Quando fu catturato preparava attentati a Palermo e Pianosa Rebibbia: Antonino Gioè, colonnello di Riina, ha scritto una lettera scagionando chi ha fatto arrestare 11 boss s’impicca in cella E’ il primo caso: per onore o paura
In carcere, ora, si ammazzano anche i mafiosi. Non un «pentito», ma un uomo d’onore doc, un corleonese della prima ora, un colonnello di Totò Riina. La guardie di Rebibbia l’hanno trovato appeso alla grata metallica della finestra della cella con al collo un cappio ricavato dalle stringhe delle scarpe da tennis. Antonino Gioè, 37 anni, uno dei boss della famiglia di Altofonte, si è impiccato dopo quattro mesi di detenzione. Era stato arrestato il 19 marzo dopo che gli inquirenti, su segnalazione del pentito Balduccio Di Maggio, avevano messo sotto controllo il suo telefono ed erano riusciti a piazzargli una microspia sotto il letto.
Nei suoi colloqui con altri uomini d’onore, Gioè aveva parlato chiaro, non aveva alcun sospetto di essere ascoltato, e così aveva finito con l’inguaiare parecchi suoi compagni di mafia. La retata era scattata nel giorno di San Giuseppe. Con lui erano finiti in carcere Giuseppe La Barbera, come lui di Altofonte, arrestato a Milano il 22 marzo, e molti altri picciotti.
Con La Barbera, durante i giorni delle intercettazioni, Antonino Gioè si era lasciato andare a compromettenti conversazioni. Assieme progettavano – e non è difficile immaginare per conto di chi – sanguinosi attentati a Palermo e Pianosa, l’isola nel cui penitenziario le autorità di governo avevano da un giorno all’altro confinato dopo la strage di Capaci i più pericolosi boss di Cosa nostra fino ad allora detenuti nel carcere dell’Ucciardone. In un dialogo captato dalla microspia agganciata sotto il suo letto, gli inquirenti erano venuti a sapere anche di una strage che la mafia si accingeva a compiere nel palazzo di giustizia di Palermo facendovi esplodere chili di tritolo fra le quattro e le cinque del pomeriggio di un giorno che non era stato possibile poter precisare. A Pianosa, invece, dovevano morire dodici guardie carcerarie.
Chissà perché proprio dodici. Fatto sta che per uno di loro, la cui colpa era solo quella di essere di origine siciliana, lui e La Barbera avevano progettato di «torturarlo e farlo a pezzi con una roncola». A questo punto, giudici e inquirenti non avevano avuto più dubbi. Non sull’appartenenza di Gioè a Cosa nostra, che già in passato il mafioso suicida aveva provato i disagi del carcere. Ma dell’imminente pericolosità degli attentati che lui e i suoi compagni andavano con tanta diligenza preparando. E avevano perciò fanno scattare le manette. Per la seconda volta, così, Antonino Gioè attraversava la soglia del carcere. Era accaduto già nel lontano 1979, quando aveva appena 23 anni.
Anche allora era caduto nella trappola tesagli da un altro brillante inquirente, il povero commissario Boris Giuliano, giustiziato da Cosa nostra a due mesi da quell’episodio. Era stato arrestato assieme ad Antonino Marchese, boss di Corso dei Mille e fratello del pentito, all’uscita di una trattoria di fronte al porto di Palermo. Lì aveva lasciato una pistola, che Giuliano aveva ritrovato prima di lui ma non aveva prelevato, sicuro che prima o poi sarebbe tornato a prenderla. E così avvenne. In tasca il commissario Giuliano gli trovò alcune bollette di luce e acqua di un appartamento di via Pecori Giraldi che si scoprì subito essere il nascondiglio di Antonino Bagarella, il pluriricercato cognato di Totò Riina.
Nel covo, oltre a denaro, droga e foto del boss, furono trovati anche gli stivali di Melchiorre Sorrentino, una delle vittime della lupara bianca. Era il maggio del ’79. Il 21 luglio, mentre beveva un caffè nel bar Lux, Boris Giuliano veniva freddato da un killer solitario. I sospetti caddero subito su Bagarella, sospetti confermati recentemente da uno dei pentiti di mafia. E non è escluso che l’ombra di Bagarella si allunghi anche sul suicidio in carcere di questo mafioso doc, il primo, a memo¬ ria d’uomo, visto che il carcere non ha mai spaventato gli uomini d’onore. Nemmeno nelle lunghe detenzioni.
