Da uomo di scorta di Falcone a killer: 8 anni a Pasquale Di Salvo.

 

Per l’omicidio di Vincenzo Antonio Di Girgenti, commesso ad Alessandria della Rocca il 13 settembre 1994

Nessuno sconto di pena per Pasquale Di Salvo, ex poliziotto divenuto sicario di cosa nostra, per l’omicidio di Vincenzo Antonio Di Girgenti, commesso ad Alessandria della Rocca il 13 settembre 1994. Lo ha stabilito la seconda sezione della Corte di Assise di Appello di Palermo che, rigettando il ricorso avanzato dalla difesa rappresentata dall’avvocato Gloria Lupo, ha confermato in pieno la condanna a 8 anni di reclusione. Il figlio della vittimaVincenzo  Di Girgenti, si è costituito parte civile con l’assistenza dell’avvocato Angelo Farruggia, e in primo grado gli era stata riconosciuta una provvisionale immediatamente esecutiva di 10 mila euro in attesa della quantificazione del danno in sede civile.

Agente di polizia che fece anche da scorta al giudice Giovanni Falcone, killer di mafia e infine collaboratore di giustizia. E’ la particolare storia di Pasquale Di Salvo, l’ex poliziotto divenuto nel tempo uno dei sicari di cosa nostra e che, da pentito, ha svelato alcuni degli omicidi che dal 1978 al 1997 hanno insanguinato la Bassa Quisquina, tra Cianciana, Alessandria della Rocca, Santo Stefano di Quisquina e Bivona. 

Uno dei delitti lo ha commesso proprio Pasquale Di Salvo: si tratta dell’omicidio di Vincenzo Antonio Di Girgenti, titolare di una piccola azienda agricola, ucciso in via Dante a colpi di fucile mentre stava salendo in macchina. Era la sera del 13 settembre 1994. L’agguato fu la risposta alla morte di Ignazio Panepinto, ucciso qualche mese prima nell’ambito di una faida che si stava consumando. I familiari di quest’ultimo, secondo quanto raccontato dal collaboratore di giustizia, chiesero un killer alla cosca di Bagheria e fu indicato proprio Di Salvo: “Per questo omicidio ho ricevuto 12 milioni di lire in contanti e un go-kart dal valore di 3 milioni”.

Di Salvo fu cacciato dalla polizia dopo essere stato sorpreso in Svizzera in compagnia di un rapinatore per poi avvicinarsi alla famiglia mafiosa di Bagheria. Poi l’arresto nel 2015 nell’operazione “Panta Rei” e l’inizio della sua collaborazione con la giustizia.

La guerra di mafia nella Quisquina

La storia sulla mafia della Quisquina che comprende anche l’omicidio di Diego Passafiume e che si intreccia con la storia del delitto Di Girgenti è questa: “Nel corso dell’indagine venne privilegiata la pista che portava ai sub appalti, settore in cui risultava inserito Passafiume. Dalle indiscrezioni allora raccolte, era emerso che l’imprenditore non aveva voluto piegarsi alle regole imposte dalle cosche mafiose in ordine alla spartizione dei sub appalti nel settore del movimento terra e del trasporto di inerti.

Dopo una prima archiviazione delle indagini, a carico di ignoti, l’inchiesta era stata riaperta grazie anche ad alcune dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia.

La vera e propria svolta nelle indagini si è avuta nel Luglio del 2017, quando i militari, coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, hanno acquisito determinanti indizi di colpevolezza nei confronti di Sciara, sospettato di essere l’esecutore materiale del brutale omicidio. In particolare, grazie ad alcuni album fotografici esibiti ad alcuni parenti della vittima, che all’epoca avevano assistito alla tragica scena del delitto, i Carabinieri hanno stretto il cerchio dei loro sospetti nei confronti di Filippo Sciara, agrigentino, 54 enne, già affiliato alla “famiglia” mafiosa di Siculiana, coinvolto anche nella nota vicenda del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo e già condannato all’ergastolo per più omicidi tra cui quello dell’ex presidente dell’Akragas, Russello commesso a Favara.

