🔴📌 Nando dalla Chiesa lascia “La Rete” nel 1994, in seguito a divergenze politiche e strategiche con Leoluca Orlando e altri membri del movimento. Questo evento segnò un momento significativo nella storia del movimento, che continuò ad operare fino al 1999.
🔴📌 Claudio Fava lascia la “La Rete” nel luglio del 1994. La sua decisione è stata motivata da divergenze con Leoluca Orlando, in particolare riguardo alla strategia politica del movimento. Fava accusa Orlando di voler puntare troppo sul voto moderato all’interno del contesto cattolico1.
🔴📌 Carmine Mancuso lascia “La Rete” alla fine del 1995. Dopo aver ricoperto ruoli significativi all’interno del movimento, tra cui quello di senatore, Mancuso decide di aderire a Forza Italia, pur dichiarando di considerarsi ancora un uomo di sinistra
20.1.1988 IL CSM HA ‘BOCCIATO’ FALCONE
Il nuovo dirigente dell’ ufficio istruzione del tribunale di Palermo è Antonino Meli. Lo ha nominato il plenum del Csm con 14 voti mentre l’ altro candidato, Giovanni Falcone ha ottenuto 1O voti.
Il dott. Meli, 68 anni, attualmente é presidente di una sezione della Corte di appello di Caltanissetta. Nella sua lunga carriera, tra l’ altro, è stato presidente della sezione istruttoria della Corte di appello e presidente della Corte di Assise, sempre a Caltanissetta. Dopo numerosi rinvii il Csm ha affrontato completamente diviso e in ordine sparso uno dei problemi più importanti relativi alla lotta contro la mafia: la nomina del dirigente dell’ ufficio istruzione di Palermo. Neppure all’ interno delle stesse correnti dei magistrati che compongono il Csm é stata trovata un’ unanimità di voto. Le diverse posizioni dei consiglieri che già si erano registrate in sede di commissioni riguardavano due candidati: Antonino Meli e Giovanni Falcone, giudice istruttore a Palermo e componente del pool antimafia. C’ é stata una ridda di valutazioni pro e contro i due candidati, ma in sostanza sono due i veri motivi che hanno determinato la spaccatura. Da una parte i fautori di Falcone hanno sostenuto la tesi che l’ attuale situazione della lotta alla mafia a Palermo imponeva, in questo particolare momento, la nomina di questo magistrato, ritenuto uno dei più esperti per la conoscenza delle numerose istruttorie da lui seguite contro le cosche mafiose. I fautori di Antonino Meli, un magistrato ritenuto all’ altezza di dirigere l’ importante incarico, hanno contrapposto la tesi della anzianità di servizio, a lui favorevole. Quest’ ultima tesi ha assunto, in alcuni interventi, il sapore di una difesa corporativa della carriera giudiziaria, tenuto anche conto che il 13 marzo prossimo, le tre correnti dei magistrati affronteranno le elezioni per il rinnovo dei dirigenti dell’ Associazione nazionale magistrati. Ed è forse per questo motivo che si sono registrate spaccature anche all’ interno delle stesse tre correnti. Anche il tentativo di rinviare la nomina era stato bocciato con 15 voti contro e 12 a favore. Prima della riunione del plenum il consigliere laico della Dc, Nicola Lapenta, aveva inviato ai consiglieri una lettera per invitarli a votare compatti sulla delicata nomina. Ecco il testo del documento: Carissimo, mi domando se la designazione del consigliere istruttore al tribunale di Palermo che il Csm si accinge a deliberare quasi in coincidenza con gli ultimi drammatici episodi di criminalità mafiosa, non ci faccia carico di dare, come istituzione, una risposta che confermi e rinnovi la volontà di continuare la lotta senza soste e senza incertezze. Mi compiaccio poi, prosegue Lapenta, che il Parlamento si accinga a rieleggere la Commissione Antimafia della quale ebbi l’ onore di essere il primo presidente. Nell’ ottica di una rinnovata fermezza a continuare la battaglia contro la neoplasia mafiosa, la designazione di Giovanni Falcone assumerebbe un preciso significato e non avrebbe bisogno di motivazioni. Però, perché la deroga alle regole che ci siamo date trovi in una scelta istituzionale la sua giustificazione, dovrà avere il supporto dell’ unanimità. Il relatore Marconi (Unità per la Costituzione) ha sostenuto, in apertura di riunione, la decisione della commissione (3 voti contro 2), che riguardava la nomina di Antonino Meli. La relazione dopo aver analizzato l’ attività di Meli afferma che a fronte del quadro professionale e sulla premessa del possesso sicuro, da parte del predetto, di quei requisiti di indipendenza e refrattarietà ad ogni condizionamento coessenziali alla funzione giudiziaria come voluta dal Costituente, deve