17.12.1996 ARCHIVIO 🟧 Killer di Borsellino suicida in cella

 
Era appena arrivato a Pianosa. Forse ha ubbidito a un ordine della Cupola Killer di Borsellino suicida in cella Accusato per via D’Amelio, si è impiccato PIANOSA. Quando l’hanno trovato, appeso a quelle sbarre, rantolava.
Un respiro, poco più. In fretta, gli agenti carcerari hanno cercato di fare il più in fretta possibile: massaggio cardiaco, respirazione artificiale. Ma non ce l’hanno fatta. Salvatore Biondo, 39 anni, detenuto sottoposto al regime di massima sicurezza, è morto per asfissia, impiccato alle sbarre d’acciaio della cella di isolamento del carcere di Pianosa con le lenzuola della sua branda.
Sono le 5,22 di lunedì 16 dicembre.
Salvatore Biondo, uomo della cosca di San Lorenzo di Palermo, organico a Cosa Nostra, accusato dai pentiti Ferrante e Ganci di aver procurato alla mafia appartamenti per summit e il telecomando per la strage di via D’Amelio, imputato nel processo «Borsellino ter» a Caltanissetta, era arrivato al carcere di massima sicurezza dell’isola di Pianosa sabato mattina, proveniente dal carcere di Rebibbia.
Si trovava nelle celle a vista della sezione «isolamento di passaggio», dove restano i detenuti sottoposti al 41 bis in attesa di sistemazione.
Una cella a vista, che non richiedeva particolare sorveglianza. Ogni quindici minuti, le guardie carcerarie ci passano davanti. E così è stato, all’alba del 16 dicembre. L’ultimo turno, alle 4,45: gli agenti vedono Biondo seduto sulla branda ancora composta, completamente vestito, il volto tra le mani. Gli chiedono «che fai?», lui risponde malamente.
Gli agenti vanno oltre, non si possono fermare in quella che è una processione ininterrotta e necessaria. Dopo pochi minuti, sono appena le 5 del mattino, gli agenti ripassano davanti alla cella. Vedono il corpo di Biondo penzolare dalle sbarre della finestrella.
E’ un attimo: i poliziotti entrano, salgono sullo sgabello sollevando Biondo che sta già rantolando. Sciolgono il nodo del lenzuolo, praticano un massaggio cardiaco a Biondo.
Premono, disperatamente, quel torace. Biondo emette un respiro profondo, ce la fa. No, non ce la fa. Morirà cinque minuti dopo.
Il referto di morte parla chiaro: decesso per impiccagione. E’ suicidio, dicono all’amministrazione carceraria.
Non poteva essere assassinato, non è entrato in contatto con alcuno dei detenuti di massima sicurezza. Forse non ha retto la prospettiva del 41 bis, forse non ce l’ha fatta a pensare all’enormità di un ergastolo. Il direttore del carcere di Pianosa accoglie gli alti dirigenti della Direzione degli istituti generali di pena arrivati da Roma nel primo pomeriggio di lunedì in elicottero.
«E’ suicidio», ormai è ufficiale. Ma una voce terribile – quella del carcere, in gergo «Radio Scarpa» – dice che Biondo ha seguito un consiglio.
Un consiglio che è anche un ordine. «Radio Scarpa», ancora lei. C’è chi dice che a Biondo è stato «consigliato» di farla finita.
In alternativa, qualcosa poteva succedere ai suoi familiari. Non era pentito, Biondo, non ancora. Incensurato, era stato tirato in ballo da pentiti del calibro di Ferrante e Gioè.
Implicato nel processo «Borsellino ter» per la faccenda del telecomando, Biondo non aveva, a quanto pare, intenzione di collaborare con gli inquirenti. E questa morte, si dice adesso nel carcere di massima sicurezza dell’isola di Pianosa, ha tutto il sapore del «suicidio preventivo». Chiara Carenini.

