Era appena arrivato a Pianosa. Forse ha ubbidito a un ordine della Cupola Killer di Borsellino suicida in cella Accusato per via D’Amelio, si è impiccato PIANOSA. Quando l’hanno trovato, appeso a quelle sbarre, rantolava.
Un respiro, poco più. In fretta, gli agenti carcerari hanno cercato di fare il più in fretta possibile: massaggio cardiaco, respirazione artificiale. Ma non ce l’hanno fatta. Salvatore Biondo, 39 anni, detenuto sottoposto al regime di massima sicurezza, è morto per asfissia, impiccato alle sbarre d’acciaio della cella di isolamento del carcere di Pianosa con le lenzuola della sua branda.
Sono le 5,22 di lunedì 16 dicembre.
Salvatore Biondo, uomo della cosca di San Lorenzo di Palermo, organico a Cosa Nostra, accusato dai pentiti Ferrante e Ganci di aver procurato alla mafia appartamenti per summit e il telecomando per la strage di via D’Amelio, imputato nel processo «Borsellino ter» a Caltanissetta, era arrivato al carcere di massima sicurezza dell’isola di Pianosa sabato mattina, proveniente dal carcere di Rebibbia.
Un respiro, poco più. In fretta, gli agenti carcerari hanno cercato di fare il più in fretta possibile: massaggio cardiaco, respirazione artificiale. Ma non ce l’hanno fatta. Salvatore Biondo, 39 anni, detenuto sottoposto al regime di massima sicurezza, è morto per asfissia, impiccato alle sbarre d’acciaio della cella di isolamento del carcere di Pianosa con le lenzuola della sua branda.
Sono le 5,22 di lunedì 16 dicembre.
Salvatore Biondo, uomo della cosca di San Lorenzo di Palermo, organico a Cosa Nostra, accusato dai pentiti Ferrante e Ganci di aver procurato alla mafia appartamenti per summit e il telecomando per la strage di via D’Amelio, imputato nel processo «Borsellino ter» a Caltanissetta, era arrivato al carcere di massima sicurezza dell’isola di Pianosa sabato mattina, proveniente dal carcere di Rebibbia.
Si trovava nelle celle a vista della sezione «isolamento di passaggio», dove restano i detenuti sottoposti al 41 bis in attesa di sistemazione.
Una cella a vista, che non richiedeva particolare sorveglianza. Ogni quindici minuti, le guardie carcerarie ci passano davanti. E così è stato, all’alba del 16 dicembre. L’ultimo turno, alle 4,45: gli agenti vedono Biondo seduto sulla branda ancora composta, completamente vestito, il volto tra le mani. Gli chiedono «che fai?», lui risponde malamente.
Gli agenti vanno oltre, non si possono fermare in quella che è una processione ininterrotta e necessaria. Dopo pochi minuti, sono appena le 5 del mattino, gli agenti ripassano davanti alla cella. Vedono il corpo di Biondo penzolare dalle sbarre della finestrella.
E’ un attimo: i poliziotti entrano, salgono sullo sgabello sollevando Biondo che sta già rantolando. Sciolgono il nodo del lenzuolo, praticano un massaggio cardiaco a Biondo.
Premono, disperatamente, quel torace. Biondo emette un respiro profondo, ce la fa. No, non ce la fa. Morirà cinque minuti dopo.
Il referto di morte parla chiaro: decesso per impiccagione. E’ suicidio, dicono all’amministrazione carceraria.
Una cella a vista, che non richiedeva particolare sorveglianza. Ogni quindici minuti, le guardie carcerarie ci passano davanti. E così è stato, all’alba del 16 dicembre. L’ultimo turno, alle 4,45: gli agenti vedono Biondo seduto sulla branda ancora composta, completamente vestito, il volto tra le mani. Gli chiedono «che fai?», lui risponde malamente.
Gli agenti vanno oltre, non si possono fermare in quella che è una processione ininterrotta e necessaria. Dopo pochi minuti, sono appena le 5 del mattino, gli agenti ripassano davanti alla cella. Vedono il corpo di Biondo penzolare dalle sbarre della finestrella.
E’ un attimo: i poliziotti entrano, salgono sullo sgabello sollevando Biondo che sta già rantolando. Sciolgono il nodo del lenzuolo, praticano un massaggio cardiaco a Biondo.
Premono, disperatamente, quel torace. Biondo emette un respiro profondo, ce la fa. No, non ce la fa. Morirà cinque minuti dopo.
Il referto di morte parla chiaro: decesso per impiccagione. E’ suicidio, dicono all’amministrazione carceraria.
Non poteva essere assassinato, non è entrato in contatto con alcuno dei detenuti di massima sicurezza. Forse non ha retto la prospettiva del 41 bis, forse non ce l’ha fatta a pensare all’enormità di un ergastolo. Il direttore del carcere di Pianosa accoglie gli alti dirigenti della Direzione degli istituti generali di pena arrivati da Roma nel primo pomeriggio di lunedì in elicottero.