Gli elementi di prova raccolti, sono stati poi confermati anche dalle convergenti dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia (Salemi Pasquale, Di Gati Maurizio e Vaccaro Giuseppe Salvatore), anche essi in varie circostanze arrestati dai Carabinieri di Agrigento, secondo i quali è emerso che l’omicidio fu commesso nel contesto mafioso territoriale, in quanto Diego Passafiume era ritenuto un imprenditore “scomodo”, che faceva troppa concorrenza alle dinamiche mafiose. E così, nelle ultime ore, su ordine della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, i Carabinieri del Reparto operativo di Agrigento hanno eseguito, nei confronti di Filippo Sciara, l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip del Tribunale di Palermo, Marco Gaeta, per omicidio premeditato, con l’aggravante di aver agevolato Cosa Nostra.

L’inchiesta sull’omicidio Passafiume ha vissuto più momenti con due procedimenti penali aperti e poi archiviati. Dopo una prima archiviazione del procedimento a carico di ignoti da parte del Gip presso il Tribunale di Sciacca ed a seguito dell’avvio della collaborazione di Salemi Pasquale il Gip di Palermo iscriveva procedimento penale a carico di Capizzi  Mario,  Sciara  Filippo,  Renna Giuseppe e Pollari Giovanni (morto in carcere nel maggio del 2014), quali autori in concorso tra  di  loro  dell’omicidio  di Diego Passafiume.

Secondo le affermazioni del Salemi (le cui notizie erano state  apprese direttamente  da   Sciara  e da Renna),  il delitto sarebbe stato deliberato nel contesto mafioso territoriale dall’imprenditore Pollari Giovanni, che, in qualità di “consigliere” del mandamento di Santo Stefano di Quisquina, non aveva gradito la presenza su quel cantiere del Passafiume ed aveva incaricato della sua eliminazione  Sciara Filippo e Capizzi Mario, esponenti mafiosi rispettivamente delle zone di Siculiana e di Ribera.

In seguito, con decreto in data 18 aprile 2000, il Gip presso il Tribunale di Palermo accoglieva la richiesta di archiviazione del Pm, in assenza di sufficienti elementi a riscontro delle dichiarazioni rese dal Salemi, da ritenere tuttavia intrinsecamente attendibili, tanto in relazione alla suddivisione dei ruoli degli indicati e  presunti  autori  del  delitto, quanto  in merito al movente dello stesso, riconducibile agli interessi  imprenditoriali  di  Pollari Giovanni.

Successivamente, nel 2015, il Gip presso il Tribunale di Palermoautorizzava la riapertura  delle  indagini preliminari  relative  al predetto  omicidio,  unicamente nei confronti di Capizzi Mario, Sciara Filippo e Renna Giuseppe (essendo nelle more deceduto Pollari Giovanni) e si raccoglievano le dichiarazioni di Di Gati Maurizio e di Putrone Luigi, che nel frattempo avevano avviato le rispettive collaborazioni con l’Autorità giudiziaria.

Al riguardo Putrone Luigi, pur non essendo a conoscenza di circostanze relative al predetto omicidio, non escludeva il possibile coinvolgimento nel delitto di Pollari Giovanni; che ove fosse stato il mandante, avrebbe necessariamente dovuto agire con l’autorizzazione di Fragapane Salvatore (all’epoca rappresentante provinciale di Agrigento),  secondo le tipiche e consolidate regole dell’organizzazione mafiosa.

Il collaboratore Di Gati Maurizio dichiarava di ricordare un  omicidio  commesso  nella zona di Cianciana, prima dell’arresto di Pollari Giovanni e durante la latitanza di Fragapane Salvatore, precisando che proprio il medesimo,  unitamente  a  Licata Vincenzo e Messina Arturo gli avevano riferito delle lamentele di Di Girgenti Vincenzo (all’epoca capo mandamento di Santo Stefano di Quisquina), per la mancata richiesta di autorizzazione  da parte  del Pollari per commettere il delitto. Pollari  medesimo,   peraltro   (a  dire  del  Di Gati)  era  sfuggito   alla  prevedibile condanna decretata dall’organizzazione  mafiosa, poiché tratto in arresto a seguito di una grossa operazione di Polizia (denominala “Castello“) portata a compimento subito dopo l’omicidio del Passafiume.

