L‘ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO è un reato previsto dal codice penale italiano. Fattispecie autonoma dal reato di associazione per delinquere, venne introdotta dalla legge 13 settembre 1982, n. 646 (detta “Rognoni–La Torre” dal nome dei promotori) e quindi all’interno del V titolo della seconda parte del codice stesso, ossia nella parte disciplinante i delitti contro l’ordine pubblico.
Storia Fino al 1982 per contrastare il fenomeno della mafia in Italia, si faceva ricorso all’art. 416 c.p. che puniva l’associazione per delinquere, ma tale fattispecie risultò ben presto inefficace di fronte alla vastità e alle dimensioni del fenomeno mafioso, e le sue manifestazioni tipiche. Tra le finalità perseguite dai soggetti uniti dal vincolo associativo ve n’erano anche di lecite, e ciò costituì il più grande limite all’applicazione dell’art. 416 del codice penale. Ad introdurre nel codice penale l’articolo 416 bis (delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso) fu la legge 13 settembre 1982, n. 646 promulgata, a seguito dell’omicidio del segretario del Pci regionale Pio La Torre, avvenuto il 30 aprile 1982, e di quello del prefetto di Palermo, Carlo Alberto dalla Chiesa, avvenuto il 3 settembre nella strage di via Carini.
Caratteristiche generali La nuova fattispecie prevede l’individuazione dei mezzi e degli obiettivi in presenza dei quali ci si trova di fronte a un’associazione di tipo mafioso. Il legislatore così prese atto della tipica manifestazione del fenomeno mafioso, definendone alcuni tratti specifici per la prima volta nel 1982.
Infatti la definizione normativa di associazione di tipo mafioso di cui al terzo comma dell’art. 416-bis è: «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.»
Gli obiettivi sono: Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa un’associazione è quindi la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne deriva.
- il compimento di delitti;
- acquisire il controllo o la gestione di attività economiche;
- concessioni;
- autorizzazioni;
- appalti o altri servizi pubblici;
- procurare profitto o vantaggio a sé o ad altri;
- limitare il libero esercizio del diritto di voto;
- procurare a sé o ad altri voti durante le consultazioni elettorali.
Gli ultimi due obiettivi sono stati inseriti dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, nell’ambito delle misure adottate a seguito delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. La norma prevede inoltre che anche nei casi di confisca di cui all’art. 444 del codice di procedura penale italiano, si applichino le disposizioni in materia di gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati previste dalla legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia). L’art. 416-bis dispone quindi la confisca dei beni, per tutte le associazioni riconducibili a quelle di tipo mafioso, comunque localmente denominate. Inoltre la legge 7 marzo 1996, n. 109 ha introdotto nell’ordinamento italiano la previsione del riutilizzo dei beni sequestrati per finalità sociali assegnandoli a enti locali, associazioni o cooperative.
Il CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO e il concorso esterno in associazione mafiosa sono espressioni che indicano una forma di compartecipazione del reato di associazione di tipo mafioso. Dal punto di vista formale, non si tratta di una autonoma fattispecie di reato, bensì rientrano nell’ambito del concorso di persone nel reato base, cioè quello previsto e punito dall’art. 416-bis del codice penale italiano[1].
