Mafie e collaboratori di giustizia, così funziona il “contratto” con lo Stato

I criminali che scelgono di collaborare con la giustizia ottengono in cambio uno sconto di pena e altri benefici. Quando escono dal carcere, a volte con una nuova identità, sono inseriti in programmi speciali che prevedono assistenza e protezione

 

I collaboratori di giustizia sono persone che appartengono alla criminalità organizzata e che, a seguito di una condanna, decidono di collaborare con i magistrati per ottenere uno sconto di pena e altri benefici. Lo Stato concede loro la libertà (a determinate condizioni e comunque dopo un periodo “minimo” di reclusione) in cambio di informazioni che indeboliscono l’organizzazione criminale e, come avviene in molti casi, portano all’arresto di altri affiliati.

Nel linguaggio comune i collaboratori sono chiamati “pentiti”, ma la definizione non è corretta perché non tutti rinnegano la loro appartenenza criminale. Si tratta più che altro di un accordo. Chi ha collaborato senza mai pentirsi, ad esempio, è stato Tommaso Buscetta, che dopo l’arresto in Brasile, nella metà degli anni Ottanta, decise di parlare con il giudice Giovanni Falcone.

Se oggi sappiamo decifrare la mafia siciliana, se ne conosciamo la struttura e il glossario è anche grazie alle dichiarazioni fornite dal boss dei due mondi. Celebre la frase che Buscetta disse al magistrato durante un incontro: “L’avverto signor giudice, dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità, ma cercheranno di distruggerla sia fisicamente che professionalmente. Il conto che apre con Cosa nostra non si chiuderà mai”.

Collaboratori di giustizia: i terroristi “pentiti” e la questione morale

Le norme che hanno introdotto nel sistema legislativo italiano una diminuzione della pena per chi sceglieva di collaborare con la giustizia risalgono alla fine degli anni Settanta e si applicarono ai terroristi: il meccanismo della “dissociazione” si rivelò funzionare e le dichiarazioni dei “pentiti” permisero di arrestare centinaia di persone. Ciò non bastò a placare il dibattitto pubblico sulla moralità di queste misure e, in particolare, sul fatto che lo Stato concedesse un “premio” a persone responsabili di reati gravissimi.

La legge n.304 del 29 maggio 1982 e la successiva n.34 del 18 febbraio 1987 furono di fondamentale importanza perché prevedevano la riduzione di un terzo della pena per i terroristi che sceglievano di collaborare e ulteriori benefici per coloro che si dissociavano dall’organizzazione eversiva. Il successo del sistema premiale fu tangibile e si decise allora di replicarlo per gli affari di mafia (per cui non è però consentita la semplice dissociazione), non senza conseguenze.

Come scrive Giovanna Montanaro sul Nuovo dizionario di mafie e antimafia, “mentre il pentitismo dei brigatisti rossi e dei terroristi in genere era stato maggiormente compreso, perché ricollegato al rifiuto ideologico di un progetto politico eversivo, nei confronti del pentimento mafioso si è assistito a volte a vere e proprie forme di rigetto sociale“.

Collaboratori di giustizia: la legge 82/1991

La prima norma “organica” sui collaboratori di giustizia è il decreto legge n.8 del 15 gennaio 1991, convertito dalla legge 82 del 15 novembre 1991, promossa e sostenuta da Falcone, che all’epoca era il direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia.

Nel 1986, cinque anni prima dell’entrata in vigore della legge, durante un incontro organizzato a Courmayeur e dedicato proprio alla legislazione premiale, lo stesso giudice aveva detto: “Il pentito ben difficilmente potrà rientrare nel circuito della criminalità, e cioè nello stesso ambiente di cui fanno parte i soggetti di cui ha denunciato i misfatti. È da escludere l’esistenza di un concreto pericolo che la legislazione premiale costituisca incentivazione della pericolosità sociale dei soggetti che hanno collaborato con la giustizia”.

Sosteneva Falcone: “Il pentito ben difficilmente potrà rientrare nel circuito della criminalità, e cioè nello stesso ambiente di cui fanno parte i soggetti di cui ha denunciato i misfatti. È da escludere l’esistenza di un concreto pericolo che la legislazione premiale costituisca incentivazione della pericolosità sociale dei soggetti che hanno collaborato con la giustizia”

In quegli anni, grazie alle dichiarazioni, fra gli altri, di Buscetta e di un “pentito” eccellente come Salvatore Contorno, Falcone era finalmente riuscito a scardinare Cosa nostra. Ma, soprattutto, aveva capito che coinvolgere i collaboratori di giustizia portava a risultati concreti. Allo stesso tempo sapeva però che lo Stato avrebbe dovuto offrire garanzie solide affinché il gesto (pentirsi significa mettere una taglia sulla propria testa) risultasse “conveniente”.

