Serafina Battaglia (1919 – 10 settembre 2004)fu la prima donna a testimoniare contro la mafia. A seguito dell’uccisione del figlio Salvatore Lupo Leale, attribuita a Vincenzo Rimi, il 30 gennaio 1962 la donna decise di parlare, diventando così una testimone implacabile in molti processi. Il 9 aprile 1960, a Godrano (PA), fu ucciso suo marito Stefano Leale, commerciante e mafioso; egli era stato da poco tempo espulso da cosa nostra. A seguito di questo evento Serafina incoraggiò il figlio Salvatore a vendicare il padre. Il figlio tentò di uccidere i due boss, Filippo e Vincenzo Rimi, ma l’attentato fallì e fu ucciso a sua volta. Durante il processo per l’omicidio del figlio, Serafina decise di testimoniare contro il sistema mafioso, collaborando con il giudice istruttore Cesare Terranova; a differenza degli altri testimoni, chiusi nell’omertà, durante l’interrogatorio raccontò come si era svolto l’omicidio, per il quale erano imputati Salvatore Maggio, Francesco Miceli e Paolo Barbaccia. Tuttavia il processo, dopo diversi passaggi giuridici, nel 1971 in Cassazione la condanna fu annullata. Il nuovo processo portò il 13 febbraio 1979all’assoluzione dei Rimi per insufficienza di prove. Nonostante per alcuni anni non riuscisse a trovare alcun avvocato disposto a difenderla, poté testimoniare in diversi processi italiani a Perugia, a Catanzaro, a Bari, a Lecce. Dopo il processo disse di portare sempre con sé la pistola: «La tengo per difendermi anche se ora la mia arma è la giustizia».Tuttavia fu una sostenitrice della giustizia e dell’importanza della testimonianza: «Mio marito era un mafioso e nel suo negozio si radunavano spesso i mafiosi di Alcamo e di Baucina. Parlavano, discutevano e io perciò li conoscevo uno ad uno. So quello che valgono, quanto pesano, che cosa hanno fatto. Mio marito poi mi confidava tutto e perciò io so tutto. Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo». wikimafia
25.2.1964 Una donna rompe il muro dell’omertà e denuncia numerosi delitti della mafia
Drammatica udienza alle Assise di Palermo per i fatti di Godrano – Le hanno ucciso il figlio e l’amante – E’ questa la prima accusa pubblica contro i mafiosi (Dal nostro corrispondente) Palermo, 24 febbraio. Un clamoroso colpo di scena è avvenuto stamane in Assise durante il processo per i gravi delitti di Godrano (4 omicidi e cinque tentati omicidi) e per l’assassinio del mafioso Stefano Leale avvenuto a Palermo. In questo processo sono imputati tre mafiosi di Godrano: Salvatore Maggio, Francesco Miceli e Paolo Barbaccia, accusati di delitti che vanno dalla strage in cui furono uccisi ì due fratelli Pecoraro e rimasero feriti il loro padre e un loro zio, all’assassinio del commerciante Stefano Leale. A piede libero sono imputati Vincenzo Corrado che deve rispondere solo di porto abusivo di arma da fuoco; Salvatore Lorello, detto « il gobbo », imputato di falsa testimonianza e sua moglie, accusata di favoreggiamento. Chiamata a deporre, la signora Serafina Battaglia, che visse per oltre venti anni con Stefano Leale dal quale ebbe un figlio in seguito ucciso da due « pistoleros » su mandato di esponenti della mafia locale, si è presentata in aula vestita a lutto. La donna, citata dal P. M. perché era stata presente in via Torino alla sparatoria della quale rimase vittima il Leale, con una voce ferma ha parlato per oltre un’ora e mezzo sui moventi e sulle modalità dell’uccisione del Leale svelando i torbidi retroscena del delitto. Altre volte la signora Battaglia, interrogata dal giudice istruttore, aveva infranto la barriera del silenzio ma è la prima volta che accusa pubblicamente i presunti autori