A seguito della nuova attività investigativa, successiva alle dichiarazioni del Di Gati, la Procura richiedeva nuovamente l’archiviazione del procedimento, in assenza di adeguati riscontri che potessero far luce con chiarezza relativamente alla precisa identità dei mandanti e degli esecutori materiali dell’omicidio, nonché  alla  conseguente  individuazione della specifica attribuzione dei ruoli. Pertanto, con ordinanza delgennaio 2017, i lGip presso il Tribunale di Palermo accoglieva l’archiviazione unicamente per la posizione di Renna Giuseppe (ritenuto estraneo rispetto agli accadimenti e disponeva ulteriori indagini nei confronti di Sciara Flippo e Capizzi Mario.

Si procedeva pertanto  agli interrogatori dei collaboratori di giustizia Rizzuto  Calogero e Vaccaro Giuseppe Salvatore, nonché al riconoscimento fotografico dei testimoni del delitto  C – cosi raccogliendo elementi ulteriori e significativi, che unitemente a quanto già in precedenza acquisito, hanno consentito di ritenere sussistente un grave quadro indiziario nei confronti di Sciara Filippo, quale esecutorie materiale dell’omicidio di Passafiume Diego.

La storia, nuda e cruda, è questa che certifica il buon successo delle investigazioni dei carabinieri e la testardaggine dei figli della vittima, che assistiti dall’avvocato Monica Malogioglio, si sono battuti energicamente, nonostante le mille difficoltà e la complessità del caso, per far riaprire le indagini e giungere a questo clamoroso risultato.

Ma c’è dell’altro, che comincia con l’omicidio di 25 anni di cui si è occupato il nostro direttore.

E Grandangolo adesso vi racconta tutto il resto.

Nella zona della bassa Quisquina, in quegli anni, fine 80 primi del 90, imperversava un uomo molto potente nella gerarchia mafiosa provinciale. Si chiamava Giovanni Pollari, imprenditore di Cianciana rampante e spietato. E’ morto qualche anno fa in carcere. Dove era finito nella prima metà degli anni 90 in occasione della retata antimafia denominata “Castello”.

Dagli atti ufficiali, giudiziari ed investigativi, emerge una storia brutale, fatta di omicidi, appalti, vessazioni e soprusi. E tra le vittime di quella forsennata caccia all’uomo finì anche Diego Passafiume.

Lo scenario e la lunga scia di sangue

Dalle indagini sviluppate dal Reparto operativo del comando provinciale dei Carabinieri di Agrigento, a seguito dell’omicidio di Chillura Pietro, consumato, la mattina del 7 agosto 2005, nel piazzale antistante il cimitero di Alessandria della Rocca. Tale fatto di sangue era venuto ad interrompere un periodo di apparente tranquillità nel territorio della c.d. Bassa Quisquina e, cioè, dei comuni di Cianciana, Alessandria della Rocca, Bivona e Santo Stefano di Quisquina, che fra il 1978 ed il 1997 aveva, invece, registrato una lunga serie di omicidi,

