Intervista alla dottoressa Lucia Borsellino
La figlia del giudice Paolo sostiene “gli approfondimenti in ogni direzione che stanno conducendo il procuratore De Luca e i suoi colleghi: sono doverosi”
Con questa intervista, la figlia del giudice Paolo rompe un lungo silenzio per tornare a chiedere che nulla sia lasciato intentato, c’è ancora da comprendere cosa accadde davvero in quei 57 giorni che trascorsero fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio e
poi dopo, con la drammatica farsa del pentito Scarantino,
che ha tenuto lontana la verità per troppo tempo. «I processi di questi ultimi anni hanno disvelato il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana, in questo momento penso sia ancora più doveroso non trascurare alcun ambito di indagine, soprattutto per fare luce sulla solitudine di mio padre all’interno di quello che lui chiamava il covo di vipere, la procura di Palermo…
«Il diritto alla verità è imprescrittibile», ripete Lucia Borsellino. Con i suoi fratelli, Fiammetta e Manfredi, non ha mai smesso di chiedere verità e giustizia per la strage che il 19 luglio 1992 ha ucciso il padre, Paolo, e i cinque agenti della scorta. Lucia Borsellino scandisce i loro nomi, «perché questo Paese spesso dimentica – dice – e invece noi dobbiamo continuare a ricordare: si chiamavano Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina
e Vincenzo Fabio Li Muli».
e Vincenzo Fabio Li Muli».
Confidò pure che un amico l’aveva tradito. Chi è questo amico?».
Le indagini della procura di Caltanissetta sono in un crinale molto delicato, che sta cercando di fare luce su ciò che accadde all’interno del palazzo di giustizia di Palermo e di altri palazzi dell’antimafia. Sotto inchiesta sono finiti anche due magistrati che negli ultimi trent’anni sono diventati dei simboli della lotta alla mafia, Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone.
Qual è il suo stato d’animo oggi?
«Il motivo per il quale sento questa volta di non dovermi sottrarre alla sua domanda è lo stesso per il quale mio fratello Manfredi ha ritenuto doveroso essere presente il 19 luglio di quest’anno soltanto all’evento tenutosi presso la Corte d’appello di Caltanissetta. In quell’occasione, lui ha detto che per noi in quel distretto giudiziario si sta giocando la partita più importante, forse l’unica che vale la pena di essere giocata, anche ai supplementari, se ci saranno».
Ricordiamolo, per i più giovani che ci leggono: fu l’allora procuratore Pietro Giammanco a utilizzare quell’espressione mutuata dal mondo dello sport. «Così la partita si è chiusa», disse a suo padre la mattina di quel drammatico 19 luglio, comunicandogli che finalmente gli affidava il coordinamento delle indagini su Palermo. E suo padre rispose: «No, la partita è aperta».
«Manfredi ha detto pure che oggi a Caltanissetta si sta giocando la partita che a nostro padre non fu consentito di fare. In queste parole è condensato tutto il nostro riconoscimento per il lavoro che la procura di Caltanissetta diretta da Salvatore De Luca sta compiendo con coraggio e determinazione per contribuire all’accertamento della verità sulle circostanze che hanno agevolato la morte di mio padre e, con lui, degli uomini e della donna che componevano la sua scorta insieme con l’unico uomo sopravvissuto a quella terribile strage che ha offeso non solo le famiglie delle vittime, ma l’intero Paese».
Torniamo agli approfondimenti che la procura di Caltanissetta sta facendo sui magistrati all’epoca in servizio a Palermo. Qualcuno, anche autorevole, mi riferisco al professore Giovanni Fiandaca, ha scritto polemicamente sul Foglio che i pubblici ministeri nisseni hanno disposto intercettazioni e altre attività d’indagine in fascicoli che contestano reati ormai prescritti. Cosa nepensa?
«Con riferimento a questa complessa e delicata indagine, ritengo che gli approfondimenti in ogni direzione che stanno conducendo il procuratore De Luca e i suoi colleghi siano doverosi per l’accertamento della verità. Il diritto alla verità è imprescrittibile come lo è il delitto di strage. Se poi consideriamo che da allora sono trascorsi oltre trent’anni e non tre giorni, durante i quali si è anche disvelato il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana, penso sia ancora più doveroso non trascurare alcun ambito di indagine».
Cosa si attende la famiglia Borsellino dalle indagini della magistratura e anche dagli approfondimenti messi in atto dalla commissione parlamentare antimafia presieduta da Chiara Colosimo?
«Noi ancora attendiamo, a oltre trent’anni di distanza, di conoscere le ragioni che spinsero nostro padre, poche settimane prima della morte, ad affidare a dichiarazioni pubbliche le sue inequivocabili parole di accusa per i tradimenti fino a quel momento consumati ai danni dell’amico e collega Giovanni Falcone e ai suoi. E’ a tutti noto lo stato di prostrazione che lo ha accompagnato dal 23 maggio 1992 fino alla morte, culminato pochi giorni prima del 19 luglio nello sfogo raccolto dai colleghi Massimo Russo e Alessandra Camassa: nel suo ufficio, nostro padre usò espressioni come “nido di vipere” e “un amico mi ha tradito”. Si riferiva al contesto di lavoro all’interno della procura di Palermo».
Siete ancora fiduciosi, nonostante tutto, che si possa arrivare a qualche verità su quello che è accaduto?