Uomini d’onore sconfitti da una doppia solitudine

 
 
Uomini d’onore sconfitti da una doppia solitudine . Il «male oscuro» si impossessa di Cosa nostra? Sei suicidi in tre anni, quattro solo negli ultimi dodici mesi. Non s’era mai visto l’uomo d’onore capace di entrare in crisi, disperato fino a cedere alla tentazione di togliersi la vita.
Nei «bei tempi andati», anzi, soltanto accennare a gesti di autolesionismo costituiva «precedente grave». L’uomo d’onore che dava segni di abbattimento – specialmente se detenuto – automaticamente diventava inaffidabile e quindi pericoloso per la «comunità». Spesso, perciò, veniva eliminato. Oggi gli irrequieti si uccidono con le loro mani.
Che succede? Cambia la psiche del mafioso? «Calma – avverte Franco Di Maria, direttore del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Palermo – con le conclusioni.
Il fenomeno è recente e investe un campo delicatissimo. Io credo, intanto, che si sia modificata la rete di rapporti all’interno dell’organizzazione mafiosa. Non c’è più un sistema di protezione, di contenimento e di sostegno, com’era prima».
In sostanza, i mafiosi hanno scoperto la solitudine? «Il sentimento di solitudine prima era scarsamente avvertito.
Adesso chi sta in cella, che non è più una suite, capisce di essere davvero solo». «L’altra considerazione che faccio – insiste Di Maria – è che mi sono convinto che Cosa nostra non riesce più a garantire agli affiliati, ma anche a quelli che stanno fuori dal carcere, ciò che garantiva prima’ sostegno, solidarietà, sopravvivenza». Secondo il professore – autore di alcuni saggi – «deve essere anche cambiato il modo di appartenere.
Non vedo più l’adesione totale e convinta verso un sistema di “valori”. L’opzione in direzione della mafia, oggi mi sembra più strumentale che valoriale.
Con tutto ciò che questo tipo di scelta comporta: il mafioso è diventato una sorta di impiegato d’azienda». Ma perchè il suicidio? «Non entro nel latto della psicopatologia perchè non potrei fare ipotesi, non avendo parlato coi protagonisti delle vicende.
Certamente, però, si può dire che abbiamo a che fare con persone dalla struttura molto fragile». Una immagine che stride con l’idea che ci siamo fatti dei boss invincibili. «E’ tanto curioso, questo fatto, che abbiamo deciso di creare un gruppo di ricerca. Il sospetto è che ci troviamo davanti ad un fallimento collusivo interno all’organizzazione.
Come se fosse venuto meno il loro rapporto simbiotico». C’è, quindi, una mutazione, nel senso di una crisi? «Me lo auguro. Sicuramente è una trasformazione dall’esito incerto. Potrebbe essere una specie di “ristrutturazione aziendale”, pensata per potenziare ma che si risolve in una caduta definitiva». Anche il professor Girolamo Lo Verso – studioso di psicologia dinamica e ordinario a Palermo – è convinto di una certa mutazione nella mafia. Il boss è entrato in depressione? Lo Verso scoppia in una risata: «Diciamo che l’identità psichica dell’uomo d’onore è diventata più fragile». E perche mai? «Prima la fragilità era sostenuta dall’identità che ti dava la mafia, l’identità “che non sono io”, una “identità noi”, esterna prima di essere interna». E cosa è cambiato? «Questi signori si sono trovati nella condizione di “dover essere io”. La normale fragilità del mafioso, esasperata dalla vita violenta, prima reggeva grazie a due cose: le somatizzazioni (una ricerca ha di¬ mostrato patologie da stress tipici dei mafiosi) e la “identità noi”, la certezza cioè di vivere protetti nel gruppo. Questi due elementi, soprattutto la protezione esterna, sono entrati in crisi. mafioso dunque ha conosciuto l’umana categoria della paura, impensabile per i valori tradizionali della mafia. E la paura, nel buio di una cella, senza più la rete protettiva fuori, può spingere a gesti estremi». Addirittura di «vicolo cieco» parla Gioacchino Lavanco, docente di psicologia di comunità all’università di Palermo. «Uomini che – particolare non trascurabile hanno fatto una scelta di valori e di vita (discutibili quanto però evidenti), si sono trovati improvvisamente davanti ad una scelta doppiamente traumatica: o restare nella continuità sopportando anni e anni di galera, o la strada della rottura e del pentitismo.
Due scelte rigide, traumatiche, dogmatiche e quindi inconciliabili». C’è alternativa? «Non parlo dal punto di vista giudiziario, non ne ho titolo. Ma quello che osservo è che noi applichiamo a loro un modello che abbiamo già erroneamente applicato ai terroristi. Cioè la pretesa di indurli a rinnegarsi e a rinnegare i valori, l’etica, la famiglia, i rapporti interpersonali. E poi ci stupiamo che di fronte a scelte cosi rigide alcuni possono crollare». Stiamo parlando di adesione ideologica ad una organizzazione criminale? «Capisco l’imbarazzo. Ma non possiamo continuare a far finta di niente. Dobbiamo chiederci come fare per permettere a un gruppo di persone, ad una intera regione probabilmente, di rielaborarsi, di riattraversaré una storia che è anche una storia confinante con la delinquenza. Le soluzioni militare e giudiziaria non bastano. Non dimentichiamo che Buscetta si è messo in discussione metre era innamorato, cioè quando nella sua vita è intervenuta un’altra variabile che gli ha permesso di cambiare valori». Francesco La Licata
 
