La mafia gioca in curva con gli ultrà: i clan criminali dietro le violenze negli stadi

L’Inter gioca in casa, ma quella sera il capo storico degli ultrà nerazzurrinon può andare allo stadio: glielo ha vietato il tribunale, su richiesta della questura. È il 29 ottobre 2022. Vittorio Boiocchi è solo, sta rientrando a casa nel quartiere Figino, alla periferia est di Milano. Alle 19.45, in una strada senza telecamere, viene affiancato da una moto con due killer. Si sentono cinque colpi di pistola, due centrano al petto e al collo Boiocchi, che muore poco dopo.
La notizia arriva in fretta a San Siro. Gli ultrà della curva nord si fermanoper lui: la partita inizia senza cori, senza striscioni. Finito il primo tempo, i suoi “Boys” abbandonano gli spalti. Sembra una manifestazione volontaria di lutto. Invece è uno sgombero con le maniere forti. In pochi minuti sui social si moltiplicano le testimonianze di normali tifosi che hanno pagato il biglietto ma si sono visti cacciare dai violenti: «Non mi capacito, un intero settore è stato sgomberato con urla, minacce e spintoni». «Ho visto bambini piangere, una mia amica ha avuto un attacco di panico». La curva interista dello stadio di San Siro svuotata a forza per commemorare il capo ultrà assassinato in un agguato di stampo mafioso

È una spettacolare dimostrazione di potere: il calcio milanese deve inchinarsi di fronte al suo boss. Che è un «pluri-pregiudicato» di 69 anni, ne ha passati più di 26 in carcere e fino a pochi mesi prima era agli arresti domiciliari. Eppure, è rimasto padrone della curva, anche se non poteva più entrare né avvicinarsi allo stadio dal giugno 2021, da quando il tribunale di Milano lo ha bollato come «socialmente pericoloso» e gli ha applicato la misura della sorveglianza speciale.
Il caso di Boiocchi non è un’eccezione. Da almeno vent’anni, prima e dopo di lui, la curva degli ultrà nerazzurri è stata sempre dominata da noti pregiudicati. Il problema riguarda molte altre squadre importanti, dal Milan alla Lazio, dalla Juventus alla Roma, dal Napoli al Catania. In tutta Italia, in diverse grandi città e in molti centri minori, il tifo organizzato è in mano a personaggi della criminalità. Spesso legati a boss mafiosi.

A Milano le indagini partite dall’omicidio di Boiocchi stanno facendo luce su una serie di reati-spia, come pestaggi, accoltellamenti, risse, rapine, estorsioni e traffici di droga. L’ipotesi delle forze di polizia e dei magistrati antimafia è che i gruppi più forti abbiano fatto il salto dal tifo violento alla delinquenza. Dentro e attorno allo stadio, secondo queste indagini, sembrano agire bande criminali che seguono schemi tipici delle associazioni mafiose. Il concetto fondamentale diventa il controllo del territorio, applicato al calcio. Non c’è soltanto il cronico e notorio problema dello spaccio di droga nelle curve. Ora sono tutte le attività economiche connesse al tifo, dalle vendite di bibite sugli spalti al commercio di gadget e magliette nei piazzali, dalla gestione dei parcheggi ai benefici derivanti dai rapporti con i calciatori, dal bagarinaggio dei biglietti al controllo delle trasferte, che rischiano di essere monopolizzate dai gruppi ultrà e dai loro capi. Che si fanno forti delle loro amicizie nella ’ndrangheta, camorra, cosa nostra e in altre organizzazioni di stampo mafioso. 

Vittorio Boiocchi aveva un lunghissimo curriculum delinquenziale, con ripetuti arresti e condanne a partire dal 1976, la più grave a vent’anni di prigione per traffico di stupefacenti. In carcere è diventato amico di boss di cosa nostra, della ’ndrangheta e della mafia del Brenta come Felice Maniero. Scarcerato nel 2018, ha finito di scontare la pena ai servizi sociali e dal 2020 ha smesso, per la prima volta dal 1990, di essere un “sorvegliato speciale”. Quindi ha ripreso ufficialmente il bastone di comando della curva nord. Ma ha continuato a frequentare pregiudicati. E il 3 marzo 2021 è stato riarrestato a Milano mentre preparava un raid armato. Boiocchi quel giorno è entrato in città con un ex compagno di cella, su una macchina rubata, e si è unito ad altri due pregiudicati italiani. La polizia ha deciso di fermarli subito, per evitare il peggio: nell’auto sono stati sequestrati una pistola senza matricola, con relativo caricatore e 7 cartucce, un taser e due manette. Tre mesi dopo, quando il tribunale è tornato a bandirlo dagli stadi, era ancora agli arresti domiciliari.