ritenersi idoneo alla nomina. Nei confronti di Falcone, la relazione afferma che, se innegabili e particolarissimi sono i meriti acquisiti nella gestione razionale, intelligente ed efficace, animata da una visione culturale profonda del fenomeno criminale e da un coraggio e un’ abnegazione a livelli elevatissimi, tuttavia queste notazioni non possono essere invocate per determinare uno scavalco di sedici anni circa di anzianità. In favore di Falcone si sono schierati Abbate e D’ Ambrosio, appartenenti anche loro a Unità per la Costituzione. Contro la relazione ha parlato lungamente Massimo Brutti, membro laico del Pci. In particolare ha messo in evidenza il carattere di Antonino Meli, ritenuto non proprio sereno forse privo di quel necessario autocontrollo in quanto ha più volte investito il Csm per le sue rivalità con il procuratore capo di Caltanissetta, Patané. A Palermo c’ é bisogno, ha detto tra l’ altro Brutti, di un magistrato freddo, lucido e sereno che sappia dirigere un ufficio di eccezionale importanza. Il consigliere di Magistratura Democratica, Giancarlo Caselli, ha fatto presente al Csm che Falcone era da preferirsi a Meli, in quanto la sua nomina avrebbe costituito un salto di qualità culturale contro la mafia e avrebbe dato più prestigio alla magistratura che negli anni passati aveva forse peccato d’ efficienza in Sicilia. Ma gli altri due consiglieri di Md, Borré e Elena Paciotti si sono schierati a favore di Meli. LA REPUBBLICA
8.5.2016 Tutti i nemici del giudice Falcone
Venticinque anni fa la strage di Capaci, attentato messo in atto da Cosa Nostra il 23 maggio 1992, sull’autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci nel territorio comunale di Isola delle Femmine, a pochi chilometri da Palermo. Nell’attentato persero la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Gli unici sopravvissuti furono gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Lo hanno odiato in vita, Giovanni Falcone, e combattuto e attaccato. Gli hanno sbarrato la strada ogni volta che hanno potuto, e lo hanno massacrato quando andò a dirigere gli Affari penali in quel ministero della Giustizia guidato dal socialista Claudio Martelli sotto il governo del democristiano Giulio Andreotti. Lo hanno crocifisso perché non si beveva le balle dei pentiti, e lo hanno maledetto perché pensava che il sospetto fosse l’«anticamera del komeinismo» e non della verità. Non lo sopportavano perché si interrogava su quel reato-non reato qual è il concorso esterno in associazione mafiosa, per il suo essere favorevole alla separazione delle carriere fra giudici e pm, contrario all’obbligatorietà dell’azione penale, dubbioso sull’efficacia del 41bis e perché rigettava l’idea di un “terzo livello” della mafia fatto di politici e massoni. Eppure oggi, approfittando del numero tondo, 25 anni, che ci separa dalla strage di Capaci, quella mattanza voluta dalla mafia (e solo la mafia, questo attestano i processi) nella quale rimasero uccisi il magistrato-eroe, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta l’ipocrita piagnisteo di chi lo disprezzò in vita si è fatto più rumoroso, frastornante, strepitante. Ma non può, non potrà mai, silenziare la storia. E la storia ci racconta che le ostilità contro Falcone furono potenti, ciniche, sprezzanti. Già nel 1983 Giovanni Pizzillo, allora presidente della Corte d’appello di Palermo, disse che le sue indagini stavano «rovinando l’economia di Palermo», e nel gennaio del 1998, quando il magistrato sarebbe dovuto diventare consigliere istruttore di Palermo, il Consiglio superiore della magistratura gli preferì l’altro magistrato in lizza, Antonino Meli. Fra quelli che votarono contro Falcone ci fu Elena Paciotti, che poi divenne presidente dell’Associazione nazionale magistrati e parlamentare europea nelle fila dei Democratici di sinistra. Ma il livore verso Falcone si fece più duro l’anno dopo, quando, di fronte alle accuse del collaboratore di giustizia Giuseppe Pellegriti contro Salvo Lima, indicato come mandante di alcuni delitti in terra siciliana, Falcone intuì la contraddittorietà delle sue affermazioni e lo incriminò per calunnia. Poco dopo, colui che alla mafia diede il colpo più micidiale con il Maxiprocesso, liquidò la teoria del “terzo livello” che tanto piaceva ai complottisti di ogni risma: «Il terzo livello dell’organizzazione mafiosa – disse di fronte al Csm -, inteso quale direzione strategica formata da politici, massoni e capitani d’industria, vive solo nella fantasia degli scrittori».
