La permanenza dell’ex magistrato Cinquestelle nella Commissione antimafia è questione che riguarda lo scontro tra i partiti. Ma ci sono questioni molto più profonde in questa vicenda
Ha fatto scalpore la notizia diffusa nei giorni scorsi da un quotidiano circa l’esistenza di plurime intercettazioni di colloqui avvenuti tra i due ex pm di Palermo Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato, il primo oggi in pensione e indagato per favoreggiamento aggravato dal fine di agevolare la mafia dalla procura nissena, il secondo senatore della Repubblica e membro della Commissione parlamentare antimafia.
Un folto e rappresentativo gruppo di parlamentari di centrodestra ha chiesto, infatti, le dimissioni di Scarpinato perché quei colloqui, intercorsi poco prima di un’audizione di Natoli in commissione, sarebbero stati finalizzati a facilitare quest’ultimo a difendere il proprio operato riguardo all’indagine condotta nei confronti di alcuni imprenditori contigui a Cosa nostra per la quale ottenne l’archiviazione nel 1992. Indagine appunto analizzata dell’organismo parlamentare presieduto dall’onorevole Chiara Colosimo quale vicenda in qualche modo collegata alla strage Borsellino, in una fase anteriore al ricevimento da parte di Natoli di un avviso di garanzia ad opera della procura di Caltanissetta.
Ora, l’aspetto che sembra dominare di più nel discorso politico, ossia l’opportunità che il senatore Scarpinato rimanga o meno membro della commissione antimafia, risulta invece il meno interessante per chi ha cuore lo stato di diritto e la reciproca autonomia tra potere giudiziario e potere politico-parlamentare. Sì, per essere più chiari, va detto che se l’ex magistrato in forza al Movimento Cinque Stelle rimanga o no in quella Commissione è questione che appartiene al contingente scontro tra i partiti che caratterizza da sempre la vita parlamentare: tra qualche giorno, probabilmente, nessuno se ne ricorderà più. Beninteso, fermo restando che se fosse vero che i due ex magistrati hanno concordato il comportamento da tenere durante l’audizione, ragioni di ovvia opportunità politico-istituzionale consiglierebbero al senatore di abbandonare la commissione.
Quel che, piuttosto, rimane importante è il silenzio assordante, sia tra gli accusatori di Scarpinato sia – paradossalmente – tra i suoi difensori, su almeno un paio di implicazioni strettamente collegate alla vicenda.
La prima. Ci troviamo di fronte a una fuga di notizie clamorosa aggravata dal fatto che qui ci si trova al cospetto di un’intercettazione, sia pure “casuale”, di una conversazione privata di un parlamentare che in quanto tale è sottoposta a una protezione rafforzata di tipo costituzionale e la cui utilizzazione è per legge vincolata da alcune condizioni di impiego.
La seconda. L’intercettazione, disposta a carico dell’indagato Natoli dall’autorità giudiziaria nissena, dovrebbe essere connessa alla contestazione di un reato, il favoreggiamento aggravato, che è evidentemente prescritto: cioè, è bene dirlo a chiare lettere, per questa ipotesi non ci sarà mai un vero processo o comunque una sentenza di condanna.
Insomma, in un Parlamento in cui prevalesse la cultura del diritto e delle garanzie si sarebbero sollevati seri interrogativi su ragioni e modalità di questa rivelazione di segreto d’ufficio e sulla particolare gravità derivante dal vedere coinvolto un esponente parlamentare. E invece da noi prevale l’istinto di ciascuna parte ad attaccare e difendere sul fronte della reputazione e dell’onorabilità personale. Come se ancora non si fosse consapevoli che le garanzie riguardano tutti e quando non si difendono per chiunque si finisce per prepararne la prossima violazione.
Il tutto reso ancora più kafkiano dal fatto che il protagonista stesso della vicenda, il senatore Scarpinato, per la sua nota allergia culturale verso le garanzie processuali e in particolare di quelle connesse al ruolo parlamentare, è il primo di tutti a non parlare dei suddetti profili giuridico-costituzionali per non cadere in contraddizione con quanto sostenuto nella sua lunga carriera di magistrato e quella più breve di uomo politico.
Infine un’altra notazione di carattere generale. Non sappiamo se e quando in Italia si ristabilirà un corretto equilibrio tra il potere giudiziario e quello politico nella loro rispettiva autonomia, e se le riforme in cantiere, a partire dalla separazione delle carriere tra pm e giudici, vanno nella giusta direzione o, al contrario, affosseranno irreparabilmente l’idea di una “giustizia giusta”.
Certo è, però, che se la sensibilità per le garanzie del giusto processo e per la reciproca autonomia tra giustizia penale e politica non si radicano nella cultura diffusa del Paese, cominciando dalle classi dirigenti, nessuna riforma servirà davvero a migliorare la giurisdizione, a renderla più conforme alla Costituzione. Perché non avremo mai la voglia di censurare anche quel che ingiustamente va contro un nostro avversario, come in questo caso la divulgazione di un’intercettazione irregolare o un’indagine per un processo prescritto.