«In tutto il mese di giugno ho fatto il bagno due volte. Eppure la bomba l’hanno messa sulla stradina che da casa mia scende verso il mare. La mafia non si è basata sulle mie abitudini, ma sulle segnalazioni di qualcuno che conosce i miei programmi».
Giovanni Falcone ha parlato per due ore, nel suo ufficiobunker nel palazzo di Giustizia di Palermo, al giudice che indaga sull’attentato del 21 giugno.
Due ore in cui ha confermato i sospetti, le accuse mosse nei giorni scorsi. Falcone ne è convinto: c’è una talpa, un traditore che lo ha «venduto» alle cosche e le teneva informate di tutti i suoi spostamenti. Un informatore che probabilmente vive nel suo stesso ambiente, gli uffici giudiziari che sono in prima linea nella lotta alla mafia.
«Quel pomeriggio — ha ribadito Falcone agli inquirenti — avevo invitato nella mia villa all’Addaura due colleghi svizzeri, Claudio Lehman e Carla Del Ponte, a Palermo per l’inchiesta sul riciclaggio del denaro sporco. Volevamo scendere in spiaggia per una gita sulla barca di mio cognato Alfredo Morvillo, membro del pool antimafia della Procura della Repubblica.
Ma sulla stradina che porta da casa mia al mare, tra gli scogli c’erano cinquantatré candelotti di gelatina collegati con un sofisticato congegno per l’esplosione a distanza. E meno male che i ragazzi della scorta se ne sono accorti».
Ma la «talpa», della cui presenza Falcone si è detto certo, in ogni caso sarebbe soltanto una pedina in mano a Cosa Nostra. Il problema è stabilire chi e perché aveva deciso di eliminare il magistrato.
Falcone ha parlato nei giorni scorsi di «menti raffinatissime» che cercano di orientare certe azioni della mafia e di «punti di collegamento tra i vertici delle cosche e centri occulti di potere che hanno altri interessi».
Da questa trama sarebbe nato il progetto dell’attentato contro Giovanni Falcone, pròprio alla vigilia della sua promozione a procuratore della Repubblica aggiunto a Palermo: un incarico che gli consentirà di proseguire con maggiori responsabilità e poteri le inchieste contro la criminalità organizzata.
L’ipotesi della «talpa» manovrata da forze occulte è contenuta nel rapporto che la squadra mobile ha presentato al procuratore Celesti. Ma non va scartata un’altra pista, collegata alle delicate istruttorie che il magistrato sta per ultimare, a cominciare da quelle sui delitti politici e sui riciclaggi, a livello internazionale, dei narcodollari, per finire a quella sulla nuova «guerra di mafia» che tra le sue 21 vittime comprende anche i tre fratelli Puccio, uccisi uno dopo l’altro.
Anche di queste indagini Falcone ha parlato ieri. Con la sua deposizione, venuta ad integrare il rapporto della squadra mobile, l’inchiesta sul fallito attentato acquista ora più precisi contorni. Una testimonianza lunga, quasi uno sfogo davanti al procuratore della Repubblica di Caltanissetta, Salvatore Celesti, che è andato a Palermo per evitare al collega i rischi di una trasferta.
Uno sfogo come l’intervista che Falcone ha rilasciato all’«Unità». Al quotidiano comunista il giudice nemico nùmero uno della mafia ha confidato fra l’altro di sentirsi solo, più o meno come Carlo Alberto Dalla Chiesa nei suoi cento giorni da prefetto a Palermo. E Falcone ha previsto che i boss riproveranno a toglierlo di mezzo.
Affermazioni e accuse di cui parlerà oggi al Consiglio superiore della magistratura. Una talpa, una spia a Palazzo di Giustizia o in Questura.
Riaffiora il sospetto che aveva avvelenato il clima degli ambienti giudiziari altre volte: la prima quattro anni fa, quando i killer assassinarono il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente che lo scortava, Roberto Antiochia. Con un sorriso di manièra, al termine dell’interrogatorio Giovanni Falcone non ha voluto rilasciare dichiarazioni. Non ha neppure confermato che il colloquio con il collega arrivato apposta da Caltanissetta sia avvenuto: «Non dico né sì, né no», ha risposto ai cronisti che lo aspettavano fuori del Palazzo di Giustizia. Ma indirettamente è arrivata la smentita del procuratore Salvatore Celesti, che ha parlato di un «confronto utile». A che cosa? «S’intende, all’inchiesta». Poi basta. Qualcosa in più il magistrato aveva detto l’altro giorno a Caltanissetta, la città in cui lavora, quando aveva definito Giovanni Falcone «il nostro miglior informatóre». Antonio Ravida LA STAMPA
Giovanni Falcone ha parlato per due ore, nel suo ufficiobunker nel palazzo di Giustizia di Palermo, al giudice che indaga sull’attentato del 21 giugno.
