Entrambi hanno testimoniato al processo che vede imputati il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu con l’accusa di favoreggiamento nei confronti del boss Bernardo Provenzano.
Una deposizione drammatica. “Io e il collega Massimo Russo restammo sorpresi, imbarazzati – ha raccontato la Camassa -. Eravamo andati a trovarlo per parlare di alcune indagini, ma all’improvviso Borsellino cambiò discorso. Dopo quello sfogo non abbiamo avuto la forza di chiedergli nulla. Ho avuto la la sensazione che Paolo avesse ricevuto da poco una notizia che l’aveva sconvolto”. Nessun riferimento, però, sull’identità del traditore.
Dopo di lei è stata la volta di Russo, assessore regionale alla Sanità. C’era anche lui quel giorno nella stanza di Borsellino. “Mi parlò di una cena con ufficiali dei carabinieri a Roma, poi all’improvviso disse che qualcuno lo aveva tradito. Quasi per sdrammatizzare io gli chiesi come andava in Procura. E lui rispose che era un nido di vipere”.
L’incontro raccontato da Russo e dalla Camassa sarebbe avvenuto a fine giugno del ’92, quando andarono a trovare l’ex capo che nel frattempo era stato trasferito da Marsala a Palermo, dove ricopriva il ruolo di procuratore aggiunto.
Ma perché ha parlato di questi particolari solo a distanza di tanti anni? “Non c’è stata una richiesta in tal senso”, ha risposto alla domanda del legale di Mario Mori, l’avvocato Basilio Milio. “Uno aspetta di essere chiamato per dire una cosa così importante?”, ha aggiunto il presidente del Tribunale, Mario Fontana: “Mai e poi mai in quel periodo – ha spiegato Russo – potevo immaginare che questa vicenda si collocava in una questione più ampia”.
Tornando alla deposizione della Camassa, il giudice ha riferito di una confidenza che gli avrebbe fatto l’allora maresciallo Carmelo Canale, stretto collaboratore del giudice Borsellino, coinvolto in un calvario giudizio conclusosi con l’assoluzione: ”Nel giugno 1992, Canale mi disse di parlare con Borsellino. Canale riteneva che Borsellino si fidasse troppo dei vertici del Ros. L’aveva messo in guardia. Io non dissi niente a Borsellino, sapevo quale rapporto di grande confidenza aveva con i carabinieri”. “Ricorda se Canale le fece dei nomi parlando del Ros?”, le ha chiesto il pubblico ministero Antonino Di Matteo che con Antonio Ingroia rappresenta l’accusa al dibattimento. La Camassa ha fatto i nomi degli ufficiali Mori e Subranni, aggiungendo, però, di non potere avere certezza dei suoi ricordi.
Riccardo Lo Verso LIVE SICILIA 4.5.2012
MASSIMO RUSSO – Magistrato già collega di Borsellino
– “Marsala è stata la mia prima sede, dopo avere terminato l’uditorato a Firenze. Lì ho fatto il giudice per due anni, successivamente sono stato trasferito alla Procura allora retta da Paolo Borsellino con il quale lavorai solo alcuni mesi, poiché nel marzo del 92 egli ritornò a Palermo per assumere l’incarico di procuratore aggiunto. Ma il rapporto umano iniziò da subito. Paolo Borsellino, per la comunità dei giovani magistrati del Palazzo di Giustizia di Marsala – molti, come me, di prima nomina- era un imprescindibile punto di riferimento umano e professionale. Paolo si imponeva per la sua esperienza, per il suo carisma e per il suo tratto umano: era un uomo semplice, un padre di famiglia, simpatico, dalla battuta sempre pronta, ironico e col sorriso stampato in faccia, appena smorzato dalla perenne sigaretta tra le labbra. Sempre disponibile a venirci incontro e a misurarsi con le nostre difficoltà di giovani magistrati già alle prese con indagini complesse, anche di mafia: all’epoca, prima dell’istituzione delle Direzioni Distrettuali Antimafia, la Procura di Marsala si stava infatti occupando di diversi e importanti procedimenti contro Cosa Nostra. Ricordo la sua battuta con la quale sintetizzò l’atteggiamento che dovevamo avere nei confronti dei mafiosi: “pugno di acciaio in un guanto di velluto”. Un’altra volta, quando si rese conto che mi aveva assegnato un’indagine in cui erano coinvolti soggetti di Mazara del Vallo -che è la mia città natale dove all’epoca vivevo – mi chiamò e dissimulando la sua reale preoccupazione mi disse sorridendo: “Adesso ti occupi anche dei tuoi concittadini?”. Poi più seriamente aggiunse: “Forse non è opportuno che tu lo faccia perché prima o poi te la faranno pagare”. Pur comprendendo il suo atteggiamento protettivo, di rincalzo e con la sua stessa ironia, gli risposi: “Scusa Paolo, ma tu di dove sei?”. “Di Palermo”, rispose. “E finora che hai fatto? Di cosa ti sei occupato?” E lui, messo alle strette: “Della mafia palermitana”. Ed io: “E allora che vuoi?”. “Comunque stai attento”, concluse”. Qual è l‘immagine più bella che lei ha di Paolo Borsellino? “Quella sorridente del felice periodo marsalese di quando, per esempio, insieme agli altri colleghi, ci ritrovavamo a pranzo con lui sul lungomare di Marsala continuando a discutere e parlare delle nostre indagini, tra le sue battute divertenti e i suoi aneddoti. Un’immagine ben diversa da quella che Paolo Borsellino ci diede dopo il 23 maggio, quella di un uomo distrutto dalla tragedia di Capaci, gravato dalla consapevolezza della morte che si annunciava anche per lui..”Ma Falcone e Borsellino sono stati molto di più che due grandissimi magistrati: con la loro costante dedizione al lavoro, con la loro incrollabile fiducia nelle Istituzioni, con le loro azioni giudiziarie, hanno dato risposta ad un forte bisogno di identificazione collettiva da parte della società sana, di quella parte che ha sempre creduto che il riscatto della Sicilia e del meridione passasse innanzitutto attraverso la lotta al potere mafioso. Così, sono divenuti l’emblema della lotta alla mafia e in molti si sono riconosciuti nel loro esempio, da imitare piuttosto che ammirare Cose di Cosa Nostra nei ricordi di un magistrato antimafia. Dall’intervista di Enzo Guidotto a Massimo Russo – 7 Luglio 2016