In sostanza, bisognava prevedere benefici processuali, sconti di pena, protezione (anche per i familiari) e, in ultimo, un’esistenza sicura una volta fuori dal carcere. La legge 82/1991 ha in effetti introdotto un sistema premiale e istituito il Servizio centrale di protezione, una struttura interforze che garantisce l’incolumità di chi sceglie di collaborare e dei loro conviventi, offrendo assistenza economica, legale e sanitaria. Il legislatore ha posto dei limiti, disponendo che “il solo rapporto di parentela, affinità o coniugio, non determina, in difetto di stabile coabitazione, l’applicazione delle misure di protezione”. Il Servizio provvede, inoltre, al rilascio di nuovi documenti ed è responsabile del reinserimento sociale e lavorativo del collaboratore non più sottoposto a detenzione.

La legge n.203 del 12 luglio 1991 ha ampliato la norma precedente, prevedendo un meccanismo che incentiva la collaborazione e aggrava la pena nei confronti di chi si rfiuta di parlare. Un’ulteriore modifica viene introdotta dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio: gli articoli 13 bis e 13 ter aprivano alla possibilità di scontare la pena fuori dal carcere, aspetto premiale che spinse molti criminali a collaborare.

Collaboratori di giustizia: il quadro attuale, la legge 45/2001

Nel linguaggio comune i collaboratori sono chiamati “pentiti”, ma la definizione non è corretta perché non tutti rinnegano la loro appartenenza criminale

La norma 82/1991 è stata modificata dalla legge 45 del 13 febbraio 2001, che ha introdotto la figura del testimone di giustizia (colui che assume, rispetto al fatti oggetto delle sue dichiarazioni, la qualità di persona offesa dal reato ovvero di persona informata sui fatti o di testimone) e istituito la Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione, composta da un sottosegretario di Stato all’Interno che la presiede, da due magistrati e da cinque funzionari e ufficiali.

Per diventare collaboratore di giustizia non basta “parlare”, ma è necessario che le dichiarazioni siano attendibili e di notevole importanza per lo sviluppo delle indagini

Il collaboratore detenuto deve scontare almeno un quarto della pena e fornire le dichiarazioni entro un tempo massimo di 180 giorni, che decorrono dal momento in cui esprime la volontà di collaborare. A più riprese, il legislatore ha specificato che per diventare collaboratore non basta solo “parlare”, ma serve che le dichiarazioni siano attendibili e di notevole importanza per lo sviluppo delle indagini. Emblematico a tal proposito il caso dell’ex boss dei Casalesi Francesco Schiavone: lo scorso marzo, dopo circa 26 anni di carcere, il camorrista ha deciso di collaborare con la giustizia, ma appena quattro mesi dopo i magistrati hanno interrotto il rapporto, ritenendo le informazioni fornite non sufficientemente utili. 

Nel momento in cui i collaboratori sottoscrivono il “contratto” con lo Stato, si impegnano inoltre a non rilasciare dichiarazioni a soggetti che non siano l’autorità giudiziaria, le forze di polizia o il proprio difensore. Sono anche obbligati a denunciare tutti i beni in loro possesso, versando nelle casse dello Stato il denaro frutto delle attività illecite.

Collaboratori di giustizia: cambio identità e località segrete

Il collaboratore di giustizia la cui incolumità è considerata a forte rischio può usufruire del cambio delle generalità. La disciplina è regolata dal decreto legislativo n.119 del 29 marzo 1993 e prevede l’assegnazione di nome, cognome, data e luogo di nascita nuovi, oltre a una serie di dati riguardanti lo stato civile, sanitari e fiscali.

La norma dispone che dopo l’emanazione del decreto che cambia le generalità, il collaboratore non può più utilizzare le precedenti, salvo autorizzazione della Commissione centrale. E ancora, per mettere il collaboratore al riparo da eventuali ritorsioni, lo Stato può decidere di trasferirlo in una località segreta, come nel caso dell’esponente di Cosa nostra Giovanni Brusca, che dopo 25 anni trascorsi in carcere ha ottenuto la libertà vigilata in un luogo protetto e sorvegliato.

