CONTE guida assalto all’ANTIMAFIA e SCARPINATO azzarda un paragone con Falcone e Borsellino

 

Nel momento in cui una procura o un organismo politico come la Commissione Antimafia esplora – per la prima volta in assoluto – attraverso il reperimento di documenti tenuti per decenni nei cassetti ciò su cui Paolo Borsellino stava concentrando le indagini negli ultimi giorni della sua vita, si mette in moto un attacco concentrico.
Il tutto utilizzando le più variegate associazioni delle vittime di mafia e non solo: dalle Agende Rosse capeggiate da Salvatore Borsellino, fino ad arrivare alle associazioni delle vittime della strage di Bologna e di Piazza Fontana. Fatti tragici che vengono accostati indiscriminatamente, in barba sia alla Storia che alle risultanze processuali.
Si fa riecheggiare la vecchia inchiesta degli anni Novanta, condotta dagli allora pm Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato. Quell’inchiesta sosteneva che gli attentati del 1993, eterodiretti da massoni, eversori neri ed entità varie, fossero finalizzati alla nascita della Seconda repubblica con l’ascesa a Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi.
Fu archiviata per assoluta mancanza di prove, su richiesta dei due pm stessi, ma venne poi riciclata sotto altre spoglie attraverso alcune aggiunte suggestive.
Qualche sponda processuale è stata trovata, come in Calabria, attraverso il processo denominato “ndrangheta stragista”, dove hanno sfilato pentiti calabresi poco credibili.
Ma il teorema, in quel caso, non è stato scalfito, visto che in realtà, al di là del nome giornalistico che può trarre in inganno, il processo era volto alla condanna dei Graviano, responsabili di un duplice omicidio ai danni dei carabinieri. Non essendo processate persone che possono difendersi dal teorema di fondo (pensiamo solo al povero poliziotto detto “faccia da mostro”), quel processo è diventato il contenitore di tutti i fallimenti processuali avvenuti a Palermo.
Su iniziativa del senatore pentastellato Stefano Patuanelli, si sono tenute due incontri presso la sala del Senato per attaccare la presidente dell’Antimafia Chiara Colosimo.
Una conferenza stampa delle associazioni e un convengo che ha visto, tra gli altri, la partecipazione di Giuseppe Conte.
La presidente Colosimo viene accusata di aver posto il problema del palese “conflitto di interesse” riguardante il senatore Roberto Scarpinato, ma anche di minimizzare e spezzettare l’approfondimento sulle stragi.
Eppure, dovrebbe essere scontato che le indagini serie non partono dai massimi sistemi – che hanno il solo effetto di creare un romanzo fantapolitico (a tal proposito è da rileggere l’ultimo libro di Falcone scritto assieme a Marcelle Padovanì) – e di conseguenza fare fumo.
Se la commissione avesse seguito tali indicazioni, ancora oggi saremmo rimasti ignari su cosa Borsellino stava concretamente investigando.
Il giorno prima della strage di Via D’Amelio, Borsellino si incontrò in albergo con il suo collega – all’epoca pm di Aosta – David Monti. Gli confidò che, pur non avendo la delega su Palermo, tramite le sue indagini agrigentine di competenza poteva comunque risalire alla causa della strage di Capaci.
E ora, grazie alla desecretazione, stiamo conoscendo il lavoro colossale che stava svolgendo. D’altronde, come insegna Falcone stesso, si parte dal singolo omicidio per arrivare alla Cupola. Lo stesso dossier mafia-appalti nasce dall’omicidio di Giuseppe Taibbi, un piccolo imprenditore di Baucina, e dalla collaborazione di Aurelio Pino. Da lì, si è giunti al vertice di talune grandi imprese nazionali.
Ma tutto ciò crea fastidio. E lo diventa ancora di più quando la Procura di Caltanissetta mette il becco su alcuni ex togati dell’allora procura di Palermo.
Un nervosismo che cresce, tanto da generare critiche trasversali e subdole nei confronti dei figli di Paolo Borsellino e del loro legale Fabio Trizzino.
