Salvo D’Acquisto, medaglia d’oro al valor militare, eroe e martire cristiano

 
 
 

Eppure in quello strano periodo, nel quale tutta la macchina bellica italiana si sfasciò, prima ancora che il paese potesse riprendersi dal collasso, in assenza di ordini e di capi, i carabinieri seppero trovare nelle loro qualità di fondo le forze che permisero a un giovane vicebrigadiere come Salvo D’Acquisto di assumere il ruolo gigantesco e pur umile di un martire cristiano. Per capire meglio la vicenda di quel ragazzo bisogna ricostruire l’episodio accaduto il 23 settembre a Palidoro, una località sulla costa tirrenica a pochi chilometri da Roma. I tedeschi avevano occupato la zona e un loro reparto, verso sera, dopo una gran cena e molte bottiglie di vino, sfondò la porta della casermetta deserta della guardia di finanza, che era in un’antica torre saracena sulla riva dei mare.

Quel che accadde non si sa bene: ma pare che i tedeschi, nel rovistare dentro una cassa piena di stracci, di vecchie divise e di coperte da casermaggio, avessero fatto esplodere una bomba a mano: un morto e due feriti gravi. Nella zona nemmeno un partigiano ma soltanto pochissima gente preoccupata, che viveva tra un bombardamento e l’altro. Ogni tentativo di spiegazione fu impossibile: la compagnia che presidiava la zona era delle SS, e questo spiega molte cose. I nazisti prelevarono 22 ostaggitra la popolazione della borgata, assolutamente presi a caso: capitarono nella retata perfino un venditore ambulante e un commerciante di Santa Marinella che passavano in quel momento sull’Aurelia. Poi – e qui il ragionamento si fa ancora più tortuoso – andarono in cerca del «carabiniere più elevato in grado». A Palidoro non c’era stazione, il comando più vicino era a Torre in Pietra. Partì una camionetta e ritornò con Salvo D’Acquisto, vicebrigadiere in sottordine, appunto il più elevato in grado perché il maresciallo era assente.

Al sottufficiale venne detto di individuare tra i prigionieri l’autore dell’attentato nella torre. D’Acquisto dimostrò che nessuno poteva essere responsabile dell’accaduto. Lo presero a pugni e a calci: non servì a niente. D’Acquisto aveva soltanto 23 anni, ma già una personalità decisa, anche se «prima» appariva perfino timido e incolore.
«Se il colpevole non salta fuori, morirete tutti», urlò l’ufficiale tedesco e li fece salire su di un camion che li portò ai piedi della torre di Palidoro. Sulla sabbia erano già piantate, rigorosamente in fila, cinque vanghe di modello militare; dietro di esse un drappello di SS coi mitra imbracciati.

Il senso tragico della crudeltà tedesca esigeva (almeno a pochissimi giorni di distanza dall’8 settembre) un alibi grottesco: l’ufficiale passò davanti agli ostaggi allineati e a ciascuno domandò se era l’autore dell’attentato. Ottenne evidentemente una serie di «no» terrorizzati. Dopo quest’ultima parodia di processo, il tenente nazista tracciò una lunga riga sulla sabbia col frustino e disse: «Va bene. Scavatevi la fossa».

Il lavoro durò quel tanto da far maturare nella coscienza di Salvo D’Acquisto la sua decisione. Fece chiamare l’ufficiale e barattò la sua vitacontro quella dei ventidue «borghesi» innocenti come lui: si proclamò autore dell’attentato e unico responsabile di tutto. Una lunga raffica di mitragliatore, un corpo che cade stroncato nella fossa già aperta, un maresciallo che si china e che spara ancora un colpo su quel viso giovane, tre soldati che spingono un po’ di sabbia sul cadavere. Questo è tutto.

L’eroismo è già il superlativo dei coraggio: quindi è cosa assoluta nella quale non è possibile stabilire gerarchie e differenze. Semmai, in diversi episodi eroici, possiamo ricercare, se c’è, un «tema» centrale.

Ecco perché accostiamo alla morte di D’Acquisto la fine gloriosa dei tre carabinieri di Fiesole: Alberto La Rocca, Vittorio Marandola e Fulvio Sbarretti.