Ci si riferisce, nello specifico, all’omicidio di Longo Pietro, consumato ad Alessandria della Rocca il 25 novembre 1978; all’omicidio di Cinà Calogero, consumato a Bivona il 13 luglio 1978; all’omicidio di ConiglioTommaso, consumato a Cianciana il 6 luglio 1981; all’omicidio di Montalbano Vincenzo, consumato a Cianciana il 7 aprile 1982; alla scomparsa nel 1982 ed alla soppressione con il metodo della c.d. lupara bianca di Sicardi Pietro di Alessandria della Rocca; all’omicidio di Paolo Francesco Picarella, consumato a Cianciana il 12 febbraio 1986; all’omicidio di Calandrino Paolo, consumato a Cianciana l’11 ottobre 1986; all’omicidio di Patrinostro Giuseppe, consumato ad Alessandria della Rocca l’1 agosto 1993 ; all’omicidio di Passafiume Diego, consumato a Cianciana il 22 agosto 1993; all’omicidio di Panepinto Ignazio, consumato a Bivona il 21 marzo 1994; all’omicidio di Di Girgenti Vincenzo Antonio, consumato ad Alessandria della Rocca il 13 settembre 1994; al duplice omicidio di Panepinto Calogero e Maniscalco Francesco ed al contestuale tentato omicidio di Panepinto Davide, consumati a Bivona il 19 settembre 1994; al duplice omicidio di Sedita Emanuele e Carbone Giovanni, consumato ad Alessandria della Rocca il 20 aprile 1995; all’omicidio di Piazza Mario Angelo, consumato ad Alessandria della Rocca il 30 luglio 1997; all’omicidio di Russa Antonino, consumato in Alessandria della Rocca il 24 ottobre 1998.

Le indagini all’epoca sviluppate in merito agli omicidi commessi, con impressionante cadenza, nella prima metà degli anni novanta, venivano compendiate il 27 aprile 1995 del Reparto operativo dei Carabinieri che – nel delineare come i fatti di sangue in questione potessero essere fra loro collegati e conseguenti ai contrasti insorti per la spartizione dei grossi investimenti per la realizzazione delle opere pubbliche connesse all’utilizzazione delle acque dell’invaso Castello – che deferivano alla Direzione distrettuale antimafia trentanove persone.

In mancanza di significativi elementi di prova nei confronti di gran parte dei soggetti denunciati, veniva disposto il rinvio a giudizio nei confronti, soltanto, di Pollari Giovanni, Valenti Francesco Fabio, Di Girgenti Antonio, Castellano Pietro, Vella Pasquale e Valenti Antonio, per rispondere del reato di cui all’art. 416 bis c.p. ed, i primi tre, anche del duplice omicidio in pregiudizio di Sedita Emanuele e Carbone Giovanni.

Tutti venivano tutti condannati dalla Sezione Prima della Corte di Assise di Agrigento con sentenza del 9 giugno 1984 Nel corso di quel dibattimento, ad arricchire il quadro probatorio acquisito attraverso le indagini di polizia giudiziaria, venivano assunte le dichiarazioni dei nuovi collaboratori di giustizia Brusca Giovanni e Salemi Pasquali; il primo a conoscenza, per il ruolo di vertice assunto all’interno di Cosa Nostra, di fatti, soggetti e circostanze della provincia di Agrigento e, marginalmente, anche del territorio della c.d. Bassa Quisquina; il secondo, in grado di riferire non poche circostanze soggettive ed oggettive con specifico riferimento all’area geografica specifica per avere trascorso fra il 1991 ed il 1993 un lungo periodo di soggiorno obbligato proprio ad Alessandria della Rocca. E, mentre le dichiarazioni auto ed etero accusatorie del Brusca e, soprattutto, quelle del Salemi, risultavano determinanti per la condanna dei menzionati sei imputati, venendo ad arricchire e valorizzare una serie di elementi di prova che avevano autonomamente determinato il rinvio a giudizio degli stessi, nei confronti degli altri soggetti chiamati in correità dal Salemi, in quanto conosciuti quali uomini d’onore di Alessandria della Rocca.

Poi si aggiunsero altri pentiti, come ad esempio, Maurizio Di Gati:

Con specifico riferimento alla vicenda Giovanni Pollari, che tanto ha condizionato le dinamiche criminali del territorio della Bassa Quisquina, in data 21.2.2011, afferma: “Risulta veritiero che Pollari Giovanni all’epoca della costruzione della diga Castello ed in concomitanza degli omicidi verificatisi nella zona della Bassa Quisquina, nei primi anni Novanta, era un imprenditore del calcestruzzo con chiari intenti espansionistici”.