dell’assassinio di Stefano Leale, e di altri delitti. Fino a stamane tutti i testi hanno dimostrato di avere perduto la memoria e di non sapere nulla delle vicende delle quali sono stati protagonisti o vittime. Persino i genitori dei giovani rimasti uccisi dalla lupara e le stesse parti lese che hanno riportato ferite nel corso dei vari agguati hanno « tenuto la bocca chiusa >. Unica ad aprire una breccia nel muro dell’omertà è stata Serafina Battaglia la quale ha chiamato direttamente in causa i Lorello, che — ha detto — frequentavano con una certa assiduità la sua casa, mentre proprio uno di loro, Salvatore, sabato scorso aveva negato recisamente di aver conosciuto i Leale. «Per i sentimenti di affetto che ho verso Stefano Leale accanto al quale sono stata per circa un ventennio e verso mio figlio Salvatore, entrambi vittime della mafia, io mi sono decisa — ha aggiunto la donna — a dire la verità e a fare i nomi degli assassini. Stefano Leale è stato ucciso dai fratelli Maggio e da France¬ sco Miceli; e lo affermo perché costoro sono stati riconosciuti durante la sparatoria di via Torino, tanto da mio figlio Salvatore che da Vincenzo Corrado ». « Mio figlio mi esortò a non parlare con la polizia perché era in pericolo anche la nostra stessa vita. Matteo Corrado disse — ha proseguito Serafina Battaglia — che bisognava andare ad Alcamo per uccidere i Rimi padre e figlio che avevano dato mandato ai Maggio e al Miceli di assassinare Stefano Leale ». Dopo avere rivelato altre circostanze relative ai rapporti fra i Corrado, Matteo e Vincenzo, 1 Lorello, 1 D’Arrigo, i Maggio, i Miceli e altre persone di Godrano e di Trapani, fra cui i Rimi padre e figlio, la signora Serafina Battaglia è stata messa a confronto con Matteo Corrado. Appena davanti alla Battaglia, il Corrado ha cominciato a urlare chiamandola pazza e facendo gesti teatrali. La donna non ha disarmato ma lo ha anzi accusato di aver fatto uccidere Stefano Leale e il figlio Salvatore nonché altre persone delle quali ha pure fatto i nomi. Corrado e la Battaglia hanno tentato poi di scagliarsi l’uno contro l’altra, trattenuti a stento dai carabinieri. La Corte è stata così costretta a sospendere il confronto. L’udienza proseguirà domani. f. d. LA STAMPA
1.12.1966 Il P. G. chiede la pena dell’ergastolo e l’imputato si avventa sulla Corte
Bloccato dai carabinieri in aula – La drammatica scena alle Assise di Perugia: un gruppo di mafiosi (accusati dalla coraggiosa vedova Serafina Battaglia) deve rispondere di dodici delitti avvenuti in Sicilia (Dal nostro corrispondente) Perugia, 30 novembre. Una drammatica scena è avvenuta oggi nell’aula della Corte d’Assise di Perugia dove si sta processando un gruppo di maliosi siciliani che deve rispondere di dodici delitti avvenuti fra il 1956 e il 1.962. Il principale imputato. Marco Semilia, nell’udire il P. G. proporre per lui l’ergastolo ha dato in escandescenze: urlando frasi sconnesse e smaniando come un pazzo è balzato fuori del recinto per avventarsi contro 1 giudici, ma i carabinieri lo hanno tempestivamente, bloccato e ridotto all’impotenza. L’udienza è stata sospesa; il dibattito proseguirà regolarmente domani con le prime arringhe dei patroni di parte civile e dei difensori. La vicenda è nota. Per una rivalità fra famiglie del Palermitano, dodici persone erano state uccise. Una di queste famiglie, quella di Serafina Battaglia, fu colpita in modo particolare: la donna vide assassinare il proprio marito, il figlio ed infine il cognato. Disperata, ella ruppe il muro dell’omertà e rivelò tutto quanto sapeva ai carabinieri. Ventiquattro persone furono incriminate e condannate dall’Assise di Palermo. Il