Dal 2022, dopo l’omicidio di Boiocchi, a ereditare il ruolo di leader della curva nord è il suo braccio destro, Andrea Beretta, classe 1975. Anche lui è pregiudicato, con diverse condanne definitive per droga (prima denuncia nel 2000 per cocaina), furto, lesioni personali e naturalmente ripetute violazioni del Daspo, il divieto di partecipare a eventi sportivi. Beretta in quei mesi è fresco di arresto per un pestaggio spietato. Il 16 febbraio 2022, prima della partita tra Inter e Liverpool, un “magliettaro” campano, Antonio S., che vende articoli sportivi nel piazzale dello stadio, viene aggredito da quattro ultrà guidati da Beretta, che massacra l’ambulante con pugni e calci violentissimi, gridando: «Noi siamo della curva, qui i napoletani non li vogliamo». Il capo ultrà continua a picchiarlo anche quando il poveraccio crolla a terra, cianotico, dicendo che è malato di asma e ha bisogno dello spray salvavita. Beretta gli butta via il medicinale dicendo: «Ti ammazziamo». L’ambulante sviene e sbatte la testa. Beretta lo ignora e se ne va senza chiamare i soccorsi. Il magliettaro viene salvato dalla polizia municipale quando è già in arresto respiratorio. Viene ricoverato d’urgenza in ospedale con frattura al perone, trauma cranico, abrasioni e lividi su tutto il corpo.

Beretta in estate ottiene gli arresti domiciliari. Ma il 16 agosto il questore gli applica un Daspo rafforzato, della durata di dieci anni, con divieto assoluto di entrare negli stadi, garantito dall’obbligo di presentarsi per tre volte alla polizia prima e dopo ogni partita dell’Inter. A metà ottobre, in tribunale, nel tentativo (fallito) di evitare il decreto di  sorveglianza speciale, «riconosce di aver fatto degli sbagli», come riassumono i giudici nel verdetto, e ammette «le problematiche di gestione dei circa 7 mila tifosi organizzati della curva nord, tra cui vari pregiudicati». Sostiene di aver violato il Daspo proprio «per tenere sotto controllo alcuni ultrà». Per il pestaggio dell’ambulante, riconosce di aver «perso il controllo» e sottolinea di avergli offerto un risarcimento. Il tribunale non crede però al suo ravvedimento e gli infligge la misura di sicurezza. Pochi giorni dopo, Boiocchi viene ammazzato. E Beretta ormai non può più mettere piede in nessuno stadio. 

Da allora, a presentarsi come nuovo “portavoce” della curva, è un suo fedelissimo, Marco Ferdico, 38 anni. Anche lui è pregiudicato, con immancabile condanna definitiva per droga. Ed è anche un amico dichiarato di boss come Antonio Bellocco, che a Milano è uno dei giovani rappresentanti di un ricco e sanguinario clan della ’ndrangheta. Quando i cronisti antimafia lo scrivono, Ferdico si fa intervistare, per giurare che gli ultrà si autofinanziano lecitamente. Ma non rinnega quella e altre amicizie criminali. E al suo fianco c’è sempre Beretta.

Dalla parte opposta dello stadio di Milano, cambiano le bandiere, ma non i casellari giudiziari. Luca Lucci, che oggi ha 42 anni, si è visto riconoscere il ruolo di «leader indiscusso degli ultrà rossoneri» nientemeno che da Giancarlo Capelli detto «il Barone», il capo storico della tifoseria rossonera, che ha pure testimoniato a suo favore. Lucci si era fatto un nome già vent’anni fa nella «Fossa dei Leoni»: un gruppo poi sciolto, anche in seguito alle faide che divisero a lungo gli ultrà milanisti. Il Barone gli ha attribuito il merito di aver «riunificato tutti i tifosi della curva sud». Un’indagine della polizia ipotizzava che gli agguati e tentati omicidi fra tifosi della stessa squadra nascondessero guerre di droga. Davanti ai giudici, il Barone all’inizio lo ha negato, poi ha sostenuto che il problema c’era ma riguardava pochi ultrà che «avevano sbagliato e sono stati allontanati». Secondo il tribunale, in realtà, Lucci ha ereditato la guida della curva rossonera da Giancarlo Lombardi detto Sandokan, capo dei «Guerrieri Ultras», proprio quando quest’ultimo è stato arrestato per traffico di droga. 