In quegli anni Pollari Giovanni veniva già indicato in un esposto anonimo (così come riportato nell’informativa “Castello“) come uno dei responsabili dell’omicidio dell’’imprenditore Passafìume Diego, commesso in Cianciana il 22.8.1993; contestualmente lo stesso entrò in chiaro conflitto anche con i Panepinto imprenditori del calcestruzzo di Bivona.

Giovanni Pollari

E’ morto in carcere per cause naturali, dove si trovava recluso al regime del 41 bis, Giovanni Pollari, capo del mandamento mafioso di Ciancianaritenuto tale da sentenze definitive almeno sino al momento del suo arresto. Pollari era nato il 14 maggio del 1949. Era proprietario di una cava di estrazione di inerti e di un impianto di calcestruzzi e finì per la prima volta in carcere, nell’ambito dell’operazione anti-mafia denominata “Castello”, nel maggio del 1995. In quell’occasione, un provvedimento d’urgenza dell’allora Gup del Tribunale di Sciacca, Francesco Caleca, pose fine ad una lunga sequela di estorsioni ed omicidi che avevano lastricato di cadaveri il territorio della comunità montana agrigentina compresa tra Alessandria della Rocca, Bivona, Cianciana e Santo Stefano Quisquina. Erano gli anni ruggenti della mafia della Bassa Quisquina che intendeva imporre il predominio sugli appalti pubblici di quei tempi. Ed infatti, come scrive il Gup Caleca, nella sua misura cautelare “se già negli anni 1991-1992  diversi e significativi erano stati nel territorio i danneggiamenti di mezzi        meccanici appartenenti a ditte interessate al movimento terra, non v’è dubbio che l’escalation criminale registrata nell’area avanti indicata e culminata in una serie impressionante di omicidi: danneggiamenti; incendi ed estorsioni, data dall’inizio del 1993, allorchè si scatena una vera e propria guerra tra i gruppi mafiosi, finalizzata ad assicurarsi il controllo dei subappalti e delle forniture relativi alla costruzione dell’adduttore della diga “Castello”, per l’irrigazione dei terreni situati nella valle dei fiumi Verdura, Magazzolo e Platani, i cui appalti sono stati concessi tra la fine del 1991 ed i primi mesi del 1992, per un valore complessivo di 350-400 miliardi. Altri interessi, in relazione ai quali sono sorti fortissimi contrasti, riguardano la realizzazione di opere di metanizzazione relative ai Comuni di  Bivona, Alessandria della Rocca, Cianciana e Santo Stefano Quisquina”.

Condannato all’ergastolo per associazione mafiosa ed omicidi, ed accusato da numerosi pentiti, tra cui Ciro Vara, Maurizio Di Gati, Pasquale Salemi, venne coinvolto persino nel sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, rimediando una condanna all’ergastolo. Le cronache dell’epoca raccontano così il processo: “Tre condanne all’ergastolo ed una a 14 anni di reclusione sono state inflitte dalla Corte d’assise di Palermo a quattro esponenti delle famiglie di Cosa Nostra di Agrigento e Caltanissetta, accusati di essere stati i “carcerieri” di Giuseppe Di Matteo, il figlio undicenne del pentito Santino, strangolato e sciolto nell’acido l’11 gennaio del ‘96 dopo due anni di prigionia. L’ergastolo è stato inflitto agli agrigentini Mario Capizzi, ritenuto il capo-mandamento di Ribera, Giovanni Pollari, capo-mandamento di Cianciana e Salvatore Fragapane, di Sant’Elisabetta. La Corte ha inflitto invece 14 anni di reclusione al pentito di Vallelunga Pratameno (Caltanissetta) Ciro Vara per il quale il Pm Fernando Asaro aveva sollecitato una condanna più mite: 10 anni. Sotto processo con l’accusa di essere i carcerieri del figlio del pentito c’erano anche i boss di Gela (Caltanissetta) Alessandro e Daniele Emmanuello, l’imprenditore agricolo di Vallelunga Pratameno, Alfonso Scozzari, ed ancora per gli agrigentini Salvatore Longo e Giuseppe Fanara. Questi ultimi sono stati assolti. Il sequestro e l’omicidio del piccolo Di Matteo venne deciso dall’allora boss di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca, oggi collaboratore di giustizia, per ritorsione nei confronti di Santino Di Matteo e costringerlo a ritrattare le accuse sulla strage di Capaci del ’92 e sull’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo. Il piccolo Di Matteo fu assassinato dopo due anni di prigionia trascorsi in covi del Nisseno e dell’Agrigentino”.

