TESTO e VIDEO 🟥 VIA D’AMELIO – DE DONNO e MORI in COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA

 

VIDEO

 

XIX LEGISLATURA Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere
RESOCONTO STENOGRAFICO Seduta n. 79 di Mercoledì 16 aprile 2025
 PRESIDENTE CHIARA COLOSIMO

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche tramite impianto audiovisivo a circuito chiuso nonché via streaming sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di Mario Mori, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo, e di Giuseppe De Donno, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo, nell’ambito del filone di inchiesta sulla strage di via D’Amelio.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’audizione di Mario Mori, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo, e di Giuseppe De Donno, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo, nell’ambito del filone di inchiesta sulla strage di via d’Amelio.
Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell’audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione, e che i lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta dell’audito o dei colleghi. In tal caso, non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
Prima di dare la parola agli auditi, comunico a tutti che, come da intesa raggiunta nell’ufficio di presidenza, nella seduta di oggi procederemo alla sola audizione degli auditi, anche perché consegneranno della documentazione e quindi le domande saranno rivolte in un’altra seduta.
Nel dare direttamente la parola al generale Mori, voglio prima ringraziarlo per la sua cortesia e per la sua disponibilità ad essere qui.

MARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Saluto tutti e ringrazio per l’opportunità che ci viene concessa.
La relazione verterà sulla nostra attività svolta in Sicilia nei confronti dell’organizzazione criminale di cosa nostra. Questo intervento, con l’autorizzazione della Commissione, si articolerà come segue: farò una breve premessa, poi cederei la parola a Giuseppe De Donno, che è colui che materialmente ha fatto le indagini, e poi vorrei concludere io con delle considerazioni su quanto avrà detto il dottor De Donno.

PRESIDENTE. Va bene.

MARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Dati i tempi molto ristretti, noi abbiamo preparato un documento completo che, se la Commissione vuole, possiamo consegnare.

PRESIDENTE. Il regime è libero?

MARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Libero.

PRESIDENTE. Prego, generale.

MARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Ho assunto il comando del gruppo di Palermo il 22 settembre 1986. Non avevo mai svolto servizio in Sicilia. Provenivo da un incarico nello Stato maggiore dell’Arma, mi ero formato sul piano operativo e avevo anche fatto parte del Nucleo speciale di polizia giudiziaria del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. In quel tipo di reparto si era capito che per il contrasto alla criminalità organizzata doveva essere fatta una strategia generale, con linee ben precise di intervento, e quindi nulla veniva lasciato al caso.
  Arrivato a Palermo, mi trovai di fronte a una situazione dove, invece, tutti gli organi di polizia giudiziaria vivevano alla giornata, senza avere delle linee strategiche e operative ben definite. Si puntava al risultato immediato, certamente più facile da ottenere, ma senza alcuna prospettiva in seguito. Ebbi la conferma di questo difetto di impostazione quando dopo pochi mesi – chi è stato a Palermo lo sa – realizzammo un’ottima operazione dei servizi e arrestammo i Madonia, Francesco Madonia con i suoi figli Giuseppe e Nino. Tutti e tre latitanti, tutti e tre poi colpiti da una serie di ergastoli perché responsabili di una serie di omicidi, tra cui quelli cosiddetti «eccellenti», dal consigliere Rocco Chinnici al capitano Basile, al generale dalla Chiesa, al dottor Ninni Cassarà.
Dopo quattro mesi da questa operazione, facendo i conti, eravamo al punto di partenza. Non eravamo riusciti cioè a entrare nel sistema e dovevamo ricominciare da capo. Ci rendemmo conto che il metodo era sbagliato e bisognava colpire nell’essenza cosa nostra.
Individuai quest’essenza non tanto nel pizzo, che provocava introiti molto modesti, tutto sommato, ma nel condizionamento degli appalti lo strumento con cui si poteva attaccare cosa nostra, la quale temeva non tanto la cattura anche di un Madonia, che era comunque vicinissimo a Totò Riina, ma che fossero scoperti i collegamenti esterni tra cosa nostra e il mondo, la società, e soprattutto che venisse attaccato il sistema economico di cosa nostra.
Questo tipo di attacco, tra l’altro, per noi era più agevole, perché normalmente cosa nostra opera in maniera indipendente e senza relazioni con l’esterno, ma nel condizionamento degli appalti per forza di cose doveva rapportarsi con una serie di persone che erano fuori dal suo mondo, quindi era più facile per noi intervenire. Su queste basi decisi di costituire un reparto che non era previsto nell’ordinamento del mio comando, ma lo creai con lo scopo preciso di realizzare questo attacco alle strutture economiche di cosa nostra. Individuai poi non nei vecchi ufficiali, delusi e poco reattivi, ma nei giovani la possibilità di sviluppare questo tipo di reparto. Individuai così in Giuseppe De Donno chi doveva fare questo tipo di indagine.
Lascio quindi la parola a Giuseppe De Donno per quanto riguarda lo sviluppo dell’indagine che poi giornalisticamente prenderà il nome di «Mafia e appalti».

GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Signor presidente, grazie e grazie a tutti i commissari.