ORLANDO VERSUS FALCONE A non digerire quello stile, garantista fino al midollo, fu il sindaco (ex e attuale) di Palermo, Leoluca Orlando, che dallo studio televisivo di “Samarcanda” di Michele Santoro lanciò i suoi strali contro Falcone: «Dentro i cassetti del Palazzo di giustizia – affermò – ce n’è abbastanza per fare giustizia» sui delitti di mafia. Il magistrato stavolta reagì: «Questo è un modo di fare politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Il sindaco faccia nomi e cognomi, altrimenti taccia». L’avvocato Alfredo Galasso, parlamentare della Rete di Orlando, e Carmine Mancuso, “orlandiano” pure lui, accusarono Falcone di non dare il giusto valore alle versioni dei pentiti e di affidarsi solo alle prove fattuali.
Quei sospetti gettatigli addosso gli valsero un “processo” davanti al Csm. E quando, nel giugno del 1989, ci fu il fallito attentato all’Addaura, accanto alla villa palermitana di Falcone, da sinistra lo accusarono, come testimoniò il politico comunista Gerardo Chiaromonte, di esserselo fatto da solo. Il peggio, però, arrivò dopo, quando il magistrato, avendo in mente di creare la Procura nazionale antimafia, accettò di andare a dirigere gli Affari penali con Martelli.
LA STAMPA ACCUSA Più di una toga criticò Falcone perché si faceva vedere in giro col ministro, mentre un’altra toga, Armando Spataro, non vedeva di buon occhio l’arrivo di Falcone a capo della Superprocura antimafia: «Ha fatto una ferraglia – disse – e ora vuole guidarla lui». Sull’Unità, Alessandro Pizzorusso, membro del Csm in quota Pds, scrisse che Falcone non avrebbe potuto guidarla, e “Magistratura democratica”, la corrente di sinistra dei pm, comunicò che la Direzione nazionale antimafia voluta da Falcone rappresentava «una grave lesione alle prerogative del parlamento e all’indipendenza della magistratura», tanto da considerarla «un disegno» per una «ristrutturazione neo-autoritaria». E se l’ex parlamentare pidiessino Luciano Violante consigliò al ministro di lasciar perdere, invitandolo a «non insistere» perché tanto «il tuo cavallo non passa», l’assalto più virulento arrivò dal quotidiano Repubblica, che il 9 gennaio del 1992, pochi mesi prima della strage, pubblicò un articolo a firma Sandro Viola intitolato «Falcone, che peccato…». L’editoralista scrisse che non riusciva più a «guardare a Falcone con rispetto», aggiunse che il magistrato era affetto da «febbre di presenzialismo» e lo invitò ad «abbandonare la magistratura», visto che ormai era in preda a una «eruzione di vanità», la stessa che colpiva i «guitti televisivi».
NEMICI Il 26 maggio del 1992, tre giorni dopo il massacro di Capaci, il pm milanese Ilda Boccassini si rivolse prima al collega Gherardo Colombo («Tu diffidavi di Falcone, perché sei andato ai suoi funerali?»), poi agli altri magistrati presenti al palazzo di Giustizia di Milano per la commemorazione del magistrato ucciso: «Sabato sono andata a Palermo ma l’ho fatto alla chetichella, tardi, quando tutti se n’erano andati. E domenica mattina sono tornata presto all’ obitorio, perché volevo essere sola come era stato solo Giovanni. Non volevo vedere lo scempio che si sta verificando oggi a Palermo, con i funerali di Stato (…). Voi avete fatto morire Giovanni Falcone, voi con la vostra indifferenza, le vostre critiche. C’è tra voi chi diceva che le bombe all’Addaura le aveva messe Giovanni o chi per lui. Ditelo adesso e voltiamo pagina». Rimasero tutti in silenzio.