Di Filippo Sciara, il siculianese oggi catturato (notificato provvedimento di cattura nel carcere di Voghera dove si trova detenuto) ha reso ampie e gravi dichiarazioni, tra gli altri, il pentito empedoclino Luigi Putrone che ai giudici della Dda di Palermo narra:

“Il quadruplice omicidio avvenuto a Licata  mi fu raccontato da Filippo Sciara. Eravamo in auto e questi mi disse di quel quadruplice omicidio che fu richiesto da Occhipinti Angelo che non conosco. Sciara mi raccontò di questo quadruplice omicidio poiché parlavamo del fatto che bisognava ricostituire la famiglia di Licata. Occhipinti aveva chiesto a Di Caro Antonio l’eliminazione dei quattro. Ricordo che lo Sciara mi disse che Occhipinti doveva recarsi da una sua sorella a Genova per crearsi un alibi ma non so se poi lo fece. Non so dire se tutte le quattro persone dovessero morire ma credo di si perché erano stiddari. Rammento che mi disse che uno dei soggetti fu inseguito e ucciso a distanza rispetto agli altri tre che furono sterminati nella macchina. Sciara era legato all’area licatese per il tramite di Antonio Di Caro che era rappresentate provinciale. Non ho contezza di altri soggetti di Licata oltre all’Occhipinti che però non conosco. Lo Sciara non mi disse come fu eseguito l’omicidio.

Il gruppo di fuoco di Sciara era costituto da Renna Filippo, Renna Giuseppe, Capizzi Mario e Derelitto Pietro che è un odontotecnico e che ha un fratello che si chiama Giovanni ed è mafioso e che sta in un paese dell’Agrigentino che dovrebbe essere Burgio o Villafranca o Alessandriao Bivona.

Derelitto Pietro ha ucciso insieme a me Mallia Gaspare. Per questo omicidio io fui condannato. Ne parlai con Falzone che avrebbe dovuto partecipare ma non venne perché lo sostituii io. Il commando era costituito da Capizzi Mario, Sciara Giovanni, Derelitto Pietro, Sciara Filippo e Renna Giuseppe. Io col Falzone ne parlai perché era il vice rappresentante della famiglia di Porto Empedocle che io capeggiavo. Il Mallia fu ucciso perché era stiddaro ed era ritenuto responsabile dell’omicidio del fratello di Sciara Filippo. Io sparai con una 38 al Mallia mentre era a terra. Quando partimmo Derelitto Pietro guidava e Capizzi Mario era seduto avanti mentre dietro eravamo io e Filippo Sciara. Mallia era seduto all’esterno di un bar ad un tavolo. Sparammo nell’ordine Capizzi Mario, Sciara ed io. Fuggimmo con la stessa auto. Poi io e Capizzi ce ne andammo con Rennadove avevo lasciato il mio scooter. Mentre Derelitto Pietro e Sciara Filippoe Giovanni  andarono a bruciare la macchina.  Penso che il Derelitto fosse presente anche al mattino ma non posso esserne sicuro. Comunque sostituii io il Falzone che c’era al mattino. Parlai con Falzone del ruolo del Derelitto anche perchè questi era il mio vice. L’omicidio fu commissionato da Fragapane Salvatore su richiesta dello Sciara e del Renna e che all’atto della decisione era presente anche Capizzi Simone detto Giuseppe. Lo stesso Fragapane Salvatore tentò di ucciderlo invano e  in un’altra circostanza  furono uccise due persone per errore una delle quali era un empedoclino che si chiamava Bulone. Il fatto accadde in un bar e sparò Brancato Giuseppe mentre la moto con cui operarono era condotta da Castronovo Salvatore.