Io arrivo a Palermo nel settembre del 1986, dopo il transito dalla Scuola ufficiali carabinieri.
Nel 1987 l’allora colonnello Mori mi chiese di transitare al gruppo Palermo 1, e venni trasferito al Nucleo operativo della compagnia di Bagheria, e l’anno successivo al Nucleo operativo del Reparto operativo del comando carabinieri Palermo 1, alla Sezione omicidi. In questo frangente iniziai la collaborazione col dottor Falcone, perché con lui eravamo già stati una volta in Spagna a seguito dell’arresto di un latitante mafioso, tale Ribaudo Gioacchino, che era considerata una delle persone di fiducia di Michele Greco detto «il Papa».
Con il dottor Falcone poi ho svolto una serie di missioni all’estero. Sono stato con lui in Argentina, in Australia, in Germania, in Messico e in altri Paesi. Il 3 dicembre 1990, quando venne costituito il ROS, io sono transitato al ROS fino al 2001, poi, con un intermezzo di una permanenza in Cile, sono andato al SISDE, l’attuale AISI, quale capo ufficio segreteria del generale Mori.
Nel marzo 1989 il sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, Alberto Di Pisa, aveva in corso un’inchiesta relativa a un comitato di affari volto alla gestione di appalti diretto da politici della Democrazia cristiana, Vito Calogero Ciancimino e Salvo Lima, d’intesa con l’imprenditore tale Francesco Vassallo. Sulla base di queste indagini che io svolsi il magistrato dispose la perquisizione degli uffici del comune di Palermo.
Ero stato destinato al Nucleo operativo di Palermo per mettere in pratica il progetto mirato voluto dal generale Mori di contrastare l’illecito negli appalti pubblici. Perquisizione durante, nella cassaforte del dottor Leoluca Orlando, all’epoca sindaco di Palermo, venne rinvenuta, da lui vistata, una lettera dell’Alto commissario antimafia, il prefetto Riccardo Boccia, regolarmente protocollata, nella quale lo si informava del fatto che dietro alle imprese COSI e SICO – erano due aziende romane, la Cozzani e Silvestri e Silvestri e Cozzani, due raggruppamenti temporanei di impresa – che risultavano aggiudicatarie di appalti per la manutenzione delle strade e degli edifici pubblici della città di Palermo vi era il sospetto della presenza di Vito Calogero Ciancimino.
Interrogato su queste concessioni da lui rilasciate, il sindaco Orlando non fornì alcuna giustificazione e venne in quella sede indagato. Incidentalmente rilevo come l’inchiesta del dottor Di Pisa fosse ampiamente nota a Palermo.
In merito, il dottor Falcone ne tratterà al Consiglio superiore della magistratura il 15 ottobre 1991, quando venne chiamato a difendersi proprio dalle accuse di tenere nei cassetti le carte degli appalti, accuse che gli mosse il sindaco Orlando. In quel contesto, il dottor Falcone così si espresse: «Nonostante la presenza di un sindaco come Orlando, la situazione degli appalti continuava ad essere la stessa e Ciancimino continuava ad imperare sottobanco in queste vicende. Difatti, sono stati arrestati non solo Ciancimino, Pag. 7ma anche Romolo Vaselli e Domenico Vaselli. Vaselli è il factotum a Palermo di Vito Ciancimino per quanto attiene alle attività imprenditoriali. Devo dire che probabilmente Orlando e i suoi amici hanno preso come un inammissibile affronto alla gestione dell’attività amministrativa del comune un mandato di cattura che in realtà si riferiva ad una vicenda che riguardava episodi di corruzione molto seri, molto gravi, riguardanti la gestione del comune di Palermo». Il provvedimento a cui faceva riferimento il dottor Falcone era quello da lui emesso nei confronti di Vito Ciancimino.
Noi arrestiamo due volte Vito Ciancimino e una serie di funzionari, insieme col dottor Falcone. Il 26 maggio 1989, in San Nicola l’Arena, personale della Polizia di Stato arresta due esponenti mafiosi, Salvatore Contorno e Gaetano Grado. All’epoca ai due, facenti parte della fazione perdente nella seconda guerra di mafia, verranno successivamente attribuiti una serie di omicidi verificatisi in quei mesi in danno di appartenenti al gruppo vincente dei corleonesi.
Subito sorsero delle polemiche perché il Contorno, nella sua veste riconosciuta di collaboratore di giustizia, si sarebbe dovuto trovare sotto protezione negli Stati Uniti.
Nei primi giorni del successivo mese di giugno, giunsero a varie autorità palermitane una serie di lettere anonime, giornalisticamente definite le «lettere del Corvo», nelle quali si accusavano i magistrati Giovanni Falcone e Giuseppe Ayala, oltre al dirigente della Polizia di Stato Gianni De Gennaro, di avere organizzato il rientro del Contorno in Sicilia, consentendogli di compiere le sue vendette in cambio di notizie sui latitanti di spicco di cosa nostra.
Le indagini svolte dalla procura della Repubblica di Caltanissetta, sulla base di un prelievo di impronte digitali acquisite senza le previste garanzie procedurali da personale del SISMI, all’epoca servizio segreto militare, attivato dall’Alto commissario antimafia pro tempore prefetto Domenico Sica, attribuirono la responsabilità degli anonimi al dottor Di Pisa, che venne indagato.
