«Dietro le bombe un’attività preventiva di Cosa nostra» Il furto di documenti riservati dalla borsa del magistrato che interroga il pentito «Le stragi di Palermo concordate con i politici, i due giudici erano in grado di spezzare la strategia» «Uccisi dalla mafia degli appalti» Siino: Falcone e Borsellino avevano capito
La strage di Capaci è stata voluta per impedire a Giovanni Falcone di «leggere» un quadro d’insieme, in quel momento (maggio 1992) ancora poco decifrabile che nasceva dalla chiusura di partita tra Cosa nostra e il vecchio sistema di potere.
L’ex procuratore aggiunto di Palermo si era trasferito a Roma ma dal nuovo «osservatorio» (la direzione degli «Affari penali» del ministero di Grazia e Giustizia) non si era rassegnato ad un ruolo di semplice «notaio» delle leggi. Anzi, aveva trovato modo di dare impulso e iniziativa alla lotta alla mafia.
Il lungo interrogatorio di Angela Siino, ex imprenditore mafioso ora collaboratore di giustizia, offre per dirla col suo legale, Alfredo Galasso – una «formidabile chiave di lettura del sistema mafioso e delle sue relazioni esterne».
Oggi i magistrati di Caltanissetta – titolari delle inchieste sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio – sono in possesso di una testimonianza preziosa (ovviamente da sottoporre ad accertamenti) specialmente per un periodo «nevralgico» della recente storia d’Italia e per quei giorni che separarono le due stragi del 1992.
Gli attentati, sostiene Siino«Bronson» – sono collegati, quasi una conseguenza l’uno dell’altro. Ma, mentre per Falcone l’apparato militare di Cosa nostra si preparava sin dal 1987, per Borsellino fu necessario «operare» in fretta.
Perché, dice Siino, non c’era più tempo da perdere. La ricomposizione del sistema politico-affaristico-mafioso, sepolto dall’omicidio di Lima, era già in atto e Borsellino possedeva buoni elementi per «intercettare» nuove alleanze. In sostanza, come spiega Galasso: «Falcone e Borsellino avevano capito tutto ed erano in grado di interrompere quel processo di ricomposizione».
Il collaboratore ha risposto a tutte le domande dei magistrati di Caltanissetta. La prima parte dell’interrogatorio “è stata praticamente una conferma delle «intuizioni» investigative già avviate sulla ipotesi che le stragi di Palermo non fossero opera soltanto della mafia. «Bronson» ha raccontato nei particolari il «dibattito» che si svolse all’interno di Cosa nostra. Un «dibattito» molto simile a quello che avveniva in seno alle istituzioni e alla società civile. Lo stesso presidente Scalfaro, di fronte ai resti fumanti delle vittime di via D’Amelio ebbe a chiedersi: «Ma è solo mafia?».
Analoghi dubbi esternava il popolo di Cosa nostra, che quelle stragi non aveva deciso e subiva come decisione univoca della «direzione strategica». Siino, in quel periodo, si trovava in carcere e – rievoca adesso – riceveva un «bombardamento» interno ed esterno alla cella. Tutti gli chiedevano: «Ma è solo Cosa nostra?».
Lui è uno dei pochi in grado di dare risposte, per via delle sue cognizioni e relazioni «politiche». No, non fu solo mafia. Così dice Siino. E offre una ricostruzione abbastanza convincente. Nomi? Non accusa nessuno, perché è impossibile dire che «Tizio e Caio furono i mandanti».
Più che di persone singole, bisogna parlare di «automatismi» (ovviamente mossi da persone) che scattarono all’unisono di fronte al pericolo che Falcone potesse far saltare equilibri appena incardinati. La posta in gioco era enorme.
Evidentemente gli interessi in discussione non erano soltanto quelli dei boss di Cosa nostra, che coi loro subalterni giustificavano la necessità dei «botti» con la volontà di vendetta sui due magistrati, indicati come «cani rugnusi».
C’era un livello più «elevato». Nel quadro dipinto da Siino c’è posto per la descrizione di un «blocco» cementato dai grandi interessi sugli appalti pubblici.