Il Derelitto mi fu presentato ritualmente il giorno dell’omicidio del Malliadal Renna presso la casa di Sciara ove si riunì il commando. Fu il Rennache faceva anch’egli l’odontotecnico a dirmi che il Derelitto Pietro faceva il suo stesso mestiere. Del fratello Giovanni ne ho sentito parlare come appartenente a Cosa Nostra. Entrambi i fratelli erano uomini di Cosa Nostra. Fu l’unica volta in cui conobbi e vidi Derelitto Pietro” 

Anche Vincenzo Marrella, 41 anni, di Montallegro –  da non confondere con l’omonimo di 60 anni, finito indagato nell’inchiesta Icaro condotta dalla Squadra mobile di Agrigento guidata da Giovanni Minardi – racconta di altri delitti. Una guerra senza fine tra Cattolica Eraclea, Montallegro eSiculiana e tira in ballo Filippo Sciara.

La figura di Vincenzo Marrella emerge dalle “carte” giudiziarie sottoscritte dai Pm della Dda di Palermo che ne svelano trascorsi e posizione. Vincenzo Marrella (cl. 74) nel marzo 2012, rese una serie di dichiarazioni relativamente alla famiglia mafiosa di Montallegro ed ai possibili responsabili dell’omicidio del padre. Parla anche delle famiglie mafiose di Cattolica Eraclea e Siculiana.

Omicidio Bruno: io ho detto a Di Salvo che i due avevano iniziato a parlare della morte di Salvatore Bruno ma che poi mi avevano fatto allontanare; nei giorni successivi però mio padre mi aveva detto che Filippo Sciara era convinto che Salvatore Bruno fosse stato coinvolto nell’omicidio deifratelli Renna essendo stato riconosciuto come il conducente del ciclomotore con i baffi che aveva fermato l’auto dei Renna; mio padre lo smentì raccontando una diversa versione dell’omicidio; secondo mio padre, che si trovava a pascolare le pecore nei paraggi del luogo dell’omicidio dei fratelli RennaBruno Salvatore non aveva partecipato all’omicidio dei Renna in quanto era stato confuso con Liborio Capraro Craparo avendo entrambi i baffi; secondo mio padre autore dell’omicidio dei Renna furono il citato Capraro, Iacono Francesco Nino Lumia che mio padre aveva visto aggirarsi nei paraggi il giorno dell’omicidio.

Omicidio Iacono: Dopo l’omicidio dei fratelli Renna, poichè Iacono Francesco, braccio destro di Marrella Damiano, aveva subito un attentato e aveva deciso come ritorsione di eliminare i capi famiglia della zona, mio padre andò da Terrasi Domenico dicendo che sarebbe stato probabilmente lui la prossima vittima di IaconoDomenico Terrasi parlo allora con Capizzi Mario detto Giuseppe che autorizzo l’omicidio di Iacono Francesco; fu incaricato dell’omicidio Marrella Damiano che rifiuto in quanto compare di Iacono.

Quindi, furono incaricati Marrella Vincenzo a cui mio padre consegnò la pistola, Terrasi Domenico Amodeo Gaetano armati di mitraglietta e fucile a pompa. Durante l’omicidio venne ucciso anche Saro Vinti che si trovava casualmente con IaconoSaro Vinti era vicino a Filippo SciaraMarrella Damiano era andato da Cesare Lombardozzi accusando mio padre di avere rubato i fucili e le pecore e accusandolo di essere responsabile dell’omicidio di Vinti; Iacono Francesco era stato vittima di un attentato poco prima di essere ucciso e sosteneva che i fratelli Renna avessero fatto l’attentato; mio padre lo disse a suo cugino Marrella Damiano; io ho raccontato il tutto a Pasquale Di Salvo e gli ho anche detto che Vinti non doveva morire ma che obiettivo dell’agguato era il solo Iacono FrancescoDi Salvo Pasquale dopo avere saputo questi fatti ha capito come erano andate le cose e che, quindi, Filippo Sciara era stato ingannato e mi ha detto che Marrella Damiano avrebbe dovuto rendere conto del suo operato prima a lui e poi a quelli di Montallegro sicchè ne ho dedotto che ad uccidere mio padre era stato Sciara sulla base delle false indicazioni di Marrella Damiano. Dopo l’omicidio di mio padre io sono andato a chiedere notizie a Santa Elisabetta da Fanara Giuseppe; io ero con Marrella Stefano, fratello di mio padre; Giuseppe Fanara era all’epoca il capo provincia dopo Fragapane Leonardo.

