hanno dato alla nazione è grande. La nazione, però, doveva essere coinvolta e svegliarsi prima del loro martirio».

Lei non ha mai rinunciato a fare il poliziotto.«Sì, ma mi sono ritrovato in ufficio e la mia storia è finita lì. A darmi la forza di andare avanti c’è stato mio figlio, che all’epoca dei fatti aveva solo sei mesi: io so cosa voglia dire crescere senza padre, il mio era emigrato in Francia prima che nascessi e non l’ho mai più rivisto. Non volevo che mio figlio subisse lo stesso destino».

Lei ogni 19 luglio che cosa fa?«Partecipo alla deposizione della corona di fiori e alla messa alla caserma Lungaro. E poi vado in via D’Amelio, dove è rimasto un pezzo della mia vita. Ma per me il 19 luglio non è solo un ricordo, lo rivivo ogni giorno. Anche un semplice allarme di auto o la sirena mi riportano indietro».

E in via D’Amelio torna spesso?«Si, ma preferisco andarci di sera, al buio, quando le luci sono spente e non c’è nessuno. Molti lì si fanno vedere tanto per mettersi in mostra, io no».

Si è mai augurato di essere morto, quel giorno?«È capitato, credo sia normale in questi casi. Noi sopravvissuti veniamo guardati con un occhio diverso, a volte quasi come un peso. Pensi che l’atto ministeriale con cui si certifica la mia condizione di “vittima di mafia e terrorismo” è arrivato solo a marzo di quest’anno, dopo venticinque di iter burocratico».

Lei è amico di altri superstiti di attentati di mafia?«Sono legato ad Angelo Corbo della scorta di Falcone. Lui si trova a Firenze ma ci sentiamo spesso: condividiamo molti dispiaceri rispetto a questa nostra condizione».

Il più grande?«Il risarcimento danni è visto come un favore anziché un atto dovuto rispetto a quello che io e gli altri abbiamo dato. Sa quante volte i funzionari a cui parlavo dei dolori e dei problemi fisici legati all’attentato rispondevano:  “Ma questo chi lo dice che sia dovuto a quello”?. Uno, addirittura: “Lei deve ringraziare che è vivo”».

Nonostante tutto ha scelto di rimanere a Palermo.«Ho sempre amato la mia città, ma qualche volta vorrei scappare».

Per andare dove?«In Australia, un Paese grande e “libero” che mi affascina sin da piccolo. Chissà che prima o poi non ci riesca a partire davvero».

di Raffaella Serin 17 luglio 2017 VANITY FAIR

 

 

 

 

🟧 ARCHIVIO – ANTONIO VULLO scampò alla strage di via D’Amelio. Il suo racconto