Prima di impiccarsi – sembra che sul suicidio non vi siano dubbi anche se oggi l’autopsia dovrà allontanare gli ultimi sospetti – Antonino Gioè ha scritto un memoriale: una lunga lettera, sei fogli fitti fitti, lasciati sul tavolino della cella e non indirizzati ad alcuno. In essi, esamina la posizione di ciascuno dei suoi coimputati, finiti in galera dopo le intercettazioni anche a causa della sua leggerezza, e li discolpa uno per uno. Una giustificazione spontanea, l’estremo gesto di un uomo d’onore o piuttosto la paura, il panico in seguito a un ordine o a minacce giunte da fuori? In quattro mesi il suo avvocato,
In carcere, ora, si ammazzano anche i mafiosi. Non un «pentito», ma un uomo d’onore doc, un corleonese della prima ora, un colonnello di Totò Riina. La guardie di Rebibbia l’hanno trovato appeso alla grata metallica della finestra della cella con al collo un cappio ricavato dalle stringhe delle scarpe da tennis. Antonino Gioè, 37 anni, uno dei boss della famiglia di Altofonte, si è impiccato dopo quattro mesi di detenzione. Era stato arrestato il 19 marzo dopo che gli inquirenti, su segnalazione del pentito Balduccio Di Maggio, avevano messo sotto controllo il suo telefono ed erano riusciti a piazzargli una microspia sotto il letto.
Nei suoi colloqui con altri uomini d’onore, Gioè aveva parlato chiaro, non aveva alcun sospetto di essere ascoltato, e così aveva finito con l’inguaiare parecchi suoi compagni di mafia. La retata era scattata nel giorno di San Giuseppe. Con lui erano finiti in carcere Giuseppe La Barbera, come lui di Altofonte, arrestato a Milano il 22 marzo, e molti altri picciotti.
Con La Barbera, durante i giorni delle intercettazioni, Antonino Gioè si era lasciato andare a compromettenti conversazioni. Assieme progettavano – e non è difficile immaginare per conto di chi – sanguinosi attentati a Palermo e Pianosa, l’isola nel cui penitenziario le autorità di governo avevano da un giorno all’altro confinato dopo la strage di Capaci i più pericolosi boss di Cosa nostra fino ad allora detenuti nel carcere dell’Ucciardone. In un dialogo captato dalla microspia agganciata sotto il suo letto, gli inquirenti erano venuti a sapere anche di una strage che la mafia si accingeva a compiere nel palazzo di giustizia di Palermo facendovi esplodere chili di tritolo fra le quattro e le cinque del pomeriggio di un giorno che non era stato possibile poter precisare. A Pianosa, invece, dovevano morire dodici guardie carcerarie.
Chissà perché proprio dodici. Fatto sta che per uno di loro, la cui colpa era solo quella di essere di origine siciliana, lui e La Barbera avevano progettato di «torturarlo e farlo a pezzi con una roncola». A questo punto, giudici e inquirenti non avevano avuto più dubbi. Non sull’appartenenza di Gioè a Cosa nostra, che già in passato il mafioso suicida aveva provato i disagi del carcere. Ma dell’imminente pericolosità degli attentati che lui e i suoi compagni andavano con tanta diligenza preparando. E avevano perciò fanno scattare le manette. Per la seconda volta, così, Antonino Gioè attraversava la soglia del carcere. Era accaduto già nel lontano 1979, quando aveva appena 23 anni.
Anche allora era caduto nella trappola tesagli da un altro brillante inquirente, il povero commissario Boris Giuliano, giustiziato da Cosa nostra a due mesi da quell’episodio. Era stato arrestato assieme ad Antonino Marchese, boss di Corso dei Mille e fratello del pentito, all’uscita di una trattoria di fronte al porto di Palermo. Lì aveva lasciato una pistola, che Giuliano aveva ritrovato prima di lui ma non aveva prelevato, sicuro che prima o poi sarebbe tornato a prenderla. E così avvenne. In tasca il commissario Giuliano gli trovò alcune bollette di luce e acqua di un appartamento di via Pecori Giraldi che si scoprì subito essere il nascondiglio di Antonino Bagarella, il pluriricercato cognato di Totò Riina.
Nel covo, oltre a denaro, droga e foto del boss, furono trovati anche gli stivali di Melchiorre Sorrentino, una delle vittime della lupara bianca. Era il maggio del ’79. Il 21 luglio, mentre beveva un caffè nel bar Lux, Boris Giuliano veniva freddato da un killer solitario. I sospetti caddero subito su Bagarella, sospetti confermati recentemente da uno dei pentiti di mafia. E non è escluso che l’ombra di Bagarella si allunghi anche sul suicidio in carcere di questo mafioso doc, il primo, a memo¬ ria d’uomo, visto che il carcere non ha mai spaventato gli uomini d’onore. Nemmeno nelle lunghe detenzioni.
