Non era solo un “giudice ragazzino”, come per anni è stato definito, dalla schiena dritta e dall’etica inossidabile, braccato come un coniglio da un killer della Stidda, che uccidendo un magistrato volle sfidare Cosa Nostra: fu Rosario Livatino, insieme a un altro pm della Procura di Agrigento, a portare nel 1986 al bunker di Falcone e Borsellino le trascrizioni di una microspia piazzata nella latteria di Paul Violi, a Montreal, che dieci anni prima di Buscetta avevano portato a galla struttura e organigrammi di Cosa Nostra agrigentina, svelandone le ramificazioni internazionali, i collegamenti strettissimi con la ’ndrangheta nella gestione del traffico della droga e offrendo un riscontro formidabile alle dichiarazioni di Buscetta. Non solo. Da quelle intercettazioni, per dieci anni incredibilmente “dimenticate” in un cassetto della Questura di Agrigento, emergeva che i boss andavano a Montecitorio a trattare i propri affari, svelando rapporti allora impensabili con la politica poi confermati dalle indagini successive.
I nuovi interrogativi sul “livello” dei mandanti
A 30 anni da quella mattina del 21 settembre 1990, quando sul campo a valle della provinciale Agrigento-Caltanissetta Paolo Borsellino fu il primo, forse non a caso, a sollevare il lenzuolo bagnato del sangue del collega, scoprendo il suo “viso innocente da bambino”, è il Tg1, nello Speciale in onda questa sera alle 23.40 a cura di Maria Grazia Mazzola, a restituire in questo modo al magistrato di Canicattì una lucida visione a 360 gradi, non solo orientata verso la macelleria militare ma verso la politica e i “colletti bianchi” e soprattutto “internazionale’’ nel contrasto a Cosa Nostra (in un periodo in cui le analisi di Sciascia sulla ‘mafia borghese’ erano una voce isolata nel deserto del dibattito politico) e dunque una dimensione professionale vicina a quella di Falcone e Borsellino. E costringono a interrogarsi, a distanza di tre decenni, sul movente dell’omicidio, finora ascritto a un gruppo di killer della Stidda con agganci in Germania, impegnati in una prova di forza con la più potente Cosa Nostra.
L’ostruzione del capo della Procura di Agrigento
Dietro il movente, adesso, si affacciano nuovi scenari, con il traffico internazionale non solo di droga ma anche di armi, con un incontro inedito, rivelato dallo Speciale Tg1, del pm Livatino con Carlo Palermo, allora impegnato a Trento, che nel suo libro La Bestia sostiene che “numerose indagini hanno riguardato, nell’agrigentino, la stidda locale e quel Salvatore Puzzangaro in cui si erano imbattuti prima Rosario Livatino, poi Giuliano Guazzelli (ucciso nell’aprile del 1992, poco dopo Salvo Lima), e Paolo Borsellino, ma anche quel ‘buco nero’ costituito da traffici di armamenti e rapporti bancari con l’Iraq incentrati a Liegi e Bruxelles, ma collegati con la Tunisia’’’’.
Indagini delicatissime affidate a una procura il cui capo, Giuseppe Vajola, successore di Spallitta, venne rimosso dal Csm che accertò che ad Agrigento, come riferì l’attuale procuratore generale di Catania Roberto Sajeva, “la conduzione dei processi contro la criminalità organizzata era rimasta quasi interamente affidata a Livatino ed a lui, mentre Vajola non aveva mai sostenuto la loro azione”, in un contesto in cui prima del 1984, per vent’anni, “non vi era stata alcuna iniziativa contro la mafia”. E che indusse probabilmente Falcone a elaborare l’idea della Superprocura, sottraendo la competenza antimafia alle procure di provincia, sotto organico e più esposte ai condizionamenti ambientali, particolarmente pesanti ad Agrigento, per affidarla alle procure distrettuali.
Sono le rivelazioni di un collega di Livatino intervistato dal Tg1 che ha deciso di rompere il silenzio pluridecennale sugli scambi di informazioni, finora poco conosciuti, tra il pool antimafia di Palermo e la procura di Agrigento, allora retta da Elio Spallitta, rivelando i viaggi in auto lungo la Palermo-Agrigento compiuti insieme per incontrare Falcone e Borsellino (poi confermati dalle agende del magistrato recuperate dal Tg1) a portare a galla il volto professionale inedito del magistrato adesso avviato verso la causa di beatificazione, che verrà probabilmente completata entro l’autunno: se le nuove rivelazioni del Tg1 indicano un impegno più mirato verso i sistemi criminali e le relazioni pericolose di Cosa Nostra con politica e colletti bianchi, la Chiesa gli attribuisce due miracoli, due donne guarite dalla leucemia per la sua intercessione celeste.
Sarebbe il primo magistrato in Italia a diventare “beato”, presupposto indispensabile per la dichiarazione di Santità, riconoscimento che la Chiesa impegnata nella lotta contro la mafia ha finora assegnato al solo padre Pino Puglisi, ucciso il 15 settembre del 1993, confermando un’attenzione verso un territorio, quello agrigentino, dove, nella valle dei Templi, Papa Wojtyla, sempre nel ’93, pronunciò la sua celebre invettiva contro Cosa Nostra, invitando i mafiosi al pentimento e alla conversione.
Il riconoscimento di Papa Bergoglio
E se è stato Papa Francesco, nel 2017, ad attribuire un rilievo uguale al ricordo di Falcone, Borsellino e Livatino, proprio nell’anniversario del suo omicidio, ricordando davanti la Commissione Antimafia “tutte le persone che hanno pagato con la vita la loro lotta contro le mafie” ma citando i nomi dei tre magistrati, era stata la Dia, nel 2012, la prima a ricordare insieme i tre giudici in un francobollo commemorativo da 60 centesimi emesso dalle Poste con il logo della Direzione Investigativa Antimafia. Giuseppe Lo Bianco da “Il Fatto Quotidiano” del 20 settembre 2020