Proprio coloro che da 32 anni sono stati sempre composti e mai hanno fatto parte di questa grande macchina da guerra – supportata da procure, associazioni che sfiorano il fanatismo e diversi partiti – dove si usano gli ignari familiari delle vittime per proseguire con una narrazione fuori dalla realtà oggettiva dei fatti.
Il centrodestra, Fratelli d’Italia in primis, rimane compatto e dall’opposizione solo Italia Viva è l’unica voce fuori dal coro. Ed è surreale, perché qui non dovrebbe essere in gioco una questione ideologica, ma di verità oggettiva dei fatti.
Il Pd sta dimostrando di essere una stampella del M5S, non preoccupandosi che presto questa patata bollente gli scoppierà inevitabilmente tra le mani.
Il maggior rappresentante di questo assoggettamento è il senatore Walter Verini, che lo ha ancora una volta dimostrato non solo in un’intervista su queste stesse pagine de Il Dubbio – con una proposta di legge sul conflitto di interesse utile a non scomodare anche chi lo è di fatto (quindi ad personam) – ma anche partecipando al convegno di ieri con la presenza, tra gli altri, di Giuseppe Conte, Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato.
Inutile soffermarsi sulle parole di Conte o di Verini, anche perché non è un tema che conoscono. Infatti non fanno altro che porre argomentazioni recepite dai loro punti di riferimento per attaccare la Commissione.
Quindi bisogna dare importanza all’originale, ovvero Scarpinato. Interessante il suo intervento nel quale ha esplicato la stessa narrazione di sempre, dando per certi dei fatti assolutamente non verificati.
“Alla commissione non interessa accertare la presenza di soggetti esterni nelle stragi”, tuona sventolando la sua memoria dove, a suo dire, ci sono indicazioni per arrivare alla verità.
È stato procuratore per 40 anni, ha avuto sempre carta bianca per le indagini, istituito processi quasi del tutto fallimentari, eppure dice che la verità non è stata ancora raggiunta.
Deve quindi sopperire la presidente Chiara Colosimo a queste sue mancanze?
Il momento più controverso si è avuto quando Scarpinato ha azzardato un paragone con Falcone e Borsellino, sostenendo come anche loro fossero stati ostracizzati per impedire le indagini sull’eversione nera e similari. Un falso storico. E lo è ancora di più quando cita il fallito attentato all’Addaura, collegandolo alle indagini di Falcone su Fioravanti e Ciavardini per l’omicidio Mattarella.
La realtà è ben diversa: quel giorno Falcone era con i colleghi svizzeri Del Ponte e Lehmann per l’inchiesta “Pizza Connection” sul riciclaggio.
Quello dava fastidio: indagare sui conti svizzeri. Poco corretto, inoltre, che Scarpinato citi esclusivamente le parole di Falcone in Antimafia dette nel 1988: “È un’indagine estremamente complessa perché si tratta di capire se e in quale misura “la pista nera” sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con essa. Il che potrebbe significare saldature e la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese”.
Le parole sono importanti. Da persona estremamente seria, Falcone ha spiegato che l’indagine era appena iniziata e doveva approfondire per rispondere a questi quesiti, senza fare affermazioni definitive.
La risposta ce l’abbiamo da lui stesso nell’audizione in Antimafia, due anni dopo, nel verbale del 1990: ha scartato completamente l’ipotesi che oggi Scarpinato pretende sia verità da approfondire. Negli atti sui delitti eccellenti, Falcone stesso ribadisce che queste tesi – comprese Gladio e P2, già pompate all’epoca – sono da cestinare per “l’irriducibile vocazione di Cosa Nostra a salvaguardare la propria segretezza e la propria assoluta indipendenza da ogni altro centro di potere esterno”.
Questo è ciò che pensava Falcone e che ribadirà in ogni sede. Legittimo esprimere tutte le tesi che si vogliono, ma metterle in bocca anche a Falcone e Borsellino non è accettabile. Loro erano dei giganti, dotati di una capacità intellettuale difficile da scorgere tra gli ex magistrati seduti negli scranni del Parlamento.
IL DUBBIO Damiano Aliprandi