Collaboratori di giustizia: il sostegno economico

Il sostegno economico è garantito fino a quando il collaboratore non ottiene un impiego ed è in grado mantenersi autonomamente

Le informazioni sul sostegno economico fornito dallo Stato ai collaboratori sono esigue e frammentarie. Chi collabora usufruisce certamente di un assegno mensile, il cui importo dipende da una serie di variabili, a cominciare dal numero di persone che fanno parte del nucleo familiare. Il contributo è concesso nel momento in cui è sancita la collaborazione con lo Stato ed è garantito fino a quando, una volta ottenuta la libertà, lo stesso non ottiene un impiego ed è in grado di mantenersi da solo. Nel novero degli aiuti rientra anche il pagamento del canone di locazione, delle utenze e delle spese mediche e legali.

Collaboratori di giustizia: quando la protezione può essere revocata

La scarsa utilità delle dichiarazioni fornite agli inquirenti, come nel caso di Francesco Schiavone, può portare alla revoca delle misure di protezionee, di conseguenza, dei benefici acquisiti dal collaboratore di giustizia. Altri comportamenti che causano la revoca sono, fra gli altri: commettere delitti; un nuovo coinvolgimento nel circuito criminale; rilevare la nuova identità; tornare senza autorizzazione nei luoghi dai quali si è stati trasferiti; rivelare il luogo di residenza segreto; rifiutare adeguate offerte di lavoro o di impresa.

Più in generale, l’articolo 13-quater della legge 82/1991 precisa che le misure di protezione “possono essere revocate in relazione all’attualità del pericolo, alla sua gravità e alla idoneità delle misure adottate, nonché in relazione alla condotta delle persone interessate e alla osservanza degli impegni assunti a norma di legge”.

Collaboratori di giustizia: due casi emblematici

Le dichiarazioni rilasciate dai collaboratori hanno spesso contribuito a risolvere molti cold case, vale a dire i casi irrisolti. Uno dei più recenti riguarda Maria Chindamo, imprenditrice calabrese di 42 anni scomparsa nel maggio del 2016 dalla sua tenuta di Limbadi, in provincia di Vibo Valentia. A sbloccare le indagini sono state le dichiarazioni di Antonio Cossidente, secondo cui a uccidere la donna sarebbe stato Salvatore Ascone detto “U pinnularu”, narcotrafficante nell’orbita del clan Mancuso e vicino di casa di Chindamo.

L’uomo pare avesse messo gli occhi sui terreni della vittima, voleva acquistarli ma dall’altra parte aveva ricevuto soltanto risposte negative. Un rifiuto a oltranza che avrebbe portato al delitto, con il corpo della donna che non è mai stato trovato. Su quest’ultimo punto, sempre Cossidente ha rivelato che durante una chiacchierata con Emanuele Mancuso – altro esponente della ‘ndrangheta, anche lui pentito – questi gli avrebbe confidato che il corpo della donna sarebbe stato fatto a pezzi e dato in pasto ai maiali.

Un altro collaboratore eccellente è Domenico Agresta, detto “Micu McDonald”, figlio di Saverio Agresta e Anna Marando. Cresciuto nel Nord Italia, autore ad appena 20 anni di un omicidio, il futuro di Micu era già scritto: diventare un boss e curare gli affari della ‘ndrangheta nel Settentrione. Nel 2016 Agresta ha scelto però di spezzare il filo che lo legava alla sua famiglia, diventando il più giovane collaboratore di giustizia della criminalità calabrese. 

In un’intervista rilasciata nel luglio 2022 a lavialibera, Agresta ha raccontato: “Non ho paura di collaborare, ma di essere ammazzato sì. Tanti non ragionano e sono tante le persone che io ho nominato. Se uno non vuole ammazzarmi, lo farà un altro oppure lo farà il figlio di uno finito all’ergastolo. Potrebbe capitare, ma non credo ora”.

“Se uno non vuole ammazzarmi, lo farà un altro oppure lo farà il figlio di uno finito all’ergastolo”, ha detto Domenico Agresta a lavialibera

Le dichiarazioni del “pentito” hanno destabilizzato l’ambiente criminale in cui è cresciuto, ma soprattutto hanno fornito ai magistrati elementi chiave per venire a capo di fatti complessi. Nella sua testimonianza al processo a carico di Rocco Schirripa – condannato in via definitiva per essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia,avvenuto nel 1983 – Agresta aveva confermato le responsabilità dell’imputato, tirando in ballo anche l’ex militante di Prima Linea Francesco D’Onofrio, la cui posizione nel dicembre 2023 è stata archiviata dalla procura di Milano. Marco Panzarella lavialibera 29 ottobre 2024