La notizia creò un caso di rilevanza nazionale e conseguentemente al magistrato vennero sottratte tutte le indagini che stava svolgendo a Palermo, compresa quella connessa con gli appalti del comune di Palermo. Condannato in primo grado nel 1992, il dottor Di Pisa venne poi assolto per non aver commesso il fatto nel 1993.
In sostanza, però, il caso delle lettere del Corvo determinò la mancata prosecuzione delle indagini sul sindaco Orlando, posto che, per quanto mi è ancora noto a tutt’oggi, da allora l’inchiesta che lo riguardava non ha avuto nessuno sviluppo. Noi non ottenemmo nessun’altra delega né siamo stati capaci di capire quel fascicolo, dopo l’uscita di scena del dottor Di Pisa, dove andò a finire.
Il 13 giugno 1989 venne ucciso a Ventimiglia di Sicilia un indiziato mafioso, La Barbera Barbaro. Le indagini che io condussi dal Nucleo operativo di Bagheria indirizzavano l’inchiesta nell’area di Baucina, altro comune della provincia di Palermo. Emergeva che La Barbera, in contrasto con Giuseppe Pinello, capomafia del luogo, in quanto entrambi interessati dall’illecita gestione degli appalti, erano tutti e due indirizzati alla gestione dei comuni di quella zona.
Apparve chiaro, quindi, che quella famiglia mafiosa, in relazione all’assegnazione degli appalti, condizionava l’attività del professor Giuseppe Giaccone, un docente di biologia marina dell’Università di Catania divenuto sindaco del comune di Baucina.
Il 28 giugno 1989 il dottor Falcone venne nominato procuratore aggiunto della Repubblica a Palermo, dopo una serie di attriti con il dottor Meli sulla modalità di azione del pool antimafia.
Nel successivo mese di agosto 1989 il magistrato incriminò il mafioso catanese Giuseppe Pellegriti e l’estremista di destra Angelo Izzo per le accuse allora rivolte al senatore Giulio Andreotti e a Salvo Lima.
La decisione, tecnicamente obbligata, provocò però le critiche di esponenti politici e giornalistici quali Leoluca Orlando, Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e Nando dalla Chiesa. In particolar modo, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando attribuiva al magistrato la volontà di insabbiare queste indagini e il coinvolgimento dei politici nei delitti eccellenti dell’epoca. Per queste accuse, formulate attraverso un esposto, il 15 ottobre 1991 il dottor Falcone sarà costretto, come abbiamo detto, a difendersi davanti al CSM. Nel frattempo, i contrasti sorti col dottor Giammanco dopo la nomina di quest’ultimo nel giugno 1990 a procuratore della Repubblica di Palermo, indussero il dottor Falcone ad accettare, nel febbraio 1991, la nomina a direttore dell’Ufficio Affari penali al Ministero di giustizia propostagli all’epoca dal Ministro Claudio Martelli.  
L’11 luglio 1989 noi consegnammo al sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, dottor Giuseppe Ayala, il rapporto di denuncia per Giuseppe Pinello + 49, con le accuse di associazione a delinquere di tipo mafioso, turbativa d’asta, estorsioni ed altro. Nello sviluppo delle indagini, emersero i contatti della mafia di Baucina con quella palermitana e nella fattispecie con Cataldo Farinella, imprenditore legato a cosa nostra in diretti rapporti con il senatore Salvo Lima.
Contestualmente, dalle prime intercettazioni telefoniche effettuate, emerse la figura di Angelo Siino, che si connotava immediatamente come uno degli elementi di raccordo tra mafia e imprenditoria, in contatto con ambienti politici ed imprese nazionali e locali.Pag. 10
Il 15 settembre viene ucciso a Baucina l’imprenditore Giuseppe Taibbi.
Il successivo 19 settembre 1989 il sindaco di Baucina Giuseppe Giaccone, temendo per la sua vita, inizia la collaborazione con noi carabinieri, venendo successivamente inteso dal dottor Falcone, a cui spiega i motivi dell’omicidio Taibbi, da lui collegato alla illecita gestione degli appalti pubblici, spiegandone le modalità di gestione a livello regionale.
Risultava la singolare associazione, per lavori di scarsa rilevanza tecnica ed economica, tra la modesta impresa del Taibbi e un colosso nazionale nel settore delle costruzioni, la società romana Tor di Valle di Piero Catti De Gasperi, genero di Alcide De Gasperi.
Giuseppe Giaccone, che, come previsto dalle disposizioni normative dell’epoca, era stato affidato alla protezione dell’Ufficio dell’Alto Commissario per la lotta alla mafia, appena giunto a Roma ritrattò tutte le dichiarazioni fatte agli investigatori palermitani e al dottor Falcone e denunciò, per essere stato costretto a mentire, oltre che me anche il dottor Falcone e il suo avvocato, il senatore Pietro Milio.
Per le accuse formulate noi chiaramente fummo assolti e il dottor Giaccone riceverà una condanna a un anno e sei mesi per calunnia.