Orlando «Noi della Rete siamo stati gli eredi del compromesso storico.
Il 21 Marzo del 1991, esattamente trent’anni fa, nasce la Rete-Movimento per la Democrazia. Insieme a Leoluca Orlando, democristiano anomalo, leader della primavera palermitana nel nome del presidente della regione Piersanti Mattarella – l’erede politico di Aldo Moro – assassinato per ordine della mafia il giorno dell’epifania del 1980, ci sono Nando Dalla Chiesa, sociologo, figlio del generale Carlo Alberto, assassinato dalla mafia nel settembre del 1982, Diego Novelli, comunista, già sindaco di Torino, Claudio Fava, figlio del giornalista Pippo Fava, assassinato dalla mafia a Catania alla vigilia dell’epifania del 1984, Alfredo Galasso, giurista, comunista, ex-membro del Csm, Carmine Mancuso, figlio di Lenin, maresciallo di polizia, autista di Cesare Terranova, capo dell’ufficio istruzione, rientrato nei ranghi della magistratura dopo una parentesi come parlamentare della sinistra indipendente.
Ne parliamo con Leoluca Orlando, per la sesta volta (non consecutiva) sindaco di Palermo. La prima volta fu nel 1985, ancora con il vecchio sistema elettorale. Nella Dc, dopo l’assassinio di Piersanti Mattarella, il rinnovamento demitiano in Sicilia (commissario palermitano Sergio Mattarella, segretario regionale Calogero Mannino, capogruppo in comune Vito Riggio) significava lotta alla mafia e alle sue connessioni con il sistema politico e istituzionale. E punta su Leoluca Orlando, giovane giurista, allievo di Piersanti Mattarella, figlio ribelle dell’aristocrazia palermitana («Sarei potuto finire con un bicchiere di whisky in mano in uno dei tanti salotti palermitani”, raccontò a me e Antonio Roccuzzo nel libro Palermo uscito nel 1990 per Mondadori), che avevo «scoperto” nel 1982 come assessore al decentramento nella giunta di Elda Pucci. Nel 1987 nascerà, in pieno pentapartito nazionale, la sua giunta anomala Dc-Pci (con il via libera di Ciriaco De Mita e di Achille Occhetto che negli anni ’70 era stato segretario del Pci in Sicilia conducendo una durissima battaglia contro due sindaci democristiani affiliati ai corleonesi e autori del sacco di Palermo, Salvo Lima – assassinato dai suoi ex-sodali nel 1992 per non aver rispettato i patti – e Vito Ciancimino . «Fu la continuazione del compromesso storico di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer. E che qui in Sicilia aveva il volto di Piersanti Mattarella, che di Moro era l’erede, e che fu isolato anche perché nel 1979 il Pci ruppe la solidarietà nazionale. Colpendo lui la mafia aveva assassinato il Re buono e la Sicilia cominciò a ribellarsi”, ricorda oggi Orlando.
Nel corso degli anni ‘80 la mafia aveva decapitato il sistema politico e istituzionale assassinando il capo della mobile, Boris Giuliano, il capo dell’ufficio istruzione, Cesare Terranova, il capo della procura, Gaetano Costa, il segretario provinciale della Dc, Michele Reina, il presidente della regione Piersanti Mattarella, il segretario regionale del Pci, Pio La Torre, il prefetto antimafia, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Non è solo un impressionante elenco di morti, è un colpo di stato silenzioso, che divora dall’interno la legalità con le complicità e le connessioni e abbatte chiunque si metta sulla sua strada, mentre Giovanni Falcone e il pool antimafia ne svelano la nuova natura: Cosa Nostra, micidiale macchina di guerra, mix di traffici illegali, khalasnikove business, tritolo e politica.
Ho fatto questa premessa perché senza comprendere quel contesto, così duro e drammatico nel quale nascono i semi che porteranno all’ascesa politica di Leoluca Orlando e alla nascita della Rete, non si comprendono neppure certe asprezze, certi strappi dolorosi, le accuse di giustizialismo che piovvero addosso all’uno e all’altra, né gli errori di quel movimento e del suo leader.