processo, sospeso e assegnato a Perugia per legittima suspicione, è cominciato ieri l’altro. Oggi il P.G. ha chiesto ai giudici la condanna di diciannove dei ventiquattro imputati. La pena più grave è quella dell’ergastolo proposto per Marco Semilia, accusato di duplice omicidio, e che nel primo dibattito aveva avuto 26 anni. Le “altre richieste sono: Matteo Corrado, 9 anni per associazione per delinquere (nel primo processo fu condannato a 8 anni e 6 mesi); Antonino Miceli, 10 anni (4 anni); Vincenzino Corrado 6 anni e 8 mesi (4 anni e 2 mesi); Giovanni Miceli, 9 anni (4 anni); Vincenzo Corrado, 6 anni e 8 mesi (2 anni e 8 mesi); Giuseppe Corrado, 6 anni (2 anni e 8 mesi); Paolo Verme, 5 anni (2 anni); Giovanni Vallone, 6 anni e 8 mesi (1 anno e 8 mesi); Angelo Semilia la conferma di 4 anni; Rocco Semilia, 7 anni (4 anni e 2 mesi); Luigi Semilia, 6 anni (2 anni e 8 mesi); Salvatore Migliore 5 anni e 8 mesi (2 anni e 8 mesi); Marco Semilia (omonimo del precedente), 6 anni e 8 mesi (insufficienza di prove); Antonino D’Amore, 7 anni (3 anni, 3 mesi e 15 giorni); Michele Carollo, 6 anni e 8 mesi (3 anni e 2 mesi); Giovanni Battista Giordano, 6 anni e 8 mesi (2 anni e 8 mesi); Leonardo Riz- zo, conferma dell’insufficienza di prove; Paolo Scardina inammissibile l’appello contro l’insufficienza di prove; Pietro Cassarà, inammissibile l’appello per l’insufficienza di prove; Francesco Bronte, 6 anni e 8 mesi (insufficienza di prove); Salvatore Greco la conferma di 6 anni e 8 mesi; Giuseppe Vicari, conferma della insufficienza di prove; Giuseppe D’Arrigo, 7 anni (5 anni). Prima del P. G. aveva preso la parola l’avvocato di parte civile, Agostino Ciaccio, il quale ha rifatto la complicata storia dei rapporti tra gli attuali imputati e la famiglia di Serafina Battaglia vedova Leale. Egli si è soffermato particolarmente sugli addebiti mossi al principale imputato, Marco Semilia, e sulla posizione di Angelo Semilia, chiedendo per costoro il riconoscimento della responsabilità. Il P. G., nella requistoria ha sostenuto la validità delle accuse di Serafina Battaglia soprattutto contro i principali imputati e ha costruito la propria tesi demolendo l’indizia rietà e concludendo per la pie na responsabilità di diciannove dei ventiquattro appellanti in ordine ad reati di omicidio, favoreggiamento e associazione per delinquere. Appena esaurite le richieste ! Marco Semilia si è messo a urlare come un forsennato contro il rappresentante della pubblica accusa e contro i giudici, colto forse da un attacco isterico. Il Presidente ha sospeso l’udienza, mentre Marco Semilia tentava di lanciarsi fuori del recinto. I carabinie-l ri lo hanno subito immobilizzato. e. g. I La teste principale, Serafina Battaglia, fotografata all’uscita dall’aula dopo l’udienza a Perugia. LA STAMPA
23.6.1971 I giudici di Ancona confermano: “Insufficienza di prove
La “vedova della mafia, si dispera è assolto l’uomo che lei accasava Serafina Battaglia, alla lettura della sentenza, ha detto in lacrime dal corrispondente. Ancona, mercoledì sera. La sentenza emessa ieri sera dalia Corte d’assise di appello nel processo della « vedova della mafia » sarà impugnata dal p. m., dott. Vincenzo Savina. Il magistrato lo ha dichiarato ieri ai giornalisti mentre, nell’aula, si incrociavano i commenti che seguono, di solito, alla lettura di un verdetto assolutorio .in un processo puramente indiziario. Serafina Battaglia, la «vedova della mafia», con l’ampio scialbe nero che le copriva il volto, aveva reclinato il capo sul banco della parte civile e singhiozzava: «Non è giusto!». Dal fondo dell’aula giungevano le grida di una zia dell’imputato.