GLI ALTRI SUICIDI FRANCESCO INULE. Nella primavera ’96, all’Ucciardone. si è impiccato il boss Francesco Intile, presunto boss di Caccamo GIUSEPPE TERRANOVA. Si uccide ad agosto, nel carcere di Busto Arsizio, Giuseppe Terranova, presunto sicario della mafia ragusana. ANTONINO GI0E’. Nel luglio ’93 muore Gioè, killer di Capaci, impiccatosi con i lacci delle scarpe nella cella del carcere romano di Rebibbia. GIUSEPPE GAMBINO. Il vecchio boss Giuseppe Giacomo Gambino si è ucciso nell’infermeria del carcere di San Vittore. I suoi familiari hanno chiesto un’indagine. VINCENZO PORZIO. Nel dicembre del ’93 muore il luogotenente di Giacomo Riina, Vincenzo Porzio, 38 anni, impiccandosi nel bagno della cella del carcere toscano di Sollicciano. Nella foto grande Giuseppe Biondo che si è impiccato a Pianosa Nel grafico: Antonino Gioé e il boss Gambino

PIANOSA Sepolti nella «cripta» Così si vive a Pianosa fortezza nel Tirreno

 
 L’isola di Pianosa ha un cuore di cemento armato. Non dorme mai. Non gode il suo mare e il suo sole.
Il «braccio di massima» respira di nascosto, di nascosto parla, si conta.
Ci si sveglia prèsto a Pianosa: uno dopo l’altro, i detenuti «speciali» prendono un’ora d’aria, sempre da soli.
Mangiano nelle loro celle. Dormono nelle loro celle. Non possono comunicare.
La legge del carcere speciale è legge adeguata a questa gente senza onore responsabile di stragi e omicidi.
E questa isola, la più bella dell’Arcipelago Toscano, è la loro custode e la loro cripta.
In 400 li sorvegliano: alcuni sull’isola, altri nei tre perimetri che custodiscono i bracci di detenzione, altri in mare, con pilotine veloci.
Alcuni in cielo, a sorvolare quella stella di cemento armato.
I fratelli Graviano, per esempio. E giù giù, nella gerarchia mafiosa, tutti quelli che la polizia e i carabinieri hanno bloccato negli anni. Manca Salvatore Riina, il boss dei boss: lui è nel carcere speciale dell’Asinara.
Ma qui, dicono le guardie carcerarie, non se ne sente la mancanza. Quelli che ci sono, dicono, «sono bestie come loro». L’isola di Pianosa è carcere sicurissimo. I suoi ritmi sono scanditi ora dopo ora, minuto dopo minuto, sempre uguali, sempre gli stessi.
Turnover del corpo di guardia, ora d’aria dei detenuti, pranzo nelle celle, televisioni accese, turnover del corpo di guardia, cena, si spengono le luci – tutte meno quelle di sorveglianza -, turnover dei poliziotti. E la mattina dopo si ricomincia. Pochi colloqui, qualche magistrato, le proteste della polizia penitenziaria che lamenta la scarsità di personale e l’indecenza degli alloggi. Tutti, a Pianosa, sono detenuti. Ma il carcere vive di una vita nascosta. Del suicidio di Biondo, appena arrivato, ancora nelle celle a vista dell’isolamento di passaggio, lo hanno saputo subito tutti.
Alle 5 del mattino. In questo braccio maledetto funziona una radio senza fui, ricetrasmittente invisibile. «Radio scarpa» la chiamano. Quella che consente ai mafiosi di comunicare nonostante tutto. Come? Nessuno lo sa. Forse con un alfabeto silenzioso, fatto di gesti, quelli che permettono ai boss chiusi nelle aule bunker di scambiare messaggi, di dare ordini. [c. car.]
 