Populista, giustizialista, professionista dell’antimafia, quali di queste accuse le pesa di più?: «Lo sono stato davvero o certe scelte erano dettate dal contesto nel quale avvenivano? Mi accusavano di populismo quelli che volevano difendere un sistema politico morente, ma io non sono populista, perché credo che il populismo prometta la soluzione immediata dei problemi e chi governa non può farlo; mi accusavano di essere giustizialista coloro che non volevano giustizia, ma io non sono giustizialista: il diritto alla difesa è il più alto che ci sia e quell’avvocato il mestiere più nobile del mondo; la mia concezione della pena oggi mi fa dire che Palermo è il Carcere dell’Ucciardone”, dice il sindaco di Palermo. Il contesto dice molto, ma non tutto e la degenerazione giustizialista del movimento antimafia è purtroppo una realtà incontestabile, anche se questo è, ovviamente, solo il mio punto di vista.
Torniamo comunque al Contesto di trent’anni fa. «È l’anno della prima Guerra del Golfo, stretto tra la caduta del muro di Berlino nel 1989 e le stragi mafiose che avverranno l’anno successivo, nel 1992”, ricorda Leoluca Orlando. Quel 1991 è anche, così un po’ alla rinfusa, l’anno dell’assassinio di Libero Grassi, di Gladio, dell’impeachment contro il presidente picconatore Francesco Cossiga, della nascita del Pds, del VI e VII governi Andreotti, di Mario Draghi direttore generale del tesoro, di Umberto Bossi segretario della Lega, di Ciarrapico mediatore tra De Benedetti e Silvio Berlusconi sulla Mondadori, dello sbarco degli albanesi, della Centesimus Annus di San Giovanni Paolo II, del referendum di Mario Segni sulla preferenza unica. Dominano le hit musicali Carlo Tanica con Claudio Bisio, Riccardo Cocciante e Michael Jackson, ma all’undicesimo posto si piazza «Ti Spacco la Faccia”, del Gabibbo, il pupazzo protopopulista della tv berlusconiana.
«I partiti tradizionali agonizzavano travolti dal crollo del muro di Berlino, incapaci di pensare un futuro. Le nobili tradizioni politiche dei democristiani, dei comunisti, dei socialisti, dei liberali, erano diventate scatole nelle quali rinchiudere le proprie identità. La Rete si pose subito come movimento trasversale, una grande tenda post-ideologica nella quale ognuno potesse essere liberamente se stesso senza rinchiudersi in una logica di appartenenza escludente. Ci consideravamo gli eredi del compromesso storico, l’ultima grande politica che l’Italia abbia avuto. Per sfuggire all’eterno presente sul quale si erano appiattiti i partiti ci immaginammo subito come un movimento a tempo, tant’è vero che dopo un po’ cambiammo il simbolo da Rete per la Democrazia a Rete per il Partito Democratico» Lei sostiene dunque che la Rete fosse un’anticipazione del Pd? «Lo dimostra il fatto che quando nacque l’Ulivo di Romano Prodi la Rete si sciolse nella coalizione senza contrattare nulla».
Poi ci furono i Democratici di Prodi e Arturo Parisi, la Margherita di Francesco Rutelli, l’Italia dei Valori, la partecipazione alla sconclusionata e brevissima esperienza di Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia. Infine, l’approdo nel Pd. Cosa c’era dello spirito originario della Rete in queste successive esperienze di un lungo peregrinare, ma sempre nell’ambito del centrosinistra? «Quel che rimaneva allora e rimane oggi è la suggestione della Rete come lievito culturale, una sorta di agenzia educativa cui preme di più consolidare i valori che gli apparati, l’idea di un partito che non sia una scatola chiusa dalla logica dell’appartenenza, piuttosto una tenda che liberi le identità, nella quale ognuno possa definirsi liberamente comunista, socialista, democristiano, liberale, riconoscendosi uniti nella strada che si vuole percorre insieme e non divisi dalle vecchie appartenenze».
