“La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.”
Così Paolo Borsellino in una delle sue ultime interviste da considerarsi quasi un lascito morale, un testamento prezioso di cui siamo tutti eredi, soprattutto noi giovani.
Parlare di mafia non è mai semplice, mai scontato; specie se si prova a farlo con Fabio Trizzino, avvocato dei figli del magistrato palermitano ucciso in via D’Amelio più di trent’anni fa. Trizzino dal 1992 segue l’iter processuale, con i suoi balzi in avanti e le sue battute d’arresto, i suoi colpi di scena e le inevitabili ritrattazioni. Da sempre a fianco della famiglia Borsellino, l’avvocato ha fatto di questa non solo una battaglia professionale individuale, ma collettiva e culturale.
Al termine del convegno “Mafia e Legalità” tenutosi lo scorso venerdì, di cui è stato indiscusso protagonista, abbiamo avuto il piacere e l’onore di porgergli alcune domande. Molte altre avremmo voluto farne perché di legalità il dire è sempre troppo corto.
Ci auguriamo che il monito di Borsellino continui a valere, che tutti noi continuiamo a sentire la bellezza del profumo della libertà perché il puzzo del compromesso e dell’accettazione passiva sarebbe inaccettabile. Il profumo della libertà è tanto più fresco quanto più coltivato in seno alle istituzioni. Questo ci è sembrato il senso dell’incontro in Auditorium, il senso del nostro vivere civile che speriamo possa animare sempre la nostra vita, il nostro agire.
Le stragi di Capaci e via D’Amelio, hanno avuto un’ampia risonanza e sono diventate il simbolo della brutalità mafiosa. Da quel momento le sembra che molte cose siano cambiate o che invece molte siano rimaste immutate?
È cambiato molto, obiettivamente. Quello è stato il momento, con l’appendice delle stragi in continente del ‘93, in cui la mafia, avendo deciso di affrontare lo Stato in maniera così dura e diretta, ha raggiunto l’acme; ma è stato anche l’inizio della sua fine, perché lo Stato ha reagito, mettendo in atto delle misure assolutamente mirate nell’azione di contrasto. Faccio l’esempio del 41 bis, introdotto subito dopo la strage in via D’Amelio: si tratta del carcere per i detenuti per mafia e impedisce qualsiasi interlocuzione con l’esterno. Quelle stragi hanno anche innescato un ripensamento all’interno dell’organizzazione stessa: alcuni soggetti, che poi hanno intrapreso la strada nella collaborazione, non si riconoscevano più in questa modalità d’azione, così prepotente, così terroristica, così eversiva; dunque, non riconoscendosi più in quel tipo di associazione, in quei “valori” che da sempre erano ritenuti l’asse portante della mafia, hanno deciso di recedere dal contesto associativo e di iniziare la collaborazione con lo Stato. Mi viene in mente il caso di Spatuzza, uno degli autori della strage di via dei Georgofili; l’uccisione della piccola Nencioni è stato per lui un momento di grandissima crisi, che l’ha portato a pentirsi nel 2008 e a collaborare con lo Stato. Quindi, in definitiva ragazzi, qualcosa è cambiato: lo stato ha strutture, strumenti, norme per poter agire. Inoltre, essendo proseguita un’azione repressiva seria da parte dello Stato, il gruppo corleonese è stato totalmente scompaginato, Riina e tutti gli altri sono morti in carcere. Non esiste più, oggi, sul territorio siciliano la mafia corleonese.
Ha sentito più la vicinanza della gente comune o delle istituzioni?
Ad essere sincero, la gente comune non ci ha mai lasciato soli, mai. In questi trentatré anni, le persone sono state il motore che ci ha spinto ad andare avanti, e lo sono ancora. Come vi ho detto nel corso del nostro incontro, io evito il più possibile incontri istituzionali, ma, quando mi chiamano per parlare con i ragazzi, cerco sempre di ritagliarmi lo spazio per potermi confrontare direttamente con voi. Voi siete il futuro, siete la nostra speranza.