Marco Semilia, colta anch’essa da una crisi di pianto. Giornalisti, fotografi, cineoperatori si, davano da fare mentre il pubblico sfollava tra « le maglie » di un servizio d’ordine eccezionale: carabinieri e agenti in borghese dappertutto, persino sui tetti, a guardia dei finestroni che davano sull’aula. In mattinata mentre la Corte era in camera di consiglio (c’è rimasta per 7 ore) la polizia aveva provveduto ad identificare tutti coloro che entravano nell’aula. Anche Marco Semilia — l’imputato a piede libero, ora assolto per insufficienza di prove dall’accusa di aver ucciso il figlio di Serafina Battaglia di cui, sosteneva la donna, era il e guardaspalle » — era stato perquisito. Il perché di tanto rigore è intuibile: Serafina Battaglia, che da dieci anni si veste di nero e continua ad accusare la mafia, è una donna perico- *M Marco Semilia, il « guardaspalle » assolto ieri ad Ancona Iosa per la cosiddetta « Onorata società ». Per effetto della sua denuncia, nei precedenti processi furono comminati tre ergastoli e numerose altre pene detentive e si fece anche luce su una decina di omicidi. La sua accusa è partita dal dì dentro dell’organizzazione mafiosa. Era la donna di un mafioso e se è ricorsa alla giustizia dello Stato, una volta visti cadere in agguati i suoi due uomini, marito e figlio, lo ha fatto per vendicarsi. Anche se ha detto tutto, è sempre una donna « scomoda » e non è improbabile che, prima o poi, la mafia siciliana, per riaffermare la sua legge, si vendichi e la «punisca». Ora Serafina Battaglia è disperata: è stata sconfitta nel processo che la opponeva, a Marco Semilia, accusato di essere il killer che uccise il figlio Salvatore Lupo Leale. Dopo un procedimento d’appello a Perugia, un rinvio della Cassazione ad Ancona, un nuovo processo nella cit¬ e: « Non è giusto, ha tà marchigiana, tutto si risolve, ih sostanza, con la conferma della sentenza precedente: assoluzione per insufficienza di prove, riforma del verdetto di Palermo che aveva comminato al Semilia 24 anni di reclusione. Il senso della sentenza di ieri e la sua collocazione nella lunga e complessa vicenda originata dalle rivelazioni di Serafina Battaglia, è questo: sono stati individuati ì mandanti dell’assassinio e cioè Rocco Semilia e Vincenzo e Filippo Rimi,’tutti all’ergastolo’ (per loro ci sarà un’ processo di appello nel prossimo dicemVteyina mancano’ le-prove per affermare che Marco Semilia è stato l’esecutore materiale del dolitto. C’è sèmpre qualcosa di oscuro nei processi di mafia: a volte mancano le prove contro i mandanti, a volte contro i presunti esecutori. I testi non ricordano, nessuno ha visto niente, tutto si decide con poche parole rivolte «a chi intende ». . in questo processo erano stati citati due nuovi testimoni ritenuti dalla Cassazione di fondamentale importanza: un giovane e una donna che avrebbero dovuto riferire su talune circostame, Ci si è trovati di fronte a dichiarazioni nebulose, ricordi lontanissimi, imprecisi. La difesa, per bocca dell’avi. De Marsico, lo aveva detto: i nuovi testimoni non hanno portato nulla di nuovo, quindi per Marco Semilia c’è l’assoluzione dubitativa già concessa a Perugia. Ora il procuratore generale, che aveva chiesto l’ergastolo, ricorrerà in Cassazione. L’imputato non era presente in aula. Il presidente della Corte, dott. Mauceri, rien- ucciso mio figlio » trando con gli altri giudici dalla camera di consiglio, ha chièsto sue notizie, (t Sta poco bene», ha detto l’avv. Spampani. Secondo altri, era in chiesa a pregare. Se fosse stato condannato sarebbe stato immediatamente arrestato e questo Marco Semilia lo sapeva. LA STAMPA