Il 6 ottobre 1989 il giudice istruttore di Palermo, dottor Leonardo Guarnotta, nel prosieguo delle indagini autorizza l’intercettazione dell’utenza telefonica intestata al Consorzio CEMPES, acronimo che stava per Collettore emissario della città di Palermo zona est, e del quale facevano parte, oltre alla Tor di Valle, la Fortunato-Federici di Roma e la CISA di Udine. Fra i soci di quest’ultima vi erano gli imprenditori Antonino Buscemi, che troveremo poi dopo, e Cataldo Farinella.
Con questo atto inizia formalmente quella che viene chiamata indagine «Mafia e appalti».
Il 5 giugno 1990, a conclusione di altre indagini da me condotte, coordinate dal dottor Falcone, vennero tratti in arresto Vito Ciancimino, suo genero Loris Ercoli, il costruttore romano Romolo Vaselli, socio occulto del sindaco, ed altri funzionari accusati di associazione a delinquere, abuso d’ufficio, turbativa d’asta per alcuni appalti dell’azienda municipalizzata del comune di Palermo.
Il 19 giugno 1990 il dottor Giammanco diviene procuratore capo della Repubblica di Palermo.
Il 22 maggio 1990, nel corso di un’audizione in Commissione parlamentare antimafia, mentre tutti gli altri magistrati del distretto palermitano rivolgono la loro attenzione alla descrizione delle indagini in corso su cosa nostra, illustrando gli sforzi nella ricerca dei latitanti, il dottor Falcone indirizza specificatamente la sua relazione sulla problematica degli appalti pubblici affermando: «Sono vicende che stanno venendo a maturazione adesso per effetto di indagini che sta conducendo l’Arma dei carabinieri; indagini complesse che richiedono una serie di esami della documentazione contabile estremamente ardui. Abbiamo la conferma di un sistema mafioso che, per quanto concerne i grandi appalti anche nei piccoli centri per tutti gli appalti, ne gestisce in pieno l’esecuzione». Disse ancora: «Possiamo ritenere abbastanza fondato che c’è, almeno nella Sicilia occidentale, una centrale unica di natura sicuramente mafiosa che dirige l’assegnazione degli appalti e soprattutto l’esecuzione degli appalti medesimi con l’inevitabile coinvolgimento delle amministrazioni locali sia a livello burocratico che a livello di alcuni amministratori».
Il 3 dicembre 1990 nasce il Raggruppamento operativo speciale e il generale Antonio Subranni diventa comandante.
Il 20 febbraio 1991 io consegno al dottor Falcone, quale procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo, un’annotazione a firma del colonnello Mario Mori datata 16 febbraio 1991, conosciuta poi come «Mafia e appalti», composta da 877 pagine, 483 allegati e 44 schede relative a persone coinvolte nelle indagini. Il documento costituiva il compendio di tutta l’attività investigativa eseguita su questo settore fino a quel momento. Il magistrato che ne aveva sollecitato il deposito prima del suo incarico al Ministero di grazia e giustizia rimetteva personalmente l’annotazione al procuratore Giammanco.
In precedenza, poiché siamo stati più volte accusati di aver omesso nell’informativa del febbraio 1991 tutta la parte politica che era venuta fuori, parecchie persone che ancora sostengono questo dimenticano che nel quadro di queste indagini io avevo consegnato al dottor Falcone e ai dottori Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, co-assegnatari dell’indagine Mafia e appalti, una serie di annotazioni preliminari, in due delle quali, quelle del 2 luglio e del 5 agosto 1990, si delineavano i rapporti relativi a responsabilità di personalità politiche nazionali e regionali in merito alle quali noi richiedevamo la necessità di svolgere più approfonditi accertamenti. È il motivo per cui nell’informativa del 16 febbraio non sono citate le parti politiche.
Tengo a dire che su questo aspetto specifico, che noi ritenevamo fosse il centro di questa indagine, non riceveremo mai una delega di indagine da parte della procura della Repubblica di Palermo. L’11 marzo il colonnello Mori e io incontriamo il dottor Falcone in preparazione di un intervento a un convegno organizzato dall’Alto Commissario per la lotta alla mafia che si doveva svolgere a Palermo. Il magistrato in questa circostanza chiese al colonnello Mori di andare a incontrare il senatore Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione parlamentare antimafia, a cui aveva accennato le finalità delle nostre Pag. 13indagini per spiegargli genesi, sviluppo e prospettiva dell’inchiesta.
Il 14 marzo, a circa un mese dalla consegna dell’informativa al dottor Giovanni Falcone, questi, intervenuto a un convegno a Castello Utveggio a Palermo sul tema «Infiltrazione della criminalità organizzata negli appalti pubblici», afferma che il condizionamento mafioso negli appalti si realizzava sia al momento della scelta delle imprese che nella fase esecutiva, con caratteristiche totalizzanti, cioè senza escludere nessuna impresa, neanche quelle del continente.
Il magistrato, in una successiva circostanza pubblica, pronuncerà la frase «la mafia è entrata in Borsa», volendo significare che l’organizzazione mafiosa in campo economico era passata da una funzione esclusivamente parassitaria all’assunzione di iniziative anche dirette rapportandosi con il mondo politico e gli ambienti imprenditoriali.