Lei crede sia stata necessaria una strage di questa portata per poter agire?
Sì, purtroppo. La mia generazione e quella prima della mia sono state pigre, male informate. Abbiamo vissuto sotto l’asfissia di questa presenza, che noi sentivamo, ma di cui non bisognava parlare. Le cose sono iniziate a cambiare nel momento in cui Riina ha deciso di oltrepassare un limite. Infatti, le modalità utilizzate avrebbero potuto colpire anche degli innocenti; solo il caso ha voluto che in realtà, sia nella strage di Capaci che in quella di via D’Amelio, morissero solo gli obiettivi disegnati – comprendendo poi anche gli angeli custodi sia di Falcone che di Borsellino. Ma vi posso assicurare, io che ho visto sia il teatro di Capaci che quello in via D’Amelio, che lo scenario era come quello che oggi voi vedete da Gaza o dall’Ucraina – uno scenario di guerra. Questo ha effettivamente indotto l’opinione pubblica a reagire, che cominciava a svegliarsi già da qualche anno: c’erano state delle iniziative politiche che avevano finalmente dimostrato di non accettare più passivamente quell’asfissia. Dunque, un inizio di sensibilizzazione della società civile e le modalità eclatanti, stragiste e terroristiche dell’azione, che esprimevano una volontà di potenza apparentemente inarrestabile, hanno costituito la classica goccia che fa traboccare il vaso di anni di sofferenza repressa, da parte della società civile rispetto a un fenomeno che in Sicilia si respirava fin dalla nascita.
Silvis, nel suo saggio Capire la mafia, parla di quest’ultima come un fenomeno sociale e culturale: si parla di mafia, come nome comune, per indicare una mentalità, un atteggiamento, un modo di relazionarsi agli altri. Si trova d’accordo con questa definizione?
È una definizione che è servita a una certa intellighenzia, soprattutto all’inizio del secolo scorso, per minimizzare e sottovalutare l’impatto del fenomeno criminoso, giacché è indubbia la natura criminosa della mafia. Questo ci porta, dunque, all’origine del fenomeno, in quanto non dobbiamo dimenticarci che già sotto i Borbone – e poi soprattutto immediatamente dopo l’Unità d’Italia – i mafiosi hanno costituito un elemento importante per il mantenimento dell’ordine pubblico. Vi è una relazione di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti del 1876 sulle condizioni politiche e amministrative, nella quale i due membri della commissione parlamentare hanno definito il quadro di questi facinorosi privati che svolgevano una funzione di mantenimento dell’ordine pubblico. Quindi c’è stato da sempre un tentativo di cooptare questi facinorosi utilizzandoli come stabilizzatori del potere costituito. Atteso i livelli enormi di compromissione sotto questo profilo, è chiaro che ci si è rifugiati dietro queste categorie antropologiche, come ad esempio il P3, che è stato un ampio sostenitore della mafiosità come un elemento del nostro carattere più che come un fenomeno criminale. Era una volontà di mimetizzazione dato il generale livello della compromissione, per cui bisognava in qualche modo nascondere gli aspetti strettamente criminali.
Dov’è la mafia oggi?
Il termine mafia può essere omnicomprensivo, e, come tutti i termini omnicomprensivi può dire tutto e niente. Io tenderei sostanzialmente a distinguere la mafia come fenomeno storico – quindi un’associazione con dei codici e dei disvalori che ha avuto con Riina una svolta dittatoriale – dalla mafia col significato di organizzazione criminale. Ma guardate che la punciuta, il santino – una volta patrimonio fondativo dell’inserzione di un elemento all’interno dell’associazione – oggi sono diventati il simulacro di qualcosa a cui non credono più neanche loro, e questo emerge dalle intercettazioni che fanno attualmente. Secondo me, il grande successo di quel sacrificio sta nel fatto che la mafia oggi sta declinando in forme di criminalità più comune che non organizzata, in quanto l’organizzazione non è soltanto nella realizzazione dei reati, quanto più il richiamo, il rinvio dei codici, che oggi le nuove generazioni non sono più in grado di perseguire.
