QUEL FURGONE TARGATO RAVENNA A CAPACI…

 

 
Il giorno prima della strage di Capaci, sul posto è stato avvistato un furgone targato Ravenna, nelle vicinanze del quale un testimone ha notato due operai intenti a manipolare un filo elettrico nero. In seguito, lo stesso testimone ha riconosciuto in Santino Di Matteo, ex mafioso, uno dei due soggetti.
Un dettaglio che la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Chiara Colosimo, ha rivelato durante la kermesse di Fratelli d’Italia ad Atreju, dove era presente l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Paolo Borsellino, insieme a Luciano Violante e Piero Sansonetti. Il tema del dibattito verteva sui “57 giorni nel nido di vipere: verità sulle stragi del 1992”. Tra il pubblico era presente anche Lucia Borsellino.
A un primo sguardo, la rivelazione della presidente Colosimo appare estremamente suggestiva, richiamando immediatamente alla mente il Gruppo Ferruzzi Gardini. Quest’ultimo, attraverso società come Calcestruzzi S.p.A. e altre imprese collegate, aveva stabilito legami con Cosa Nostra tramite i fratelli Buscemi, al fine di beneficiare del sistema di spartizione degli appalti siciliani. L’alleanza non si limitava alla semplice corruzione, ma configurava un’interazione sistematica con il sistema mafioso.
Un dettaglio che genera un immediato sussulto, dal momento che – e non è una mera opinione, bensì un fatto acclarato – tutte le sentenze sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio evidenziano l’interesse di Falcone e Borsellino per il dossier “mafia-appalti” come concausa degli attentati.
Nelle motivazioni dell’appello del Borsellino quater, i giudici scrivono chiaramente che la frenetica corsa contro il tempo di Borsellino per acquisire il controllo dell’indagine ha di fatto accelerato gli eventi.
Quella che potrebbe apparire come una suggestione è, in realtà, un fatto che meriterebbe un approfondimento accurato. Prendiamo le mosse dalle testimonianze di due persone che saranno poi sentite durante il primo processo sulla strage di Capaci. Sono due i testimoni indicati dalla procura di Caltanissetta.
Nell’ordinanza, i testimoni contraddistinti dai numeri 26 e 27 descrivono un’attività sospetta avvenuta il 22 maggio 1992 (il giorno prima della strage), riconducibile a quella che gli investigatori definiscono “seconda fase” della preparazione dell’attentato a Capaci.
I due testimoni hanno riferito di aver notato operazioni di misurazione precise della carreggiata tra Punta Raisi e Palermo. L’obiettivo sembrava essere l’individuazione del punto esatto per posizionare le cariche esplosive, in modo che la detonazione avvenisse precisamente al centro delle corsie. Questo dettaglio trova riscontro nel frammento di cavo d’acciaio rinvenuto durante i successivi sopralluoghi nell’area dell’esplosione.
Nonostante le testimonianze provengano da persone diverse, vi è una significativa convergenza sia negli orari che nelle circostanze descritte. Il primo testimone (nr. 26) ha segnalato un furgone Ducato bianco carico di attrezzature per deviazioni stradali – cartelli, birilli e strumenti da scavo. Ha inoltre notato due persone vicino a una “saia” (piccolo fossato) intente a stendere un cavo elettrico nero. Il secondo testimone (nr. 27) ha invece riferito di un’interruzione nella corsia di marcia proprio nella zona dove poi avverrà l’attentato, con alcune persone che misuravano la carreggiata da un lato all’altro, utilizzando un cavo elettrico nero. Questi dettagli sembrano descrivere un’accurata preparazione preliminare dell’attentato, con un livello di precisione davvero impressionante.
Ma è il primo testimone, ora rivalorizzato dalla presidente della Commissione antimafia, che merita attenzione. Parliamo dell’ingegnere Francesco Naselli Flores, imprenditore e cognato del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