Le caratteristiche Si realizza con l’apporto di un contributo effettivo al perseguimento degli scopi illeciti di un’associazione di tipo mafioso senza però prender parte al sodalizio mafioso. L’applicabilità del reato di associazione a delinquere di tipo mafioso anche a carico di soggetti estranei al sodalizio mafioso è stata, ed è tuttora, questione discussa in dottrina. Il reato di associazione per delinquere (indipendentemente dalla sua configurazione come “mafiosa” ex 416 bis) è considerata da parte della dottrina fattispecie a concorso di persone necessario (ex art. 110 del codice penale che prevede la compartecipazione di più soggetti nella realizzazione della fattispecie), e ciò nonostante le sostanziali differenze sussistenti fra l’istituto del concorso e il reato di associazione a delinquere. In virtù di ciò tutti i soggetti aderenti all’associazione stessa dovrebbero essere legati dal vincolo associativo, ed avere la piena coscienza di far parte di tale associazione. Il concorso esterno in associazione mafiosa, invece, si configura come una sorta di “concorso nel concorso necessario”, ossia, come la condotta di soggetto esterno all’associazione a delinquere (e quindi di soggetto a cui non è richiesta l’adesione al vincolo associativo) che apporti un contributo effettivo al perseguimento degli scopi illeciti dell’associazione[2]. Tale contributo integrerà la fattispecie del reato in oggetto qualora sussistano una serie di requisiti, delineati, da ultimo, dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n° 22327 del 21 maggio 2003:[3]
- funzionalità del contributo al perseguimento degli scopi associativi;
- efficienza causale del contributo al rafforzamento e al consolidamento dell’associazione;
- sussistenza, in capo al soggetto agente, del dolo generico, consistente nella consapevolezza di favorire il conseguimento degli scopi illeciti.
La normativa I reati associativi previsti dal codice sono quelli di cui al Titolo V “Dei delitti contro l’ordine pubblico“:
L’opportunità di introdurre per via pretoria una fattispecie autonoma, speciale rispetto all’associazione per delinquere di tipo mafioso prevista dall’art. 416-bis c.p., è stata talvolta contestata[4], sulla base di una presunta carenza di tipicità penale.
Per altri il concorso esterno dovrebbe essere – in quanto non prevede la partecipazione diretta all’associazione mafiosa – una semplice aggravante del reato di favoreggiamento personale (dove il favoreggiato sarebbe l’esponente mafioso o la stessa associazione mafiosa) e non rientrare nelle fattispecie di concorso associativo. In questo caso la pena sarebbe però minore in quanto non vi è il concorso per delinquere ma solo l’aiuto a delinquere o a sottrarsi alla giustizia.[5]
A tale riguardo, occorre rilevare che la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso di Bruno Contrada non condanna affatto la fattispecie del concorso esterno, ma la sua applicazione retroattiva: ciò dal momento che, all’epoca dei fatti contestati a Contrada (1979-1988), non si era ancora consolidato l’orientamento giurisprudenziale rispetto al concorso esterno in associazione mafiosa, orientamento che si sarebbe invece chiaramente profilato con la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite Demitry (1994), Mannino (1995) e Carnevale (2002). In ogni caso, la Cassazione ha dichiarato che, per gli altri condannati che versavano nelle medesime condizioni cronologiche (anteriorità al 1994), la sentenza 4 aprile 2015 nel caso Contrada contro Italia non trova applicazione, non trattandosi di “sentenza pilota” ma di pronuncia che non spiega effetti oltre il caso concreto dedotto a Strasburgo[6].
Note
- ^ Tale articolo fu introdotto nel codice penale dalla legge n. 646 del 13 settembre 1982.
- ^ Manuale breve – diritto penale – S.D.Messina/G.Spinnato – Edizioni Giuffrè – 2009
- ^
- ^ Concorso esterno in associazione mafiosa: il reato che “non c’è” da panorama.it, 20 aprile 2015
- ^ La “contiguità” alla mafia e il problema del concorso “esterno”
- ^ Mafia, Cassazione: “La decisione della corte di Strasburgo su Bruno Contrada e il concorso esterno non si può applicare agli altri casi”, Il Fatto quotidiano, 25 ottobre 2019.