«La procura di Caltanissetta sta impegnando tutte le proprie forze in questa direzione e ad essa vanno il nostro rispetto e la nostra fiducia incondizionati.
Siamo altresì fiduciosi nel momento in cui non si cerchi ancora una volta di imbrigliare, se non ad impedire e a deviare, la ricerca obiettiva e senza pregiudizi della verità, attraverso qualsivoglia modalità che anteponga altri interessi a quello prevalente della conoscenza della verità, che appartiene a tutti e non solo ai familiari delle vittime. Ciò anche al fine di riaffermare quella onorabilità che le varie componenti istituzionali possono e devono ricercare agendo a tutela dell’onorabilità di chi per quelle istituzioni ha sacrificato la propria vita».
Le indagini della procura di Caltanissetta sono in un crinale molto delicato, che sta cercando di fare luce su ciò che accadde all’interno del palazzo di giustizia di Palermo e di altri palazzi dell’antimafia. Sotto inchiesta sono finiti anche due magistrati che negli ultimi trent’anni sono diventati dei simboli della lotta alla mafia, Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone.
Qual è il suo stato d’animo oggi?
«Il motivo per il quale sento questa volta di non dovermi sottrarre alla sua domanda è lo stesso per il quale mio fratello Manfredi ha ritenuto doveroso essere presente il 19 luglio di quest’anno soltanto all’evento tenutosi presso la Corte d’appello di Caltanissetta. In quell’occasione, lui ha detto che per noi in quel distretto giudiziario si sta giocando la partita più importante, forse l’unica che vale la pena di essere giocata, anche ai supplementari, se ci saranno».
Ricordiamolo, per i più giovani che ci leggono: fu l’allora procuratore Pietro Giammanco a utilizzare quell’espressione mutuata dal mondo dello sport. «Così la partita si è chiusa», disse a suo padre la mattina di quel drammatico 19 luglio, comunicandogli che finalmente gli affidava il coordinamento delle indagini su Palermo. E suo padre rispose: «No, la partita è aperta».
«Manfredi ha detto pure che oggi a Caltanissetta si sta giocando la partita che a nostro padre non fu consentito di fare. In queste parole è condensato tutto il nostro riconoscimento per il lavoro che la procura di Caltanissetta diretta da Salvatore De Luca sta compiendo con coraggio e determinazione per contribuire all’accertamento della verità sulle circostanze che hanno agevolato la morte di mio padre e, con lui, degli uomini e della donna che componevano la sua scorta insieme con l’unico uomo sopravvissuto a quella terribile strage che ha offeso non solo le famiglie delle vittime, ma l’intero Paese».
Torniamo agli approfondimenti che la procura di Caltanissetta sta facendo sui magistrati all’epoca in servizio a Palermo. Qualcuno, anche autorevole, mi riferisco al professore Giovanni Fiandaca, ha scritto polemicamente sul Foglio che i pubblici ministeri nisseni hanno disposto intercettazioni e altre attività d’indagine in fascicoli che contestano reati ormai prescritti. Cosa nepensa?
«Con riferimento a questa complessa e delicata indagine, ritengo che gli approfondimenti in ogni direzione che stanno conducendo il procuratore De Luca e i suoi colleghi siano doverosi per l’accertamento della verità. Il diritto alla verità è imprescrittibile come lo è il delitto di strage. Se poi consideriamo che da allora sono trascorsi oltre trent’anni e non tre giorni, durante i quali si è anche disvelato il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana, penso sia ancora più doveroso non trascurare alcun ambito di indagine».
Cosa si attende la famiglia Borsellino dalle indagini della magistratura e anche dagli approfondimenti messi in atto dalla commissione parlamentare antimafia presieduta da Chiara Colosimo?
«Noi ancora attendiamo, a oltre trent’anni di distanza, di conoscere le ragioni che spinsero nostro padre, poche settimane prima della morte, ad affidare a dichiarazioni pubbliche le sue inequivocabili parole di accusa per i tradimenti fino a quel momento consumati ai danni dell’amico e collega Giovanni Falcone e ai suoi. E’ a tutti noto lo stato di prostrazione che lo ha accompagnato dal 23 maggio 1992 fino alla morte, culminato pochi giorni prima del 19 luglio nello sfogo raccolto dai colleghi Massimo Russo e Alessandra Camassa: nel suo ufficio, nostro padre usò espressioni come “nido di vipere” e “un amico mi ha tradito”. Si riferiva al contesto di lavoro all’interno della procura di Palermo».
Siete ancora fiduciosi, nonostante tutto, che si possa arrivare a qualche verità su quello che è accaduto?
«La procura di Caltanissetta sta impegnando tutte le proprie forze in questa direzione e ad essa vanno il nostro rispetto e la nostra fiducia incondizionati.
Siamo altresì fiduciosi nel momento in cui non si cerchi ancora una volta di imbrigliare, se non ad impedire e a deviare, la ricerca obiettiva e senza pregiudizi della verità, attraverso qualsivoglia modalità che anteponga altri interessi a quello prevalente della conoscenza della verità, che appartiene a tutti e non solo ai familiari delle vittime. Ciò anche al fine di riaffermare quella onorabilità che le varie componenti istituzionali possono e devono ricercare agendo a tutela dell’onorabilità di chi per quelle istituzioni ha sacrificato la propria vita».
L’INTERVISTA