Al centro, la torta dei grandi finanziamenti. Attorno le imprese, i partiti e, con pari diritti, il vertice di Cosa nostra rappresentato da Siino che fungeva da «collettore» e grande distributore. E’, questo, l’aspetto meno conosciuto dell’inchiesta di «Mani pulite».
Era immaginabile che le grandi imprese, le segreterie dei partiti (consapevolmente?) stessero seduti al «tavolino» (quello della spartizione degli appalti) insieme con un rappresentante di Cosa nostra? Anzi, in Sicilia l’accordo prevedeva come ha già raccontato Siino – una quota fissa, si chiama tangente, per Riina. Capitolo a parte erano i «lavori» dati alle imprese amiche della mafia. Falcone, ma non solo lui, era sotto osservazione da tempo. Cosa nostra seguiva con attenzione maniacale l’evoluzione della politica, specialmente la politica della lotta alla mafia. Quello era il momento della «scoperta della televisione».
Una conferma di ciò l’ha data lo stesso Siino, ricordando ai magistrati ed anche al suo avvocato (che su questi argomenti aveva dibattuto in tv) episodi, frasi e circostanze trasmesse via etere.
Non sarà sfuggito, perciò, agli «osservatori» di Cosa nostra, la tragica determinazione con cui Borsellino si avvicinava a Cosa nostra dopo la strage di Capaci.
Pochi giorni prima il magistrato commemorò il suo amico Falcone alla biblioteca comunale di Palermo. Ricorda oggi Alfredo Galasso: «Il giudice disse: “Sono un magistrato, ma sono anche testimone”. Evidentemente aveva capito ed era pronto a spiegare all’autorità competente». Fu solo mafia? Siino dice che, anche dal carcere, si percepiva la presenza di agenti esterni.
Era palpabile la convergenza di interessi. Anche di pezzi delle istituzioni? Non si conosce la risposta di Siino e Galasso non parla perché «non si dica che ostacoliamo le indagini».
Ma intorno a queste indagini c’è molta curiosità insana. Come dimostra lo strano furto subito da Luca Tescaroli, uno dei magistrati che interroga il collaboratore.
Dal suo albergo è stata rubata la borsa con documenti riservatissimi. Poi è stata ritrovata. A quanto pare i verbali di Siino c’erano tutti, mancavano altre carte relative al primo attentato (fallito) – all’Addaura – contro Falcone.
Strano che non siano stati restituiti dopo la intuibile fotocopiatura. Evidentemente di quelli seivivano gli originali. Francesco La Licata «Dietro le bombe un’attività preventiva di Cosa nostra»
Oggi i magistrati di Caltanissetta – titolari delle inchieste sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio – sono in possesso di una testimonianza preziosa (ovviamente da sottoporre ad accertamenti) specialmente per un periodo «nevralgico» della recente storia d’Italia e per quei giorni che separarono le due stragi del 1992.
Gli attentati, sostiene Siino«Bronson» – sono collegati, quasi una conseguenza l’uno dell’altro. Ma, mentre per Falcone l’apparato militare di Cosa nostra si preparava sin dal 1987, per Borsellino fu necessario «operare» in fretta.
Perché, dice Siino, non c’era più tempo da perdere. La ricomposizione del sistema politico-affaristico-mafioso, sepolto dall’omicidio di Lima, era già in atto e Borsellino possedeva buoni elementi per «intercettare» nuove alleanze. In sostanza, come spiega Galasso: «Falcone e Borsellino avevano capito tutto ed erano in grado di interrompere quel processo di ricomposizione».
Il collaboratore ha risposto a tutte le domande dei magistrati di Caltanissetta. La prima parte dell’interrogatorio “è stata praticamente una conferma delle «intuizioni» investigative già avviate sulla ipotesi che le stragi di Palermo non fossero opera soltanto della mafia. «Bronson» ha raccontato nei particolari il «dibattito» che si svolse all’interno di Cosa nostra. Un «dibattito» molto simile a quello che avveniva in seno alle istituzioni e alla società civile. Lo stesso presidente Scalfaro, di fronte ai resti fumanti delle vittime di via D’Amelio ebbe a chiedersi: «Ma è solo mafia?».