A tale riguardo il dottor Falcone aggiungeva che, viste le dimensioni, le indagini andavano svolte a livello nazionale. Non va dimenticato un dato fondamentale, che nell’informativa del 16 febbraio 1991 noi rassegniamo alla procura di Palermo la prova che la famiglia Buscemi di Passo di Rigano era diventata socia della Calcestruzzi Spa.
La Calcestruzzi Spa era praticamente l’impero Ferruzzi di Raul Gardini. Noi, quindi, troviamo la prova che la mafia corleonese era entrata nel gruppo Ferruzzi. Questo è il motivo per cui il dottor Falcone indica l’entrata in borsa di cosa nostra. Questa affermazione troverà successiva conferma poi nelle dichiarazioni di Angelo Siino, quando l’11 luglio 1997, dopo aver deciso di collaborare, di fronte alla corte d’assise di Caltanissetta, sosterrà che negli anni Ottanta la mafia diventa imprenditrice perché comincia a gestire direttamente l’aggiudicazione degli appalti ad imprese a lei vicine e poi a tappeto Pag. 14comincia a gestire lavori conto terzi, subappalti e praticamente mette il pizzo sul pizzo: lo 0,80 per cento a discapito della tangente politica.
Il 22 marzo il colonnello Mori incontra a Roma il senatore Chiaromonte e nelle linee generali gli descrive l’indagine gestita dal dottor Falcone.
Il 4 aprile 1991 il generale Subranni e il colonnello Mori svolgono un incontro con il procuratore della Repubblica Pietro Giammanco e con i sostituti Lo Forte, Pignatone, Giusto Sciacchitano, assegnatari dell’inchiesta Mafia e Appalti.
Nella circostanza gli ufficiali del ROS sollecitarono iniziative in merito a quell’indagine per la quale, a più di quaranta giorni dal deposito dell’annotazione, non erano state ancora concesse deleghe, mentre alcuni giornali inopinatamente già parlavano del contenuto dell’operazione svolta, ipotizzando divergenze tra la procura e i carabinieri del ROS.
Il 13 aprile nasce il settimo Governo Andreotti con Vincenzo Scotti Ministro dell’interno, Claudio Martelli Ministro della giustizia e Calogero Mannino destinatario per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno.
Il 2 luglio 1991 io consegno alla procura di Palermo una prima annotazione sulle attività della società SIRAP, acronimo che stava per Siciliana incentivazioni reali per attività produttive, ente costituito dalla Regione Siciliana per lo sviluppo economico e industriale dell’isola. Ad iniziare dal successivo 26 luglio la procura di Palermo mi conferirà alcune deleghe di indagine su questa attività. Gli accertamenti produrranno una ulteriore informativa, su cui torneremo tra poco, che noi consegneremo il 5 settembre 1992.
Il 9 luglio 1991 la procura di Palermo, senza preavviso, come sarebbe stata prassi costante, senza quindi preavvisare l’organo di polizia giudiziaria precedente, cioè il ROS, che nella sua Pag. 15annotazione del 16 febbraio aveva evidenziato, come già ricordato, quarantaquattro posizioni ritenute penalmente rilevanti, chiede ed ottiene dal GIP cinque ordinanze di custodia cautelare in carcere per altrettante persone coinvolte nell’indagine Mafia e appalti.
Gli arrestati sono Angelo Siino, indicato come uomo di collegamento e successivamente soprannominato «il Ministro dei lavori pubblici di cosa nostra», gli imprenditori siciliani Alfredo Falletta, Cataldo Farinella e Serafino Morici, oltre al geometra Giuseppe Li Pera, capoarea della Sicilia per l’impresa di costruzione Rizzani De Eccher di Udine. Il successivo maggio 1992 verrà disposto per loro il rinvio a giudizio per 416-bis ed altro. Nella stessa giornata del 9 luglio si svolge un’ulteriore riunione tra gli ufficiali del ROS e i magistrati. Al termine di questa riunione la procura della Repubblica emette addirittura un comunicato stampa nel quale si afferma che nell’incontro sono stati esaminati gli importanti risultati già acquisiti nelle indagini in corso, specie in ordine all’infiltrazione mafiosa nel settore degli appalti, anche al fine di ulteriori iniziative da assumere. Tuttavia, in realtà, i contrasti evidenziati nella precedente riunione del 4 aprile risultavano maggiormente cresciuti.
Noi investigatori dell’Arma, infatti, ritenevamo che sulla base dei dati ottenuti altri soggetti, in particolare alcuni dirigenti delle grandi imprese nazionali, fossero da ritenere coinvolti a pieno titolo nelle vicende connesse al condizionamento illecito degli appalti in Sicilia e quindi, come quelli siciliani, meritevoli di analoghi provvedimenti restrittivi.
Dopo gli arresti del 9 luglio e alla scontata illecita richiesta della difesa degli arrestati, invece di depositare, come è prassi, il testo dell’annotazione del ROS con i relativi omissis per i numerosi aspetti che avrebbero dovuto o potuto avere successivi Pag. 16sviluppi investigativi, la procura di Palermo consegna ai difensori l’intero documento. Quindi, dopo solo cinque giorni tutta Palermo, cosa nostra compresa, sapeva dove eravamo giunti, da dove eravamo partiti, ma soprattutto dove potevamo andare.