Due ore in cui ha confermato i sospetti, le accuse mosse nei giorni scorsi. Falcone ne è convinto: c’è una talpa, un traditore che lo ha «venduto» alle cosche e le teneva informate di tutti i suoi spostamenti. Un informatore che probabilmente vive nel suo stesso ambiente, gli uffici giudiziari che sono in prima linea nella lotta alla mafia.
«Quel pomeriggio — ha ribadito Falcone agli inquirenti — avevo invitato nella mia villa all’Addaura due colleghi svizzeri, Claudio Lehman e Carla Del Ponte, a Palermo per l’inchiesta sul riciclaggio del denaro sporco. Volevamo scendere in spiaggia per una gita sulla barca di mio cognato Alfredo Morvillo, membro del pool antimafia della Procura della Repubblica.
Ma sulla stradina che porta da casa mia al mare, tra gli scogli c’erano cinquantatré candelotti di gelatina collegati con un sofisticato congegno per l’esplosione a distanza. E meno male che i ragazzi della scorta se ne sono accorti».
Ma la «talpa», della cui presenza Falcone si è detto certo, in ogni caso sarebbe soltanto una pedina in mano a Cosa Nostra. Il problema è stabilire chi e perché aveva deciso di eliminare il magistrato.
Falcone ha parlato nei giorni scorsi di «menti raffinatissime» che cercano di orientare certe azioni della mafia e di «punti di collegamento tra i vertici delle cosche e centri occulti di potere che hanno altri interessi».
Da questa trama sarebbe nato il progetto dell’attentato contro Giovanni Falcone, pròprio alla vigilia della sua promozione a procuratore della Repubblica aggiunto a Palermo: un incarico che gli consentirà di proseguire con maggiori responsabilità e poteri le inchieste contro la criminalità organizzata.
L’ipotesi della «talpa» manovrata da forze occulte è contenuta nel rapporto che la squadra mobile ha presentato al procuratore Celesti. Ma non va scartata un’altra pista, collegata alle delicate istruttorie che il magistrato sta per ultimare, a cominciare da quelle sui delitti politici e sui riciclaggi, a livello internazionale, dei narcodollari, per finire a quella sulla nuova «guerra di mafia» che tra le sue 21 vittime comprende anche i tre fratelli Puccio, uccisi uno dopo l’altro.
Anche di queste indagini Falcone ha parlato ieri. Con la sua deposizione, venuta ad integrare il rapporto della squadra mobile, l’inchiesta sul fallito attentato acquista ora più precisi contorni. Una testimonianza lunga, quasi uno sfogo davanti al procuratore della Repubblica di Caltanissetta, Salvatore Celesti, che è andato a Palermo per evitare al collega i rischi di una trasferta.
Uno sfogo come l’intervista che Falcone ha rilasciato all’«Unità». Al quotidiano comunista il giudice nemico nùmero uno della mafia ha confidato fra l’altro di sentirsi solo, più o meno come Carlo Alberto Dalla Chiesa nei suoi cento giorni da prefetto a Palermo. E Falcone ha previsto che i boss riproveranno a toglierlo di mezzo.
Affermazioni e accuse di cui parlerà oggi al Consiglio superiore della magistratura. Una talpa, una spia a Palazzo di Giustizia o in Questura.
Riaffiora il sospetto che aveva avvelenato il clima degli ambienti giudiziari altre volte: la prima quattro anni fa, quando i killer assassinarono il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente che lo scortava, Roberto Antiochia. Con un sorriso di manièra, al termine dell’interrogatorio Giovanni Falcone non ha voluto rilasciare dichiarazioni. Non ha neppure confermato che il colloquio con il collega arrivato apposta da Caltanissetta sia avvenuto: «Non dico né sì, né no», ha risposto ai cronisti che lo aspettavano fuori del Palazzo di Giustizia. Ma indirettamente è arrivata la smentita del procuratore Salvatore Celesti, che ha parlato di un «confronto utile». A che cosa? «S’intende, all’inchiesta». Poi basta. Qualcosa in più il magistrato aveva detto l’altro giorno a Caltanissetta, la città in cui lavora, quando aveva definito Giovanni Falcone «il nostro miglior informatóre». Antonio Ravida LA STAMPA