Prima di impiccarsi – sembra che sul suicidio non vi siano dubbi anche se oggi l’autopsia dovrà allontanare gli ultimi sospetti – Antonino Gioè ha scritto un memoriale: una lunga lettera, sei fogli fitti fitti, lasciati sul tavolino della cella e non indirizzati ad alcuno. In essi, esamina la posizione di ciascuno dei suoi coimputati, finiti in galera dopo le intercettazioni anche a causa della sua leggerezza, e li discolpa uno per uno. Una giustificazione spontanea, l’estremo gesto di un uomo d’onore o piuttosto la paura, il panico in seguito a un ordine o a minacce giunte da fuori? In quattro mesi il suo avvocato,
Tommaso Farina, ha potuto assisterlo solo due volte, l’ultima due mesi fa. E non ha mai notato in lui qualcosa che potesse far pensare al suicidio. I parenti, invece, andavano spesso a trovarlo a Rebibbia. L’ultimo colloquio è avvenuto sabato 17. Da allora, silenzio. Sino a ieri mattina alle undici quando un laconico fax spedito dalla direzione del carcere al comune di Altofonte li informava che Antonino Gioè si era tolta la vita impiccandosi. Una guardia lo aveva scoperto appeso alle grate alle 23,50 di mercoledì 28 luglio. Ruggero Conteduca Quando fu catturato preparava attentati a Palermo e Pianosa Un’immagine di Rebibbia A sinistra il suicida Antonino Gioè Sopra il pentito Marchese. LA STAMPA
30.7.1993 Ha violato il codice pur di salvare il clan
Ha violato il codice pur di salvare il clan. La «rivoluzione» italiana non sembra risparmiare neppure la mafia, forse la più antica, la più tradizionalista dei soggetti coinvolti nel sisma politicoculturale in atto. Un uomo d’onore suicida in carcere è un’autentica eresia. Sta davvero cambiando qualcosa, anche dentro Cosa Nostra. Non esiste un precedente del genere. Antonino Gioè trovato appeso alla finestra del carcere, una lettera che scagiona quanti aveva inguaiato anche se solo per colpevole leggerezza, rappresenta una svolta. All’uomo d’onore, infatti, non è concesso il suicidio. Anzi, qualunque accenno a gesti di autolesionismo dai dirigenti di Cosa Nostra è stato sempre considerato un pericoloso campanello d’allarme. Il «picciotto troppo nervoso», di conseguenza, subiva immediatamente le contromisure: veniva isolato e messo fuori famiglia. Non si tratta di folklore siculo-mafioso: la sopravvivenza di Cosa Nostra è stata da sempre affidata a regole che ai profani possono sembrare anche ridicole. Sono stati i pentiti a spiegare come, invece, tutto ciò fosse preso tremendamente sul serio dai boss della cupola. Per capire quanto lontana sia dalla mentalità mafiosa l’ipotesi di ricorrere al suicidio, basti pensare che il gesto di togliersi la vita viene spontaneamente accostato alla decisione di pentirsi e confessare. Per questo l’aspirante suicida vie ne immediatamente considera to «inaffidabile» e, se possibile, J eliminato fisicamente. Se l’an 1 nientamento fisico risulta di difficile attuazione, si può anche scegliere la delegittimazione. Come? Facendo passare per pazzo, e quindi giuridicamente inservibile agli investigatori, chi ha dato segni di sconforto. Ma il ricorso eclatante all’autolesionismo può essere utilizzato anche in altro modo. Racconta il pentito Vincenzo Sinagra che una volta fu catturato dalla polizia davanti ad un cadavere ancora caldo. La difesa aveva pochi argomenti da opporre ai giudici. Fu così che gli venne dato il consiglio di fingersi pazzo. Come? Simulando il suicidio, naturalmente. Come interpretare, dunque, la scelta di Gioè? Sembra che dubbi sull’autenticità del suicidio non ve ne siano. Nello stesso tempo viene negata la possibilità che il mafioso di Altofonte stesse per pentirsi. E allora? Gioè «contagiato» dai «suicidi eccellenti»? Più che l’emulazione, forse, potrebbe aver avuto la meglio il ragionamento che di solito – «convince» al suicidio: la morte del «reo» estingue l’azione penale e salvaguarda i familiari da ogni conseguenza. Quale poteva essere stato il «reato» commesso da Gioè? Per la seconda volta nella sua vita, per leggerezza, aveva messo nei guai la «famiglia». Ignaro di essere ascoltato dagli investigatori, si dilungava sui particolari di alcuni progetti terroristico-mafiosi. Certi errori si pagano e la «pena» può essere estesa ai familiari. Gioè potrebbe allora aver deciso di «aggiustare tutto» scagionando gli «amici» e pagando con la vita. Il fine giustifica il mezzo, predicano mafia e massoneria. Francesco La Licate LA STAMPA