Il 12 luglio 1991 la procura di Palermo assume un’altra decisione che noi contrastiamo, ma sulla quale chiaramente non abbiamo nessun potere, perché a firma del dottor Giammanco si smembra l’indagine Mafia e appalti e invia alle procure di Agrigento, Caltanissetta, Marsala e Trapani stralci dell’annotazione del 16 febbraio 1991.
L’iniziativa, oltre a frammentare l’inchiesta suddividendola tra vari uffici giudiziari diversi, ne rifiuta l’impostazione unitaria e quindi sottende già l’evidente intenzione di chiudere il procedimento.
Il 15 gennaio 2021 nel processo intestato a Mario Bo + 2, noto come il famoso depistaggio delle indagini di via d’Amelio relative alle attività compiute dal gruppo Falcone e Borsellino, il teste Antonino Ingroia ha riferito che Paolo Borsellino, a proposito del frazionamento nella annotazione del ROS, riteneva che l’iniziativa della procura di Palermo fosse propedeutica al suo insabbiamento.
Il 18 e il 26 luglio, contestualmente ad alcune notizie giornalistiche che descrivono i contrasti tra noi del ROS e la procura di Palermo, il procuratore Giammanco ci concede alcune deleghe di indagine connesse all’informativa del 16 febbraio. A queste prime indagini, che peraltro non coinvolgono gli aspetti e i personaggi chiave delle indagini, non ne seguiranno altre. Non conosco l’esito dei procedimenti a cui giunsero sulle vicende segnalate le altre procure che furono interessate dalla procura di Palermo.
In quel contesto, tra l’altro, il dottor Giovanni Falcone nel corso di un colloquio con la giornalista Liana Milella, che ne Pag. 17riferirà successivamente in sede processuale, le consegna alcuni appunti relativi alle vicende palermitane. In uno di questi, pubblicato il 24 giugno 1992 sul quotidiano Il Sole 24 Ore, conosciuto come i «Diari di Falcone», il magistrato giudica la decisione della procura di Palermo relativa alla annotazione Mafia e appalti del ROS testualmente dicendo: «È una scelta riduttiva per evitare il coinvolgimento di personaggi politici». Dopo la morte, nel computer del magistrato verrà trovata la seguente nota riferita al procuratore Giammanco: «Ha sollecitato la definizione delle indagini riguardanti la Regione Siciliana al capitano De Donno, assumendo che altrimenti avrebbe perso alcuni finanziamenti. Ovviamente, qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli prevede un’archiviazione e solleciti l’ufficiale De Donno in tale previsione».
L’appunto è del 10 novembre 1990. Il fatto è vero perché il dottor Giammarco me lo chiese personalmente.
A questo punto, per una migliore comprensione, va fatta una piccola digressione relativa ad Angelo Siino. Angelo Siino era titolare di un’impresa, Litomix, a Palermo di cui erano soci occulti Bernardo Brusca, capo del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, e il figlio, l’altro esponente di cosa nostra, Giovanni Brusca. Iscritto a una loggia massonica di Santa Margherita Ligure, già consigliere comunale della Democrazia Cristiana a San Giuseppe Jato, titolare a Palermo di un avviato autosalone e corridore automobilistico a livello nazionale noto con lo pseudonimo «Bronson», Siino era un’espressione emblematica di una parte della borghesia siciliana di quell’epoca. Siino è stato oggetto di un’indagine da me condotta, iniziata nel 1989 e conclusasi in una prima fase con il suo arresto il 9 luglio 1991.
Dopo l’arresto iniziai, formalmente autorizzato, una serie di prese di contatti con il Siino. Accertata la volontà di realizzare Pag. 18un’interlocuzione con noi, il detenuto venne incontrato nel carcere di Carinola dal colonnello Mori e da me il 25 giugno, il 24 agosto e il 18 ottobre 1993, ma pur dichiarandosi pronto a collaborare sul piano confidenziale non si dimostrava disposto a passare a un rapporto di tipo formale, asseritamente per timore di essere ucciso per i danni di natura economica che una simile decisione avrebbe causato all’attività della moglie, titolare di una nota distilleria a Palermo.
Di conseguenza gli incontri ebbero un’interruzione.
Il 10 gennaio 1995 al Policlinico Umberto I di Roma, dove era temporaneamente ricoverato, Siino, su iniziativa del suo difensore, l’avvocato Nicolò Amato, già magistrato e già responsabile del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, svolge un ulteriore colloquio investigativo con me e con il colonnello Mori, senza però determinarsi, anche questa volta, a una collaborazione.
In quella sede, lui, pur senza determinarsi a questa scelta, aggiunse che aveva conosciuto subito, attraverso l’onorevole Lima, il contenuto dell’annotazione, mettendone immediatamente al corrente il geometra Giuseppe Li Pera, capoarea della Rizzani De Eccher in Sicilia. Nei giorni immediatamente successivi al deposito dell’annotazione Mafia e appalti il documento era stato consegnato dal procuratore Giammanco, tramite l’onorevole Mario D’Acquisto, all’onorevole Salvo Lima e da questi a Giuseppe Lipari, commercialista palermitano legato a Salvatore Riina e a Bernardo Provenzano.