Analoghi dubbi esternava il popolo di Cosa nostra, che quelle stragi non aveva deciso e subiva come decisione univoca della «direzione strategica». Siino, in quel periodo, si trovava in carcere e – rievoca adesso – riceveva un «bombardamento» interno ed esterno alla cella. Tutti gli chiedevano: «Ma è solo Cosa nostra?».
Lui è uno dei pochi in grado di dare risposte, per via delle sue cognizioni e relazioni «politiche». No, non fu solo mafia. Così dice Siino. E offre una ricostruzione abbastanza convincente. Nomi? Non accusa nessuno, perché è impossibile dire che «Tizio e Caio furono i mandanti».
Più che di persone singole, bisogna parlare di «automatismi» (ovviamente mossi da persone) che scattarono all’unisono di fronte al pericolo che Falcone potesse far saltare equilibri appena incardinati. La posta in gioco era enorme.
Evidentemente gli interessi in discussione non erano soltanto quelli dei boss di Cosa nostra, che coi loro subalterni giustificavano la necessità dei «botti» con la volontà di vendetta sui due magistrati, indicati come «cani rugnusi».
C’era un livello più «elevato». Nel quadro dipinto da Siino c’è posto per la descrizione di un «blocco» cementato dai grandi interessi sugli appalti pubblici.
Al centro, la torta dei grandi finanziamenti. Attorno le imprese, i partiti e, con pari diritti, il vertice di Cosa nostra rappresentato da Siino che fungeva da «collettore» e grande distributore. E’, questo, l’aspetto meno conosciuto dell’inchiesta di «Mani pulite».
Era immaginabile che le grandi imprese, le segreterie dei partiti (consapevolmente?) stessero seduti al «tavolino» (quello della spartizione degli appalti) insieme con un rappresentante di Cosa nostra? Anzi, in Sicilia l’accordo prevedeva come ha già raccontato Siino – una quota fissa, si chiama tangente, per Riina. Capitolo a parte erano i «lavori» dati alle imprese amiche della mafia. Falcone, ma non solo lui, era sotto osservazione da tempo. Cosa nostra seguiva con attenzione maniacale l’evoluzione della politica, specialmente la politica della lotta alla mafia. Quello era il momento della «scoperta della televisione».
Una conferma di ciò l’ha data lo stesso Siino, ricordando ai magistrati ed anche al suo avvocato (che su questi argomenti aveva dibattuto in tv) episodi, frasi e circostanze trasmesse via etere.
Non sarà sfuggito, perciò, agli «osservatori» di Cosa nostra, la tragica determinazione con cui Borsellino si avvicinava a Cosa nostra dopo la strage di Capaci.
Pochi giorni prima il magistrato commemorò il suo amico Falcone alla biblioteca comunale di Palermo. Ricorda oggi Alfredo Galasso: «Il giudice disse: “Sono un magistrato, ma sono anche testimone”. Evidentemente aveva capito ed era pronto a spiegare all’autorità competente». Fu solo mafia? Siino dice che, anche dal carcere, si percepiva la presenza di agenti esterni.
Era palpabile la convergenza di interessi. Anche di pezzi delle istituzioni? Non si conosce la risposta di Siino e Galasso non parla perché «non si dica che ostacoliamo le indagini».
Ma intorno a queste indagini c’è molta curiosità insana. Come dimostra lo strano furto subito da Luca Tescaroli, uno dei magistrati che interroga il collaboratore.
Dal suo albergo è stata rubata la borsa con documenti riservatissimi. Poi è stata ritrovata. A quanto pare i verbali di Siino c’erano tutti, mancavano altre carte relative al primo attentato (fallito) – all’Addaura – contro Falcone.
Strano che non siano stati restituiti dopo la intuibile fotocopiatura. Evidentemente di quelli seivivano gli originali. Francesco La Licata «Dietro le bombe un’attività preventiva di Cosa nostra»
istra: il giudice Borsellino, il pentito Siino, la strage di Capaci e (sopra) il giudice Falcone insieme col capitano De Donno. LA STAMPA
MAFIA e APPALTI dal 1992 ad oggi