Ho sentito tanto parlare di mafia nel corso degli anni, ma tutti me l’hanno raccontata come qualcosa di grande e terribile, autrice crudele di stragi disumane e spaventose; affrontata però a spada tratta da magistrati coraggiosi, impavidi persino di fronte alla morte. Crescendo mi sono resa conto che è molto più di questo, un filo sottile che si nasconde tra le pieghe della nostra società. Eppure percepisco un’innaturale serenità e a tratti disinteresse nei confronti di questo argomento, come se non fosse più sentita come emergenza nazionale – immagino sia perché agire fuori dai riflettori è la sua principale strategia. Come possiamo far fronte a questa problematica?
Tutti, ormai, abbiamo coscienza che il dottor Borsellino ha svolto la propria professione di magistrato all’interno di una cornice di vera e propria guerra civile in cui sono caduti magistrati, esponenti delle forze dell’ordine, politici, imprenditori, funzionari della pubblica amministrazione, sindacalisti, giornalisti, sacerdoti, attivisti politici e comuni cittadini. Tutti accomunati da un sano spirito di ribellione di fronte alla sopraffazione della criminalità organizzata e dei colletti bianchi che da sempre l’hanno supportata. Quella fase da guerra civile è finita e lo Stato ha vinto. La cosa nostra corleonese stragista è stata sconfitta, ma non è morta, ha solo cambiato strategia, come spesso ha fatto lungo la sua lunga storia. La vera novità è che oggi la società civile ha ben altra consapevolezza di tali complessi fenomeni. In questo le scuole hanno avuto e continueranno ad avere un ruolo fondamentale di progresso storico e civile su come meglio fronteggiare certe dinamiche sociali che in alcuni contesti potrebbero favorire il rigurgito di fenomeni criminali importanti. Ciò detto, mi piace pensare che la sommersione sia, in fondo, una scelta necessaria dettata dalla repressione statuale e dalla capacità di reazione della società civile, non più disposta ad accettare e vivere momenti come quelli del passato tragico di cui ci stiamo occupando.
Alla luce di queste riflessioni, che futuro stiamo costruendo, secondo lei?
Il dott. Borsellino nutriva un’enorme speranza nelle future generazioni. Ho sempre pensato che a reggere i suoi sforzi vi fosse il senso di una prospettiva alta di un cambiamento in meglio della nostra società civile.Questo devo dire che in molte realtà già accade, e quindi, ancora una volta non bisogna generalizzare e guardare ad ogni singola realtà con metodo e capacità di analisi specifica. Non bisogna mai abbandonarsi al pessimismo, ma tutti abbiamo il dovere di coltivare la speranza di una sconfitta definitiva della criminalità organizzata. Sul piano culturale e della consapevolezza della pericolosità del fenomeno sono stati fatti passi in avanti di fondamentale importanza. Ecco mi piacerebbe che ci si concentrasse di più su questi aspetti di progresso storico e civile, e guardare avanti con entusiasmo, pur nella consapevolezza che vi è tanto da fare. È questo, in conclusione, il messaggio fondamentale e la vera eredità morale che ci hanno lasciato tutte le vittime innocenti delle mafie, ed in particolare, Falcone e Borsellino: stare sempre accanto alle Istituzioni, la cui sacralità si fonda anche sul sacrificio di quelle vite violentemente spezzate. In fondo, a pensarci bene, sacralità e sacrificio hanno la stessa radice semantica.
Alessandra Masciantonio.
Polo liceale Mattioli di Vasto
MAFIA e LEGALITÀ: la testimonianza di Fabio Trizzino al Liceo Mattioli di Vasto