È esattamente il testimone numero 26 indicato dall’allora procura nissena. Sentito al processo Capaci, ribadisce la vicenda. Il giorno prima della strage, il 22 maggio, sul cavalcavia in direzione dell’aeroporto di Punta Raisi, nota un furgone Fiat Ducato bianco. Si ferma perché pensava che fosse della sua azienda e si domandava che cosa stesse facendo lì, visto che sarebbe dovuto stare a Sciacca per dei lavori. Per questo va a sbirciare e scopre che non è il suo, ma di un’altra azienda.
Vede che il mezzo aveva la targa posteriore Ravenna. All’interno, visto che i portelloni erano aperti, nota utensili da lavoro e due grandi cartelli di segnaletica stradale.
Dopodiché si affaccia dal guardrail e, nell’avvallamento, nota due operai trentenni che maneggiavano un filo.
C’è un riscontro. Quando c’è stato l’attentato, l’imprenditore Naselli, spinto dal senso civico, andò al commissariato di San Lorenzo per denunciare ciò che aveva visto il giorno prima.
A trovare riscontri sarà il poliziotto Roberto Di Legami. Al processo dirà che, attraverso gli accertamenti presso il commissario di Punta Raisi, appurerà che effettivamente operava una cooperativa ravennate, un consorzio di imprese che operava in tutta Italia con gli appalti pubblici. Fa anche qualche nome, in particolare cita la Sageco.
Attenzione: quest’ultima era dei fratelli Ranieri. Luigi è l’imprenditore ucciso nel 1988 per essersi opposto a Cosa Nostra. Del fascicolo se ne occuperà proprio Borsellino, il giorno prima della strage in Via D’Amelio.
A questo punto, ci sono i dati per poter identificare di quale consorzio stiamo parlando. Lo si può vedere dalle indagini effettuate dallo SCO, su delega della procura di Palermo.
Non nel 1991-1992, quando il dossier mafia-appalti, redatto dai ROS, aveva già identificato i Buscemi con il gruppo Ferruzzi (e non risultano deleghe di indagini sul punto specifico), ma nel procedimento del 1997. Ebbene, tra le varie società in odor di mafia, appare il Consorzio Ravennate delle cooperative di Produzione e Lavoro. Tra le aziende di produzione e lavoro consorziate figurano CISA S.p.A. e la Edilstrade Siciliana, entrambe in mano ai Buscemi.
Il rappresentante della Edilstrade era Epifanio Patti, cognato del mafioso Francesco Bonura, che operava come prestanome di Antonino Buscemi.
E la CISA? La ritroviamo già nel dossier mafia-appalti. In mano ad Antonino Buscemi, risultava far parte, unitamente alla società TORDIVALLE di Catti, del consorzio CEMPES. Parliamo di miliardi, superiori agli affari dell’allora ente Sirap. La CISA era come un ponte invisibile: da un lato le alte sfere dell’industria italiana rappresentate da Gardini (nello specifico Lorenzo Panzavolta fungeva da collegamento), dall’altro le cosche siciliane di cui Buscemi era un esponente di rilievo.
Un ponte costruito con azioni, società, appalti: un meccanismo così raffinato da sembrare quasi una forma di arte criminale. Tutto iniziò nel dicembre del 1982, quando Calcestruzzi, il colosso di Gardini, mise le mani su 36.380 azioni della CISA. Cinque anni dopo, nel gennaio del 1987, arrivò la fusione: la CISA non era più solo un’azienda, ma un perfetto strumento di un’architettura criminale che univa il nord e il sud, l’imprenditoria e la mafia.
Non può sorprendere che aziende mafiose potessero essere a disposizione anche come supporto logistico, facilmente mimetizzabile, per le stragi. Non solo a Capaci, ma probabilmente anche in Via D’Amelio.
Riascoltando le intercettazioni di Totò Riina al 41 bis, nel colloquio del 10 settembre 2013, il capo dei capi afferma: “Nino, prepara un camion! Caricalo di bidoni, come se dovessi andare a lavorare”. L’identità di Nino resta enigmatica. Questo riferimento andrebbe approfondito con un nuovo ascolto. Curiosamente, anche in un altro episodio, compare un furgone bianco. Si potrebbe pensare a Maurizio Avola, che menzionerà un Ducato bianco con a bordo Graviano e Matteo Messina Denaro in occasione dell’ attentato. Ma questa è un’altra storia. IL DUBBIO 16.12.2024 – Damiano Aliprandi
 

La STRAGE di CAPACI