C’è qualcosa della sua Rete nel Pd di Enrico Letta? «Conosco bene Enrico Letta, cui mi lega la comune radice nel cattolicesimo democratico, intesa con come recinto escludente, ma aperto alla contaminazione. Un legame che si è rafforzato nel periodo del suo esilio parigino e della mia totale emarginazione nei palazzi del potere. Ora è finalmente possibile realizzare le politiche del vero Partito Democratico. Il Pd deve sfruttare la tregua politica del governo Draghi voluto dal presidente Mattarella come l’opportunità di superare le diseguaglianze territoriali e sociali a partire dalle fasce deboli: giovani, donne e Mezzogiorno; per realizzare riforme delle Pubbliche Amministrazioni che valorizzino le risorse umane e consentano di utilizzare rapidamente le risorse finanziarie anche europee. Palermo non è più la capitale della mafia perché, qui come altrove, l’abbiamo cacciata dal comune e non vogliamo più sentirci dire che siccome c’è la mafia non possiamo spendere le risorse; per promuovere l’internazionalizzazione del Paese in prospettiva europea e mediterranea con particolare attenzione al continente africano. E per preparare il ritorno alla competizione politica tra schieramenti avversi»
L’idea di porre Palermo al centro del Mediterraneo («Palermo è una città mediorientale nel cuore dell’Europa, il suo ponte verso l’Africa”, dice il sindaco) risponde a una visione «globale, ma non globalizzata in modo subalterno” del ruolo del nostro paese e dell’Europa. Visione che è simbolicamente rappresentata dal premio conferitogli dal Roosevelt Institute, che ha sede anche in Olanda dove aveva origine la famiglia del presidente americano, andato in passato a diversi leader mondiali, che è stato deciso nel 2020 ma che, causa covid, gli sarà consegnato nel corso di una cerimonia digitale il prossimo 31 marzo alla presenza dei reali d’Olanda. Un premio nella categoria “Freedom from fear” Libertà dalla paura, ma come ci si libera dalla paura in un tempo che da essa sembra dominato?
«Il Virus ci ha paradossalmente uniti: i tanti fragili che prima erano considerati invisibili sono diventati ora visibili e chi prima era visibile precipita nella condizione di invisibilità dei fragili. E ne potranno uscire solo insieme. Libertà dalla paura significa anche pensare che il diritto all’ambiente prima che per noi e per Greta è necessario per i miliardi di persone che subiscono nel continente africano la desertificazione e il climat change. La sicurezza è un valore per chi vive nelle metropoli di un continente che non conosce guerre dal 1945 o per chi è costretto a fuggire dalle guerre oggi? Io dico bene allo ius soli , ma il diritto alla mobilità internazionale cozza con l’idea stessa di permesso di soggiorno. Io sono palermitano non per il sangue dei miei genitori ma perché ho scelto di essere palermitano, e così deve essere per chiunque viva a Palermo”, risponde Orlando.
I suoi consigli a Enrico Letta: «Il vero Pd non è ancora nato, perché coloro che vi sono confluiti hanno vissuto finora come separati in casa. Serve una nuova tenda nella quale ognuno possa sentirsi a casa propria. Serve una sintesi ardita, come quella immaginata dal compromesso storico, che non può nascere da accordi di potere tra le correnti».
Ha parlato prima delle accuse che le sono state rivolte di essere stato populista, cosa pensa del populismo oggi? «Ho già risposto sul contesto nel quale nascevano quelle accuse, ma non è giusto dire che non esista un populismo di sinistra. Quando sei all’opposizione può funzionare, ma non quando sei al governo, perché il populismo, nella sua ansia di ottenere risposte immediate a ogni problema, esaltata dall’era digitale, si appiattisce sull’eterno presente che non conosce il passato e non sa immaginare il futuro. Pensi che possiedo una collezione di elefanti, l’animale dalla memoria lunga. Quanto al futuro, forse è possibile immaginare il superamento della contrapposizione tra eguaglianza e libertà. Nello zaino metterei anche quella straordinaria intuizione del Psi di Craxi e Martelli nel convegno di Rimini sui meriti e i bisogni: evitare che i meriti diventino privilegi esclusivi e i bisogni degenerino nel clientelismo. E prima di tutto quella fraternità, il terzo pilastro della Rivoluzione Francese, di cui ci parla Papa Francesco, che laicamente io vivo come messaggio politico attualissimo»
L’Espresso 19 marzo 2021