Il 416 bis, quell’articolo che fa tanto discutere. Le parole del procuratore aggiunto Giuseppe Cascini aprono una recente problematica riguardo l’interpretazione o la giusta connotazione dell’articolo 416 bis, in luce dell’affermazione di nuove associazioni criminali in zone del territorio italiano in cui si pensava non vi fossero infiltrazioni mafiose, ma solo presenza e diffusione di delinquenza generica. Il processo definito “Mafia Capitale”, suscita l’attenzione di una diatriba giurisprudenziale e dottrinale riguardo il capo di imputazione dei soggetti coinvolti e per i quali la Procura di Roma contesta l’aggravante del metodo mafioso ai sensi dell’art. 416 bis, Codice Penale. In primo grado il Tribunale di Roma non ha accolto l’istanza della Procura (in Appello, qualche giorno fa, è avvenuto il contrario) riguardo l’ attribuzione al sodalizio criminale dell’aggravante del metodo mafioso, non classificando le attività dei consociati corrispondenti alla previsione legislativa contestata (416 bis). La motivazione della sentenza dimostra quanto la previsione della fattispecie astratta del 416bis non sia più adatta a prevedere nuove tipologie di mafie diverse da quelle affermatesi negli anni addietro in Sicilia e Calabria, le quali si connotavano per la forza di intimidazione con metodo sovversivo, l’assoggettamento e l’omertà come aspetto fenomenico consequenziale all’esercizio della forza di condizionamento mafioso che si manifesta nelle vittime potenziali dell’associazione. Nella formulazione dell’accusa, la Procura di Roma, a seguito di lunghe e dettagliate indagini, ha ricostruito un apparato criminale capillare infiltrato non soltanto nel mondo imprenditoriale, ma anche nel tessuto politico e amministrativo, operante secondo un metodo mafioso nuovo e camaleontico ed in grado di compiere svariati affari grazie ad un sistema corruttivo ad ampio raggio. Il vero punto di svolta a cui giunge la magistratura inquirente è la classificazione e l’affermazione di nuove condotte mafiose non sovversive nel rapporto tra mezzi usati e fini perseguiti dai consociasti del sodalizio criminale; non si assiste, infatti, a stragi ed omicidi per l’affermazione del potere, ma si costruisce un tessuto economico- politico illecito alternativo a quello statale finalizzato ad acquisire in modo diretto ed indiretto la gestione ed il controllo delle attività. E’ questo l’elemento che dimostra maggiormente l’inadeguatezza e l’arretratezza dalla fattispecie astratta del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, elaborata negli anni ‘90 per contrastare attività criminali che si manifestavano con caratteri violenti e stragisti; “La mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Con queste parole Giovanni Falcone ha dato un’importante connotazione umana ad un fenomeno criminale soggetto ad evoluzione storico-sociale. Ed è proprio a causa dello scorrere del tempo che previsioni legislative prodotte nei decenni precedenti possono non essere adeguate a disciplinare condotte mafiose “moderne” e “camaleontiche”, in grado di confondersi nel tessuto sociale ed economico dello Stato. Per far fronte a tali problematiche, la dottrina giuridica ha elaborato nuove teorie in tema di associazionismo mafioso, connotando con il termine “mafia silente” quel sodalizio che si avvale della forza d’intimidazione non attraverso metodi eclatanti, ma con condotte che derivano dal “non detto”, dall’“accennato” e dal “sussurrato”; questo concetto diventa penetrante nel processo “Mafia Capitale”, in quanto vi è una doppia interpretazione del 416 bis, letterale da parte del Tribunale, estensivo da parte della Procura. Secondo i principi del diritto penale in generale, e soprattutto secondo quello della certezza del diritto, la magistratura non può discostarsi dall’interpretazione letterale degli articoli del Codice, “ergo”, nel caso in cui non vi sia piena corrispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, non si integrano gli estremi del reato contestato dalla Procura, in quanto codicisticamente non aggiornato all’evoluzione del fenomeno mafioso. Sarebbe opportuno, quindi, un intervento legislativo mirato ad ampliare i confini del 416bis, ormai vetusto e legato a vecchie ideologie e concezioni di mafia stragista ed intimidatoria, che non trova più riscontro nella società moderna, ed a garantire soluzioni più concrete ed efficaci che possano creare consenso tra dottrina e giurisprudenza. 18.9.2018 di Toty Condorelli e Giuseppe Nigroli.