Il 24 gennaio 1995, in un successivo colloquio svolto unicamente da me, Siino, che già in precedenza aveva espresso generici dubbi negativi sul comportamento di alcuni magistrati alla procura di Palermo, formulò critiche dirette di corruzione nei confronti del dottor Pietro Giammanco e dei sostituti Pag. 19procuratori Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Ignazio De Francisci.
A fronte della ribadita volontà del Siino di non voler passare a una formale collaborazione, i dati da lui forniti a titolo confidenziale – tutti, peraltro, da valutare alla luce della personalità del soggetto e dei suoi ammessi legami con ambienti e uomini di cosa nostra – non presentavano una adeguata possibilità di sviluppo.
Il 9 luglio 1997 Angelo Siino viene nuovamente arrestato su ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla procura della Repubblica di Palermo, aprendosi – questa volta sì – alla piena collaborazione con i magistrati di quell’ufficio, che delegavano per le indagini personale della Guardia di finanza. Sorpreso per non essere stato in qualche modo coinvolto negli accertamenti su di un soggetto per il quale era solo arrestato e avevamo a lungo investigato con il nostro reparto, per telefono il colonnello Mori segnalò al procuratore della Repubblica di Palermo pro tempore, dottor Gian Carlo Caselli, che poteva mettere a disposizione del suo ufficio un’ampia documentazione al riguardo, oltre che per le attività già svolte, anche alla luce dei contatti confidenziali che erano intercorsi tra il Siino e gli ufficiali del ROS. Il procuratore declinò l’offerta, non volle.
Il 13 ottobre 1997 stranamente il tenente colonnello Mori e io venimmo convocati a Torino dai magistrati della procura della Repubblica di Palermo, dottor Gian Carlo Caselli, Maurizio De Lucia e Michele Prestipino, che ci interrogarono sui rapporti avuti con Angelo Siino, ritenuto dagli inquirenti un collaboratore affidabile. In particolare, vennero a me rivolte formali contestazioni in merito a difformità tra le dichiarazioni del Siino e quanto lui in quel momento aveva affermato circa i nostri contatti.
A fronte del rifiuto espresso dal dottor Caselli di consentirmi una complessiva ricostruzione dei fatti relativi al rapporto con il Siino perché – testualmente, è riportato nel verbale di assunzione di informazioni testimoniali – l’argomento esulava dai temi dell’atto istruttorio, ritenendo di dover tutelare la mia posizione sotto l’aspetto penale, nei giorni successivi rilasciavo sommarie informazioni testimoniali ai magistrati della procura della Repubblica di Caltanissetta competenti, per quanto attivati su aspetti che potevano coinvolgere le responsabilità dei magistrati palermitani. In quella sede, infatti, ricapitolavo tutte le vicende direttamente e indirettamente connesse alle indagini da me svolte sul Siino, comprensive anche di quelle confidenze e delle specifiche accuse verso i magistrati palermitani a suo tempo fattemi da lui, consegnando le bobine di quei colloqui – non tutti – che avevo potuto registrare.
  Gli aspetti della vicenda vennero alla luce in breve tempo, creando una fortissima polemica stampa. In conseguenza delle querele proposte dai magistrati interessati, la procura di Caltanissetta apriva due fascicoli: per calunnia nei miei confronti e di Angelo Siino e per corruzione nei confronti di alcuni magistrati palermitani.
Il 15 marzo 2000 il GIP del tribunale di Caltanissetta, dottoressa Gilda Loforti, con l’ordinanza 210897, archiviò entrambi i procedimenti.
Il 24 luglio 1991 il colonnello Mori incontra nuovamente il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Gerardo Chiaromonte, al quale spiega tutto il disagio creatosi nei confronti della procura della Repubblica di Palermo e le determinazioni assunte dal precedente luglio 1991 riguardo al dossier Mafia e appalti. In quello stesso mese di luglio il dottor Giammanco, con un atto illecito, trasmetteva al Ministro di grazia e giustizia una copia dell’informativa Mafia e appalti, sostenendo che i suoi contenuti, che in quel momento erano coperti da segreto istruttorio, avevano soprattutto una valenza politica piuttosto che una valenza investigativa.
Il 7 agosto 1991 il Ministro Martelli, su consiglio di Giovanni Falcone, senza prenderne visione, restituì gli atti alla procura di Palermo, sottolineando l’esclusiva rilevanza giuridica, che escludeva, quindi, l’esame da parte di un organo non competente come un Ministero. Dell’iniziativa del dottor Giammanco, il Guardasigilli informò, per le valutazioni, il CSM. Non so il CSM che determinazioni assunse nei confronti del procuratore di Palermo.
Il 26 agosto 1991, invece, il dottor Lama, sostituto procuratore della Repubblica di Massa-Carrara, trasmise per competenza a quella di Palermo una parte della sua inchiesta sulle ditte I.M.E.G. e S.A.M., concessionarie dello sfruttamento del 50 per cento dei terreni marmiferi dell’area delle Alpi Apuane. Le due società vengono indicate come riconducibili all’imprenditore siciliano Antonino Buscemi, che le stava gestendo tramite un proprio cognato, il geometra Cimino.
