Lo scenario. La mafia seduce ancora

Antonio Maria Mira – AVVENIRE 13.2.2025

 

«Dalla mafia ci si dimette solo con la morte», diceva il giudice Rosario Livatino, ucciso dalla “stidda” il 21 settembre 1990. Lui parlava e praticava la misericordia anche nei confronti dei criminali, ma conosceva bene la realtà mafiosa e la affrontava con efficacia, tanto da risultare un nemico da abbattere.
Dopo 35 anni il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, ha fatto un’affermazione uguale. «Da “Cosa nostra” si esce in due modi: o collaborando con la giustizia o con il fine vita. Altrimenti in “Cosa nostra” si rimane».
Lo ha detto commentando ieri il maxi blitz antimafia che ha portato all’arresto di 181 persone. Nulla è cambiato in un quarto di secolo. Ma non ci sono solo i vecchi capi irriducibili, anche dopo decenni in carcere.
«Nell’indagine sono coinvolti moltissimi giovani – ha denunciato il procuratore – e su questi dobbiamo essere particolarmente attenti. “Cosa nostra” continua a esercitare il suo fascino in certi ambienti come le borgate in cui i giovani hanno alternative di vita limitate e si identificano in rappresentazioni di potenza di cui ancora gode la mafia».
Lo confermano i dati dell’ultimo questionario distribuito lo scorso anno nelle scuole dal Centro studi Pio La Torre. Alla domanda “Lo Stato può battere la mafia?” il 49% dei ragazzi ha risposto “no” e solo il 20% “sì”. Una sfiducia confermata dall’altra domanda, “Tra lo Stato e la mafia chi è più forte?”. Solo il 16% ha risposto “lo Stato”, mentre il 40% “la mafia” e il 26% “entrambi”. E allora ha proprio ragione il procuratore quando afferma che «la lotta alla mafia si fa soprattutto con due strumenti: lo sviluppo della cultura e quello dell’economia. Strumenti che depotenziano gli spazi dove i mafiosi vivono e crescono».
Operazioni importanti come quella di ieri, per numeri e per vastità degli affari mafiosi colpiti, dimostrano che magistratura e forze dell’ordine non sono distratte, non mollano la presa, non pensano di aver già vinto. Interventi efficaci ma che, come ci disse anni fa un alto ufficiale dei carabinieri in prima linea, «creano vuoti, poi tocca ad altri riempirli».
Invece, lo ha denunciato con forza il procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo, giustamente presente ieri accanto ai colleghi palermitani, «la questione mafiosa sembra essere ai margini del dibattito pubblico, mentre la questione va collocata al centro, nell’insieme delle politiche pubbliche». Così come si parla poco o nulla di droga, proprio mentre “cosa nostra” è tornata a fare affari con le sostanze stupefacenti, alleandosi con la ‘ndrangheta.
Mafia che torna ai vecchi affari ma è capace di usare canali innovativi.
Come emerso anche nell’operazione di ieri, nella quale si parla a lungo dell’affare sull’azzardo, scommesse online soprattutto, tema che le istituzioni trattano solo come “mucca da mungere”, trascurando i miliardi che incassano i clan e i disastri provocati a persone e famiglie. “Cosa nostra”, dimostra di essere ancora capace di condizionare territori, economia e politica. Così ecco il ritorno dei comuni siciliani sciolti per infiltrazione mafiosa e i non pochi amministratori locali finiti sotto inchiesta.
Mentre sono ancora pochi gli imprenditori che denunciano il “pizzo”: in due anni di indagini sono state scoperte 50 tra estorsioni consumate e tentate, ma solo in pochi casi attraverso le denunce. Non per paura, ma per convenienza, come ha ripetuto nuovamente AddioPizzo.
E allora il lavoro dei magistrati palermitani diventa ancora più prezioso e meritevole. Non vanno lasciati da soli, potenziando la procura che manca di ben 14 magistrati ed evitando attacchi e polemiche che delegittimano e fanno solo un favore ai clan mafiosi.


 

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