«Drogati dopo lo choc di Capaci»

«Drogati dopo lo choc di Capaci» Due agenti rapinavano per comprarsi la cocaina
Durante la settimana erano poliziotti di scorta, nel tempo libero rapinatori di banche.
Non è la prima volta che accade, ma in questo caso le motivazioni di due agenti in servizio alla questura di Palermo, arrestati a Milano all’inizio di quest’anno, sono state davvero singolari: le rapine – hanno spiegato al magistrato che li stava interrogando – servivano per finanziare l’acquisto di cocaina, di cui erano diventati schiavi per superare la paura di un lavoro a rischio e stressante, quello di scorta ai magistrati antimafia.
Idee un po’ confuse quelle degli agenti Vincenzo Ruisi e Giovanni Argento, il primo accusato di aver partecipato a otto rapine e una tentata estorsione, il secondo di avere svolto un ruolo da complice in almeno una delle rapine.
La loro storia, se venisse creduta, forse servirà come attenuante al processo cui intende sottoporli la procura milanese, che ieri mattina ha chiesto il loro rinvio a giudizio.
Fino al 1992 Ruisi e Argento erano addetti al servizio scorta di alcuni magistrati impegnati in prima linea nella lotta contro le cosche mafiose. Ma dopo gli attentati in cui persero la vita prima Giovanni Falcone e poi Paolo Borsellino, pur non avendo mai scortato i due giudici, Ruisi e Argento hanno raccontato di essere rimasti sotto choc: per loro, improvvisamente, niente era più come prima.
Così, per poter affrontare meglio il lavoro quotidiano, fatto di continue tensioni, cambi di programma improvvisi, stress di ogni tipo, hanno pensato bene di iniziare a sniffare un po’.
Prima soltanto qualche tiro, ogni tanto, poi velocemente è arrivata la tos- sicodipendenza, fino a dover organizzare un’attività criminosa parallela per mantenersi il vizio e pagare spacciatori sempre più esosi. Le rapine infatti sarebbero state compiute in gran parte nel corso del 1994.
A mettere fine alla loro doppia vita ci hanno pensato altri colleghi, arrestandoli all’inizio di quest’anno. Finiti nel carcere di Peschiera del Garda, inizialmente Ruisi e Argento hanno negato ogni accusa, poi di fronte all’evidenza di alcune prove, ai filmati dei circuiti chiusi delle banche, alle testimonianze di altri colleghi, hanno ceduto, confessando di essere loro gli autori delle rapine.
Colpi che svolgevano, da bravi pendolari del crimine, prevalentemente a Milano, trasferendosi nel capoluogo lombardo da Palermo ogni qualvolta ottenevano delle licenze sufficientemente lunghe. Il giorno dopo le rapine tornavano in servizio. Adesso sono stati sospesi in attesa che si svolga il processo. [p. col.]
LA STAMPA