Anche Lucci nel 2020 è stato colpito da una doppia misura giudiziaria: sorveglianza speciale per tre anni, con divieto di entrare a Milano; e sequestro di un patrimonio ritenuto «frutto di attività illecite», che comprende una casa, undici orologi Rolex e un bar di Sesto San Giovanni, chiamato “Clan 1899” in omaggio al Milan. Nelle motivazioni, il tribunale spiega che il locale era diventato un covo-deposito per lo spaccio di droga, utilizzato anche da pusher albanesi, e al tempo stesso una base per le spedizioni punitive degli ultrà rossoneri (e di loro alleati come i serbi del Partizan). 

Da Milano a Torino, da Roma a Napoli, molti  capi ultrà sono pregiudicati e si frequentano, come vecchi amici, anche se tifano per squadre rivali. Sono gemellaggi assai sospetti. Il milanista Lucci, ad esempio, ha solidi agganci con vari ultrà della Juventus, tutti con precedenti per droga e altri reati, in particolare con Loris Grancini, il fondatore dei “Viking”, condannato anche come mandante di un tentato omicidio. Il club bianconero è stato al centro dello scandalo delle infiltrazioni della ’ndrangheta nei gruppi ultrà, che nel 2017 svelò il ruolo del calabrese Rocco Dominello nei traffici di biglietti, ceduti dalla società a prezzi scontati e poi rivenduti dai bagarini. Grancini era amico fraterno anche di Sandokan, che dopo il suo arresto esibì striscioni in suo favore nella curva rossonera.

Fra ultrà milanisti e interisti vige da qualche anno un patto di non aggressione, motivato anche da comuni interessi economici. E i capi di Milano hanno stretto alleanze pure con i boss del tifo di Roma. Gli atti giudiziari segnalano, ad esempio, che Lucci e il Barone hanno partecipato, insieme, ai funerali di Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, il leader degli «Irriducibili» della Lazio, ucciso a Roma il 7 agosto 2019. E nel 2022 gli ultrà laziali hanno osservato 15 minuti di silenzio dopo l’omicidio dell’interista Boiocchi. 

Anche Piscitelli aveva scontato diverse condanne per traffici di droga e altri reati, tra cui una tentata estorsione contro il presidente della Lazio. Una vicenda inquietante, ma poco nota. Nello scorso decennio, una cordata criminale finanziata da camorristi casalesi viene inquisita mentre cerca di scalare la società biancoceleste, per riciclare soldi sporchi. Come rappresentante di facciata compare l’ex bomber laziale Giorgio Chinaglia, che fa una triste fine: muore nel 2012 da latitante all’estero. Le indagini rivelano che Piscitelli ha organizzato con altri “irriducibili” una campagna di «violenze, minacce e attentati con ordigni esplosivi» contro il presidente Claudio Lotito e i suoi familiari e collaboratori, per costringerlo a cedere azioni. La sentenza di condanna spiega che il movente di Piscitelli e dei suoi ultrà era «un indubbio interesse economico al mantenimento dei privilegi» ottenuti «durante la precedente gestione di Sergio Cragnotti», l’ex patron poi travolto dalla bancarotta della Cirio: biglietti scontati da rivendere, soldi per le coreografie, gestione dei punti vendita di oggettistica per tifosi. 

Su queste infiltrazioni aveva indagato a fondo la commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi, che già nel 2017 lanciò l’allarme: «La criminalità di tipo mafioso vede nel settore calcistico un’opportunità per ampliare non solamente il campo dei traffici illeciti e il riciclaggio dei capitali sporchi, ma anche per insinuarsi in maniera strisciante e pervasiva nel tessuto sociale (…)

L’assunzione progressiva del controllo dei gruppi ultras e la loro manipolazione (…) sono una delle porte d’ingresso che può consentire ai gruppi criminali di accaparrarsi la gestione delle attività economiche legate agli eventi sportivi, anche quelle lecite». L’ESPRESSO 

 

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