14.6.1971 Anche in appello accusa la mafia
Serafina Battaglia oggi si presenta ai giudici della corte d’assise d’appello di Ancona: la mafia le ha ucciso un figlio a Palermo, ma Serafina Battaglia vuole vendicarsi dei responsabili con una sentenza, non con un colpo di pistola. Colei che viene chiamata la « vedova della mafia » ha 54 anni: da nove anni, da quando cioè presentò la prima denuncia, vive con il terrore di essere uccisa (una volta qualcuno a Palermo cercò di investirla con una auto; un’altra volta qualcuno le inviò una torta contenente veleno; un’altra volta fu aggredita da uno sconosciuto). Evita di uscire di casa ed è continuamente sorvegliata dagli agenti di polizia, a Nessuno mi farà cambiare idea — ripete — chi ha ucciso mio figlio deve essere condannato». Il figlio, Salvatore Leale, aveva 21 anni quando la mattina del 30 gennaio 1962 fu assassinato con una raffica • di « lupara » alla periferia di Palermo. La stessa sorte era toccata a suo padre, Stefano Leale, durante una lotta sorda fra cosche mafiose, che si prolungava dal 1918. Salvatore Leale volle vendicare la morte del padre e fu eliminato. Fu allora che, dopo aver riflettuto a lungo, Serafina Battaglia, la madre, si decise a spezzare le leggi della omertà mafiosa. Rinunciò ad assoldare del « killers » perché uccidessero gli assassini del figlio e si presentò al procuratore della Repubblica di Palermo per dirgli che il colpevole era certamente Marco Semilia. I suoi incontri con la giustizia furono soddisfacenti soltanto all’inizio: la corte d’assise di Palermo infatti condannò Marco Semilia a 26 anni. Ma, poi, la Cassazione annullò la sentenza, rinviò il processo a Perugia e Marco Semilia fu assolto per insufficienza di prove. Ma la Cassazione annullò anche questa sentenza r. a. LA STAMPA
4.2.1972 La vedova della mafia ha vinto in Cassazione
La Corte ha accolto il ricorso di Serafina Battaglia ed ha annullato l’assoluzione a Marco Semilia – Il nuovo processo (il 6″) si farti a Roma (Nostro servizio particolare) Roma, 3 febbraio. La tenacia con cui Serafina Battaglia si sta battendo da dieci anni per spezzare l’omertà della mafia di Palermo è, forse, sul punto di essere premiata. La « vedova nera », come viene chiamata, aveva preferito rivolgersi alla magistratura per avere giustizia anziché servirsi di alcuni killers per vendicare la morte del proprio compagno e di suo figlio, ma aveva raccolto soltanto delusioni. Questa sera, è riuscita ad ottenere dalla Cassazione l’annullamento della sentenza con la quale è stato assolto, sia pur per insufficienza di prove, l’uomo che, secondo lei. è l’assassino. Se, tra qualche mese, la corte d’assise d’appello dovesse confermare i dubbi espressi oggi dalla Cassazione, verrebbe scritto l’ultimo capitolo di una storia allucinante, con undici omicidi in poco più di cinquantanni. L’episodio che è all’origine della vicenda risale al 1918, quando un giovane di Baucina sedusse una ragazza di Barbaccia di Godrano e non volle « riparare » con il matrimonio. Tra le due famiglie, che vivevano alle porte di Palermo, si scatenò una guerra destinata a prolungarsi negli anni: sull’odio iniziale si inserirono anche questioni di interesse. La mattina del 9 aprile 1960, fu ucciso, a Palermo, Stefano Leale: era notoriamente il capo di una « cosca » mafiosa ed aveva partecipato attivamente alla « faida » originata da quello « sgarbo » ormai lontano nel tempo. Il figlio, Salvatore, detto «Lupo», giurò di vendicarsi; inutilmente ia madre, Serafina Battaglia, cercò di dissuaderlo. La mattina del 30 gennaio 1962, venne ucciso anche Salvatore Leale: fu colpito alle spalle. Serafina