“𝗠𝗶𝗼 𝗽𝗮𝗱𝗿𝗲 𝗲̀ 𝘀𝘁𝗮𝘁𝗼 𝗱𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗶𝗰𝗮𝘁𝗼 𝗶𝗹 𝘀𝘂𝗼 𝗲𝘀𝗲𝗺𝗽𝗶𝗼 𝗿𝗲𝘀𝘁𝗮 𝘀𝗰𝗼𝗺𝗼𝗱𝗼”

𝐿𝑎 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑐𝑜𝑟𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜𝑠𝑜 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑐𝑜 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑙𝑒 𝑎𝑠𝑠𝑎𝑠𝑠𝑖𝑛𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑎 𝐶𝑜𝑠𝑎 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎 𝑛𝑒𝑙 1982 𝑟𝑖𝑐𝑜𝑟𝑑𝑎 𝑖 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑚𝑖𝑛𝑎𝑐𝑐𝑒 𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙’𝑖𝑚𝑝𝑒𝑔𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑎 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑙𝑖𝑡𝑎̀

«Sentire che il killer di mio padre ha avuto un permesso premio mi inquieta, mi amareggia», dice Milly Giaccone, la figlia del medico legale ucciso da Salvatore Rotolo nel 1982. «Anche se è una notizia che non mi sorprende – aggiunge – purtroppo la figura di mio padre non è molto ricordata. E, invece, credo sia di straordinaria attualità, perché simbolo di quella buona sanità che oggi spesso manca».

𝐂𝐨𝐬𝐚 𝐬𝐢 𝐩𝐨𝐭𝐫𝐞𝐛𝐛𝐞 𝐟𝐚𝐫𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐫𝐢𝐜𝐨𝐫𝐝𝐚𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐏𝐚𝐨𝐥𝐨 𝐆𝐢𝐚𝐜𝐜𝐨𝐧𝐞?

«Sono grata per le iniziative organizzate dall’università, ma c’è ancora tanta gente a Palermo che non sa chi è quel Paolo Giaccone a cui è intitolato il Policlinico. Chissà, forse, un murale dedicato a papà in uno dei padiglioni del Policlinico potrebbe essere un bel segnale».

𝐏𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́, 𝐬𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐨 𝐥𝐞𝐢, 𝐬𝐢 𝐩𝐚𝐫𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐬𝐢̀ 𝐩𝐨𝐜𝐨 𝐝𝐢 𝐏𝐚𝐨𝐥𝐨 𝐆𝐢𝐚𝐜𝐜𝐨𝐧𝐞?

«Forse, perché resta una figura scomoda per la sua intransigenza nel mondo delle professioni. Forse, perché c’è ancora un pezzo di verità sul delitto che non conosciamo».

𝐋𝐞𝐢 𝐧𝐨𝐧 𝐡𝐚 𝐦𝐚𝐢 𝐬𝐦𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐝𝐢 𝐜𝐡𝐢𝐞𝐝𝐞𝐫𝐥𝐚 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐯𝐞𝐫𝐢𝐭𝐚̀. 𝐑𝐞𝐬𝐭𝐚𝐧𝐨 𝐝𝐢𝐯𝐞𝐫𝐬𝐢 𝐩𝐮𝐧𝐭𝐢 𝐨𝐬𝐜𝐮𝐫𝐢 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐫𝐢𝐜𝐨𝐬𝐭𝐫𝐮𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐦𝐢𝐧𝐚𝐜𝐜𝐞 𝐬𝐮𝐛𝐢𝐭𝐞 𝐝𝐚 𝐬𝐮𝐨 𝐩𝐚𝐝𝐫𝐞 𝐩𝐨𝐜𝐨 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐝𝐞𝐥𝐢𝐭𝐭𝐨.

«Anni fa, questa verità la chiedevo a gran voce sul mio profilo Facebook, che qualcuno hackerò. Risultato, il profilo venne chiuso. E la cosa mi è dispiaciuta parecchio, perché su quella pagina c’erano anche tanti ricordi personali di mia figlia, che ci ha lasciati troppo presto».

𝐓𝐨𝐫𝐧𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐚𝐥 𝐜𝐚𝐬𝐨 𝐒𝐚𝐥𝐯𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐑𝐨𝐭𝐨𝐥𝐨: 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐫𝐞 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐛𝐨𝐬𝐬 𝐞𝐫𝐠𝐚𝐬𝐭𝐨𝐥𝐚𝐧𝐢 𝐨𝐭𝐭𝐞𝐧𝐠𝐨𝐧𝐨 𝐩𝐞𝐫𝐦𝐞𝐬𝐬𝐢 𝐩𝐫𝐞𝐦𝐢𝐨. 𝐐𝐮𝐚𝐥𝐢 𝐫𝐢𝐬𝐜𝐡𝐢 𝐢𝐧𝐭𝐫𝐚𝐯𝐞𝐝𝐞?

«Si tratta di persone che continuano a conservare segreti di mafia importanti, persone che non hanno mai mostrato alcun segno di collaborazione con la giustizia o di ravvedimento. È dunque legittimo che tanti, nella società, siano preoccupati per una possibile recrudescenza criminale. Anche se per fortuna i tempi sono ormai cambiati. Ma bisogna continuare a lavorare con i giovani, per battere quella cultura mafiosa che è ancora presente nei nostri territori e che costituisce il terreno di coltura della presenza dei boss».

𝐂𝐨𝐬𝐚 𝐩𝐨𝐭𝐫𝐞𝐛𝐛𝐞 𝐟𝐚𝐫𝐞 𝐥’𝐚𝐧𝐭𝐢𝐦𝐚𝐟𝐢𝐚 𝐩𝐞𝐫 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐯𝐢𝐜𝐢𝐧𝐚 𝐚𝐢 𝐠𝐢𝐨𝐯𝐚𝐧𝐢?

«Non dobbiamo smettere di raccontare le storie dei nostri martiri, loro avevano già compreso cos’è Palermo. E non si sono mai tirati indietro di fronte a tante difficoltà. Questo è il messaggio più bello che dovremmo continuare a rilanciare: l’antimafia non può dimenticare, deve invece cogliere il senso della storia, per evidenziare il meglio ed emarginare il peggio».

𝐐𝐮𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐦𝐚𝐭𝐭𝐢𝐧𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝟏𝟏 𝐚𝐠𝐨𝐬𝐭𝐨 𝟏𝟗𝟖𝟐 𝐝𝐨𝐯𝐞𝐯𝐚 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐜𝐢 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐞𝐢, 𝐠𝐢𝐨𝐯𝐚𝐧𝐞 𝐬𝐭𝐮𝐝𝐞𝐧𝐭𝐞𝐬𝐬𝐚 𝐝𝐢 𝐌𝐞𝐝𝐢𝐜𝐢𝐧𝐚, 𝐜𝐨𝐧 𝐬𝐮𝐨 𝐩𝐚𝐝𝐫𝐞, 𝐟𝐫𝐚 𝐢 𝐯𝐢𝐚𝐥𝐢 𝐝𝐞𝐥 𝐏𝐨𝐥𝐢𝐜𝐥𝐢𝐧𝐢𝐜𝐨.

«Eravamo usciti presto da casa, per accompagnare mia sorella dalla professoressa di solfeggio, in via Roma. C’era anche mamma, che non si sentiva bene, papà mi disse: “Resta con lei, poi mi raggiungi in taxi”. Quando ero già fuori dall’auto, tornai ad abbracciarlo. Pochi minuti dopo, vidi alcune volanti che correvano con le sirene accese. Gli avevano già sparato».