Banalizzare le “relazioni mafie-Stato” che sono la vera forza delle mafie e che sono state in grado di rafforzare il potere di Cosa Nostra dal secondo dopoguerra in poi, significa o sapere poco o nulla delle mafie, o essere in malafede (probabilmente indotta). Sono i fatti che confermano (anche processualmente) l’esistenza di questi rapporti che sono ancora oggi continui e costanti.
Perché parlare di attendibilità assoluta di Maurizio Avola e non chiedersi come mai costui ritrova la memoria dopo tre decenni? Utile sarebbe audire anche i magistrati che lo hanno incriminato per calunnia. Racconta i fatti con quasi trent’anni di ritardo dall’inizio della sua collaborazione con lo Stato. Lo fa mescolando dati opinabili e presunte verità.
Una per tutte? Dietro la morte di Paolo Borsellino c’è solo la mafia, nient’altro che la mafia. Si accusa del massacro di via D’Amelio, ma ha indicato un luogo diverso dal garage dove venne imbottita di esplosivo l’autobomba.
Dice che lo Stato non c’entra, ma poi da collaboratore di giustizia nel 1994 fa il nome di Cesare Previti e Marcello Dell’Utri come uomini al servizio delle mafie ed è stato il primo a mettere in relazione la stagione degli attentati con Silvio Berlusconi e Forza Italia.
Delle due versioni allora una è la verità e una è la bugia? Sono entrambe vere o tutte e due false? Sempre nella sua qualità di collaboratore di giustizia dice: “Temevo e temo molto i circuiti massonici a cui Matteo Messina Denaro e la sua famiglia sono legati. Sono molto potenti e hanno al servizio numerosi esponenti delle istituzioni”. Questo dice ai magistrati. “Nella capitale non si poteva fare (riferendosi al delitto Scopelliti) perché non volevano un omicidio eccellente là, anche quello di Falcone – racconta il collaboratore – è saltato per lo stesso motivo”.
Gli atti dei processi celebrati a Caltanissetta provano che Avola, nei giorni della strage di via D’Amelio, era a Catania con un braccio ingessato. Poi audito da Claudio Fava presidente dell’Antimafia dell’Ars dell’epoca disse che le auto della scorta di Borsellino arrivarono in via D’Amelio a sirene spiegate mentre in realtà erano spente come è scritto nella sentenza del processo Borsellino quater.
Nel carteggio del processo “Orsa Maggiore” nella ricostruzione dell’omicidio di Giuseppe Fava poco o nulla corrisponde a verità (una per tutte: “la redazione dei Siciliani stava al primo piano” (dice Avola). Falso, era in uno scantinato sotto il livello della strada.
A questo punto è lecito e onesto domandarsi: è per caso in corso un nuovo depistaggio? Dove era veramente Maurizio Avola il 19 luglio 1992?
Perché dopo trent’anni all’improvviso ci racconta che si trovava nel garage di via D’Amelio e lo fa proprio nel libro di Michele Santoro? Voi che leggete questo articolo gli credereste?
In altri verbali avrebbe addirittura detto che lui non c’entrasse nulla con la strage di via d’Amelio.
Al processo ter per la strage di via D’Amelio gli viene chiesto se uomini della mafia catanese erano stati coinvolti nelle operazioni, la sua risposta: “no, nessuno”.
Poi stranamente ci ripensa e dice ai magistrati di Caltanissetta che lui era lì ed era proprio nel garage dove fu allestita la macchina della morte, la 126 imbottita di tritolo che esploderà sotto casa della madre di Borsellino, in via D’Amelio. Proprio lì dove c’è Gaspare Spatuzza, il pentito che ha permesso di sbaragliare il depistaggio delle indagini sul 19 luglio che, invece, ratifica il fatto che Avola non fosse affatto fosse lì.
Ora le sue dichiarazioni possono sembrare esplosive ma stiamo attenti ai facili entusiasmi.
Vincenzo Musacchio