«E’ suicidio», ormai è ufficiale. Ma una voce terribile – quella del carcere, in gergo «Radio Scarpa» – dice che Biondo ha seguito un consiglio.
Un consiglio che è anche un ordine. «Radio Scarpa», ancora lei. C’è chi dice che a Biondo è stato «consigliato» di farla finita.
In alternativa, qualcosa poteva succedere ai suoi familiari. Non era pentito, Biondo, non ancora. Incensurato, era stato tirato in ballo da pentiti del calibro di Ferrante e Gioè.
Implicato nel processo «Borsellino ter» per la faccenda del telecomando, Biondo non aveva, a quanto pare, intenzione di collaborare con gli inquirenti. E questa morte, si dice adesso nel carcere di massima sicurezza dell’isola di Pianosa, ha tutto il sapore del «suicidio preventivo». Chiara Carenini.
In alternativa, qualcosa poteva succedere ai suoi familiari. Non era pentito, Biondo, non ancora. Incensurato, era stato tirato in ballo da pentiti del calibro di Ferrante e Gioè.
Implicato nel processo «Borsellino ter» per la faccenda del telecomando, Biondo non aveva, a quanto pare, intenzione di collaborare con gli inquirenti. E questa morte, si dice adesso nel carcere di massima sicurezza dell’isola di Pianosa, ha tutto il sapore del «suicidio preventivo». Chiara Carenini.
Uomini d’onore sconfitti da una doppia solitudine
PIANOSA Sepolti nella «cripta» Così si vive a Pianosa fortezza nel Tirreno
L’isola di Pianosa ha un cuore di cemento armato. Non dorme mai. Non gode il suo mare e il suo sole.
Il «braccio di massima» respira di nascosto, di nascosto parla, si conta.
Il «braccio di massima» respira di nascosto, di nascosto parla, si conta.
Ci si sveglia prèsto a Pianosa: uno dopo l’altro, i detenuti «speciali» prendono un’ora d’aria, sempre da soli.
Mangiano nelle loro celle. Dormono nelle loro celle. Non possono comunicare.
La legge del carcere speciale è legge adeguata a questa gente senza onore responsabile di stragi e omicidi.
E questa isola, la più bella dell’Arcipelago Toscano, è la loro custode e la loro cripta.
In 400 li sorvegliano: alcuni sull’isola, altri nei tre perimetri che custodiscono i bracci di detenzione, altri in mare, con pilotine veloci.
Alcuni in cielo, a sorvolare quella stella di cemento armato.
E questa isola, la più bella dell’Arcipelago Toscano, è la loro custode e la loro cripta.
In 400 li sorvegliano: alcuni sull’isola, altri nei tre perimetri che custodiscono i bracci di detenzione, altri in mare, con pilotine veloci.
Alcuni in cielo, a sorvolare quella stella di cemento armato.
I fratelli Graviano, per esempio. E giù giù, nella gerarchia mafiosa, tutti quelli che la polizia e i carabinieri hanno bloccato negli anni. Manca Salvatore Riina, il boss dei boss: lui è nel carcere speciale dell’Asinara.
Ma qui, dicono le guardie carcerarie, non se ne sente la mancanza. Quelli che ci sono, dicono, «sono bestie come loro». L’isola di Pianosa è carcere sicurissimo. I suoi ritmi sono scanditi ora dopo ora, minuto dopo minuto, sempre uguali, sempre gli stessi.
Ma qui, dicono le guardie carcerarie, non se ne sente la mancanza. Quelli che ci sono, dicono, «sono bestie come loro». L’isola di Pianosa è carcere sicurissimo. I suoi ritmi sono scanditi ora dopo ora, minuto dopo minuto, sempre uguali, sempre gli stessi.
Turnover del corpo di guardia, ora d’aria dei detenuti, pranzo nelle celle, televisioni accese, turnover del corpo di guardia, cena, si spengono le luci – tutte meno quelle di sorveglianza -, turnover dei poliziotti. E la mattina dopo si ricomincia. Pochi colloqui, qualche magistrato, le proteste della polizia penitenziaria che lamenta la scarsità di personale e l’indecenza degli alloggi. Tutti, a Pianosa, sono detenuti. Ma il carcere vive di una vita nascosta. Del suicidio di Biondo, appena arrivato, ancora nelle celle a vista dell’isolamento di passaggio, lo hanno saputo subito tutti.
Alle 5 del mattino. In questo braccio maledetto funziona una radio senza fui, ricetrasmittente invisibile. «Radio scarpa» la chiamano. Quella che consente ai mafiosi di comunicare nonostante tutto. Come? Nessuno lo sa. Forse con un alfabeto silenzioso, fatto di gesti, quelli che permettono ai boss chiusi nelle aule bunker di scambiare messaggi, di dare ordini. [c. car.]
«Drogati dopo lo choc di Capaci»
«Drogati dopo lo choc di Capaci» Due agenti rapinavano per comprarsi la cocaina
Durante la settimana erano poliziotti di scorta, nel tempo libero rapinatori di banche.