Essi erano iscritti al fronte clandestino di Firenze, ma ancora in servizio nella loro casermetta, di dove svolgevano un prezioso lavoro. I tedeschi li scoprirono e si disposero a catturarli. I tre militari in qualche modo lo vennero a sapere: sotterrarono le armi e si rifugiarono in certe grotte sulle colline. Questo accadde la sera dell’11 agosto del 1944. Il giorno dopo un ragazzo li raggiunse nel nascondiglio e raccontò come i tedeschi, esasperati per aver mancato l’obiettivo, avessero preso dieci ostaggi tra i «borghesi» e che li avrebbero fucilati al tramonto se i carabinieri non fossero stati ritrovati.

Da quel momento, anzi dal momento in cui i carabinieri s’incamminarono verso Fiesole, tutti e tre in silenzio, tutti e tre senza esitazioni, essi entrarono nel ristretto numero degli uomini grandi. Potete immaginare quale tentazione di vivere quei giovani abbiano avuto a ognuno dei moltissimi passi che li conducevano verso il plotone d’esecuzione, e che tuttavia muovevano, uno dopo l’altro. Arrivarono in tempo alla loro caserma e non dovettero attendere molto. Furono rinchiusi nello scantinato di un albergo e dopo trenta minuti fatti uscire all’aperto, insieme. Li fucilarono (o meglio li mitragliarono) appena si trovò un terrapieno dove far finire le pallottole non intercettate dai loro corpi.

I due episodi hanno in comune l’esasperazione di un patto di lealtà tra carabinieri e innocenti: un concetto che si avvicina moltissimo a quello del «prossimo», nel significato che aveva quasi due millenni or sono nella più affettuosa predicazione d’amore universale che sia stata mai fatta.  FRANCO BERTARELLI  (Da “Oggi” L’epopea dei Carabinieri, 1962)


 
Nato a Napoli nel 1920, fucilato a Palidoro (Roma) il 23 settembre 1943, carabiniere, Medaglia d’Oro al valor militare alla memoria.

Come tanti meridionali, si era arruolato nei Carabinieri nel 1939. L’anno successivo, aggregato alla 608a Sezione dell’Aeronautica, era stato trasferito in Africa settentrionale. Era tornato in Italia, nel 1942, per seguire un corso per sottufficiali a Firenze. L’8 settembre 1943 lo colse a Roma, dove con il grado di vicebrigadiere, fu assegnato alla caserma dei carabinieri di Torre in Pietra. In quella località, la sera del 22 settembre, un’esplosione, avvenuta in una vicina caserma abbandonata dalle Guardia di Finanza, uccise due militari tedeschi e ne ferì alcuni altri che vi si erano acquartierati. Alcune bombe a mano, dimenticate dalle “Fiamme gialle” in una cassa, erano esplose quando i tedeschi vi si erano messi a curiosare.
Fu il pretesto per organizzare un rastrellamento e il mattino i tedeschi si presentarono alla Stazione dei carabinieri trascinandovi 22 civili, fermati casualmente nei dintorni: per dare una sembianza di legalità a quello che si proponevano di fare, chiesero la presenza del comandante della Stazione. Il maresciallo non c’era e il vice brigadiere D’Acquisto fu costretto a seguire i tedeschi con i loro prigionieri sino a Palidoro. Dopo un sommario interrogatorio, durante il quale ciascuno professò la propria estraneità al fatto, l’ufficiale che comandava il drappello tedesco ordinò che a tutti i 22 civili fosse data una pala perché si scavassero la fossa. A questo punto il vice brigadiere, compreso che i tedeschi avrebbero ucciso tutti i prigionieri, per salvare 22 innocenti si accusò del preteso attentato. D’Acquisto fu fucilato sul posto. I civili vennero tutti rilasciati. Questa la motivazione della Medaglia d’Oro al VM: “Esempio luminoso d’altruismo, spinto fino alla suprema rinuncia della vita. Sul luogo stesso del supplizio, dove, per barbara rappresaglia, era stato condotto dalle orde naziste, insieme con 22 ostaggi civili del territorio della sua stazione, pure essi innocenti, non esitava a dichiararsi unico responsabile di un presunto attentato contro le forze armate tedesche. Affrontava così – da solo – impavido la morte, imponendosi al rispetto dei suoi stessi carnefici e scrivendo una nuova pagina indelebile di purissimo eroismo nella storia gloriosa dell’Arma”. ANPI