 


Chi è Pasquale Di Salvo: ex poliziotto e ambizioso soldato della “famiglia” di Bagheria

Pasquale Di Salvo aveva la benedizione dell’anziano capomafia di Bagheria, Pino Scaduto. Che del neo pentito diceva: “Dignità ne ha trentatremila volte più di lui”, e cioè di qualcuno che a Di Salvo rimproverava il ‘peccato originale’ di avere indossato la divisa.

 
 

Il nuovo collaboratore di giustizia era stato un poliziotto e aveva lavorato nella scorta di Giovanni Falcone. “Una disgrazia”, la definiva Scaduto durante un colloquio intercettato in carcere, ma “dopo se n’è accorto e si è spogliato… è onesto al cento per cento questo te lo posso dire io…”. . Un altro pentito del clan bagherese, Salvatore Sollima, era tra quelli che mal digerivano il passato in divisa di Di Salvo. E lo aveva detto a Giampiero Pitarresi, in carcere con l’accusa di essere stato l’ultimo reggente della mafia di Bagheria: “Faceva la scorta a Falcone… come fa Testa a mettersi a una persona del genere accanto”.

Di Salvo si era fatto ben volere. Era un semplice soldato, alle dipendenze del capo decina Carmelo D’Amico e del capo famiglia Nicolò Testa, ma con mansioni delicate, come le comunicazioni fra gli affiliati e le estorsioni ai danni dei commercianti. In cuor suo, e in gran segreto, il neo pentito sperava di fare il salto di qualità. Quando si sparse la notizia di una possibile scarcerazione di Scaduto era pronto ad affiancare il suo vecchio capo per mettere alla porta coloro che avevano gestito il territorio in maniera morbida.

E così se da un lato la notizia del pentimento di Sollima, siamo nell’aprile del 2015, era stata accolta con paura per le possibili conseguenze; dall’altro, era stata vista come l’occasione per un repulisti generale. Una cosa è certa, Di Salvo ha più volte dato dimostrazione di avere ricevuto la soffiate degli imminenti blitz. Per ultimo quello in cui lui stesso sarebbe stato arrestato: “… per ora sono un po’ messo in disparte, perché ho un brutto presentimento… sto aspettando questa risposta dell’Albania, perché se arriva, così mi allontano un poco… perché per ora sono puntati tutti su di me… io per loro sono stato una sorpresa… minchia sono accaniti come i cornuti”.

Cosa può raccontare Di Salvo che gli investigatori ancora non conoscono? Innanzitutto gli interessi di Cosa nostra nell’affare dei rifiuti. Dal pizzo imposto alle imprese che lavorano per conto dei Comuni in provincia di Palermo alle infiltrazioni nelle commesse. E poi conosce i segreti dei clan di Bagheria e Porta Nuova. C’era anche lui ad un summit convocato quando si seppe del blitz di dicembre. “Tutti quelli di Villabate…. picciotti di Palermo, di Ficarazzi… da tutte le parti” sarebbero finiti in carcere. E così, per correre ai ripari, i clan convocarono una riunione. Qualcuno, che Di Salvo citava con il solo nome di battesimo “Gregorio”, aveva ottenuto “carta bianca… in assenza di loro poteva fare tutto quello che ci pareva e piaceva…e quello tutte cose ha fatto…”.

da livesicilia.it

 

 

“IL MIO ESTORSORE ERA NELLA SCORTA DI FALCONE. “