Non è la prima volta che accade, ma in questo caso le motivazioni di due agenti in servizio alla questura di Palermo, arrestati a Milano all’inizio di quest’anno, sono state davvero singolari: le rapine – hanno spiegato al magistrato che li stava interrogando – servivano per finanziare l’acquisto di cocaina, di cui erano diventati schiavi per superare la paura di un lavoro a rischio e stressante, quello di scorta ai magistrati antimafia.
Idee un po’ confuse quelle degli agenti Vincenzo Ruisi e Giovanni Argento, il primo accusato di aver partecipato a otto rapine e una tentata estorsione, il secondo di avere svolto un ruolo da complice in almeno una delle rapine.
La loro storia, se venisse creduta, forse servirà come attenuante al processo cui intende sottoporli la procura milanese, che ieri mattina ha chiesto il loro rinvio a giudizio.
Fino al 1992 Ruisi e Argento erano addetti al servizio scorta di alcuni magistrati impegnati in prima linea nella lotta contro le cosche mafiose. Ma dopo gli attentati in cui persero la vita prima Giovanni Falcone e poi Paolo Borsellino, pur non avendo mai scortato i due giudici, Ruisi e Argento hanno raccontato di essere rimasti sotto choc: per loro, improvvisamente, niente era più come prima.
Così, per poter affrontare meglio il lavoro quotidiano, fatto di continue tensioni, cambi di programma improvvisi, stress di ogni tipo, hanno pensato bene di iniziare a sniffare un po’.
Prima soltanto qualche tiro, ogni tanto, poi velocemente è arrivata la tos- sicodipendenza, fino a dover organizzare un’attività criminosa parallela per mantenersi il vizio e pagare spacciatori sempre più esosi. Le rapine infatti sarebbero state compiute in gran parte nel corso del 1994.
A mettere fine alla loro doppia vita ci hanno pensato altri colleghi, arrestandoli all’inizio di quest’anno. Finiti nel carcere di Peschiera del Garda, inizialmente Ruisi e Argento hanno negato ogni accusa, poi di fronte all’evidenza di alcune prove, ai filmati dei circuiti chiusi delle banche, alle testimonianze di altri colleghi, hanno ceduto, confessando di essere loro gli autori delle rapine.
Colpi che svolgevano, da bravi pendolari del crimine, prevalentemente a Milano, trasferendosi nel capoluogo lombardo da Palermo ogni qualvolta ottenevano delle licenze sufficientemente lunghe. Il giorno dopo le rapine tornavano in servizio. Adesso sono stati sospesi in attesa che si svolga il processo. [p. col.]
Non è la prima volta che accade, ma in questo caso le motivazioni di due agenti in servizio alla questura di Palermo, arrestati a Milano all’inizio di quest’anno, sono state davvero singolari: le rapine – hanno spiegato al magistrato che li stava interrogando – servivano per finanziare l’acquisto di cocaina, di cui erano diventati schiavi per superare la paura di un lavoro a rischio e stressante, quello di scorta ai magistrati antimafia.
Idee un po’ confuse quelle degli agenti Vincenzo Ruisi e Giovanni Argento, il primo accusato di aver partecipato a otto rapine e una tentata estorsione, il secondo di avere svolto un ruolo da complice in almeno una delle rapine.
La loro storia, se venisse creduta, forse servirà come attenuante al processo cui intende sottoporli la procura milanese, che ieri mattina ha chiesto il loro rinvio a giudizio.
Fino al 1992 Ruisi e Argento erano addetti al servizio scorta di alcuni magistrati impegnati in prima linea nella lotta contro le cosche mafiose. Ma dopo gli attentati in cui persero la vita prima Giovanni Falcone e poi Paolo Borsellino, pur non avendo mai scortato i due giudici, Ruisi e Argento hanno raccontato di essere rimasti sotto choc: per loro, improvvisamente, niente era più come prima.
Così, per poter affrontare meglio il lavoro quotidiano, fatto di continue tensioni, cambi di programma improvvisi, stress di ogni tipo, hanno pensato bene di iniziare a sniffare un po’.
Prima soltanto qualche tiro, ogni tanto, poi velocemente è arrivata la tos- sicodipendenza, fino a dover organizzare un’attività criminosa parallela per mantenersi il vizio e pagare spacciatori sempre più esosi. Le rapine infatti sarebbero state compiute in gran parte nel corso del 1994.
A mettere fine alla loro doppia vita ci hanno pensato altri colleghi, arrestandoli all’inizio di quest’anno. Finiti nel carcere di Peschiera del Garda, inizialmente Ruisi e Argento hanno negato ogni accusa, poi di fronte all’evidenza di alcune prove, ai filmati dei circuiti chiusi delle banche, alle testimonianze di altri colleghi, hanno ceduto, confessando di essere loro gli autori delle rapine.
Colpi che svolgevano, da bravi pendolari del crimine, prevalentemente a Milano, trasferendosi nel capoluogo lombardo da Palermo ogni qualvolta ottenevano delle licenze sufficientemente lunghe. Il giorno dopo le rapine tornavano in servizio. Adesso sono stati sospesi in attesa che si svolga il processo. [p. col.]
LA STAMPA