Battaglia, dopo un lungo silenzio, si decise a parlare. Andò dal procuratore della Repubblica e disse che conosceva gli assassini: ad uccidere materialmente suo figlio era stato Marco Semina e ad organizzare la soppressione di suo marito erano stati Rocco Semilia, Vincenzo e Filippo Rimi. Marco Semilia fu condannato, a Palermo, a 26 anni di reclusione, ma nel processo d’appello, celebrato a Perugia per legittima suspicione, fu assolto per insufficienza di prove; ritenuto colpevole soltanto di associazione per de¬ linquere, fu condannato a 10 anni. La Cassazione ebbe qualche dubbio ed annullò l’assoluzione che, però, nel giugno scorso, è stata confermata dalla Corte d’assise d’appello di Ancona. Se si tiene presente che, in dicembre, la Cassazione ha annullato la condanna all’ergastolo di Rocco Semilia, Vincenzo e Filippo Rimi per avere ordinato l’uccisione di Stefano Leale, è facile capire perché Serafina Battaglia considerasse un fallimento la sua iniziativa, e cioè di essersi rivolta con fiducia alla magistratura. « Non voglio la vendetta, disse un giorno in Corte d’assise, ma giustizia, perché altrimenti con 5 milioni avrei trovato killers disposti a vendicare la morte di mio marito e di mio figlio ». Questa sera la Cassazione ha concluso, invece, che rassoluzione di Marco Semilia non è affatto convincente ed ha stabilito che il nuovo processo (sesto in ordine di tempo) venga celebrato a Roma. La decisione è tanto più importante in quanto la Corte suprema ha respinto il ricorso di Rocco Semilia che protestava perché era stato assolto soltanto per insufficienza di prove. Guido Guidi L STAMPA
31.1.2021 La storia di Serafina Battaglia, prima donna collaboratrice di giustizia
Quando Serafina Battaglia decide di infrangere il muro dell’omertà le fondamenta stesse di Cosa Nostra cominciano a tremare. È il 30 gennaio del 1962: l’uccisione del figlio Salvatore Lupo Leale, di soli 21 anni, la spinge a rivolgersi alle forze dell’ordine, scelta che la renderà la prima collaboratrice di giustizia donna.
Ma la storia di Serafina inizia molto prima: il suo secondo marito, Stefano Leale, è un mafioso e piccolo commerciante che viene assassinato dall’organizzazione stessa. Nella sua casa solevano riunirsi uomini d’onore di tutta la provincia di Palermo, quindi Serafina conosce bene il ruolo del suo consorte e l’identità di tutti coloro che puntualmente gli fanno visita. Da buona donna di mafia, quando diviene vedova, esorta il figlio a fare vendetta e a uccidere i responsabili della morte del patrigno. Il tentativo andrà fallito, e il ragazzo verrà assassinato a sua volta. Da quel momento, Serafina Battaglia decide che soltanto collaborando con la magistratura potrà rendere giustizia alla sua famiglia ormai sterminata. Una figura certamente controversa, che una volta imboccata la strada della collaborazione non si fermerà davanti a nulla: testimonierà in tantissimi processi di mafia, a Perugia, Bari, Catanzaro, sempre vestita di nero, con il capo coperto e un aspetto spettrale, collaborando anche con il giudice Cesare Terranova. Purtroppo nessuno pagherà per l’uccisione del figlio: gli imputati saranno tutti assolti definitivamente per insufficienza di prove nel 1979. “Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo”. Serafina Battaglia morirà nella sua casa, sola e dimenticata, nel 2004, dopo una vita di lotta contro la criminalità organizzata e l’omertà mafiosa, dopo aver raccontato tutto ciò che sapeva sull’onorata società. Saranno tante, dopo di lei, le donne che si ribelleranno alla mafia, come Rita Atria e Giusy Vitale.
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