Buscemi, con il fratello Salvatore e un altro imprenditore, Francesco Bonura, tutti noti per connessioni con ambienti mafiosi, era tra i soci di una società operante nel settore edilizio estrattivo posseduta al 50 per cento dalla Calcestruzzi Spa, società che a sua volta aveva Lorenzo Panzavolta come amministratore delegato, inserita nel gruppo Ferruzzi diretto da Raul Gardini.
Il 20 febbraio 1991 viene istituita la Direzione nazionale antimafia (DNA). La creazione del nuovo ufficio, proposta sostenuta dal dottor Falcone, fu molto contrastata, provocando anche uno sciopero dell’Associazione nazionale magistrati, in larga parte contraria a questo progetto. A conclusione di questa attività emergerà una formulazione di quell’ufficio estremamente diversa dal progetto originale del dottor Falcone, il quale alcuni giorni prima di essere ucciso aveva convocato al Ministero sia me che il colonnello Mori per chiederci di poter partecipare, quale polizia giudiziaria, nella struttura della Procura nazionale antimafia.
Ricordo che il colonnello gli disse: «Forse ti siamo più utili se restiamo al ROS». Il dottor Falcone disse: «Voi non avete capito nulla, perché nella Procura nazionale che io dirigerò il Procuratore avrà compiti di indagine, ma soprattutto avrà la possibilità di acquisire i fascicoli delle procure che lui riterrà non essere stati adeguatamente sviluppati». Quindi, sarebbe cambiata completamente la storia investigativa di questo Paese.
Il 30 gennaio 1991 si conclude in Cassazione il maxi maxiprocesso per cosa nostra. In quella circostanza, Salvatore Riina riceve il primo ergastolo. L’11 febbraio 1992 il quotidiano toscano Il Tirrenopubblica un’intervista del dottor Lama, nella quale vengono rivelati i contenuti nella sua inchiesta. Il magistrato, oggetto di un esposto presentato dai legali della società Ferruzzi, è costretto ad astenersi dall’indagine, a cui seguirà un’inchiesta disciplinare proposta dal Ministro Martelli.
Il 26 novembre 1993 il Consiglio superiore della magistratura valuta corretta la condotta del dottor Lama. L’indagine del dottor Lama, trasferita al tribunale di Lucca, quindi a Roma, non avrà più sviluppi pubblicamente noti e ritengo sia stata archiviata. Della documentazione inviata a Palermo dal dottor Lama nel 1991, cioè quando l’indagine Mafia e appalti era in corso e pienamente nota ai magistrati di quella procura, non venne mai data notizia a noi del ROS che, se informati, avremmo facilmente collegato le indagini sulla vicenda delle pregresse connessioni con Antonino Buscemi.
La trattazione di questa documentazione ricevuta da Massa-Carrara fu assegnata a personale della Guardia di finanza e si concluse con una rapida archiviazione.
In una recente intervista, in una inchiesta televisiva della Rai, il dottor Lama ha dichiarato che la procura della Repubblica di Palermo non lo informò dell’esistenza delle indagini del ROS sul condizionamento mafioso negli appalti. La trasmissione di quegli atti dalla procura di Massa-Carrara a quella di Palermo è stata resa nota pubblicamente grazie all’attività del difensore del colonnello Mori, Basilio Milio, il quale dopo numerosi tentativi per trovare supporto alle nostre tesi difensive solamente nel settembre 2020 ha ottenuto l’accesso al fascicolo inviato dal dottor Lama, fino ad allora archiviato alla procura di Palermo.
Il 17 febbraio 1992 a Milano viene arrestato in flagranza Mario Chiesa e comincia formalmente l’indagine «Mani pulite». Il 1° marzo 1992 il dottor Borsellino, capo della procura della Repubblica di Marsala, assume le funzioni di procuratore aggiunto di Palermo. Tra le perplessità generali, il dottor Giammanco non gli attribuisce la delega alle indagini sulla mafia relative alla provincia di Palermo, bensì di Agrigento e Trapani, ciò malgrado il magistrato fosse il naturale erede delle attività del dottor Giovanni Falcone.
Il 12 marzo 1992 viene ucciso l’onorevole Salvo Lima. Giovanni Brusca nella sua successiva collaborazione afferma che Lima era stato ucciso da cosa nostra perché «ci ha preso in giro, promettendoci nei suoi rapporti con l’organizzazione cose che poi non aveva mantenuto».
Nei giorni immediatamente successivi all’omicidio, Giovanni Falcone in più dichiarazioni pubbliche sostenne che l’episodio segnava un significativo mutamento della strategia mafiosa e affermava testualmente «abbiamo tanti segnali che ci fanno temere che possano accadere cose spiacevoli nel prossimo futuro».
Il 4 aprile 1992 ad Agrigento viene ucciso il maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, investigatore interessato alle indagini sugli appalti pubblici e già dipendente del comandante del ROS, generale Subranni.
Gli accertamenti successivi proveranno dirette, ma vane pressioni esercitata da Angelo Siino sul Guazzelli, da lui precedentemente conosciuto, perché intervenisse presso il generale Subranni al fine di alleggerire la posizione dell’inchiesta degli appalti condotta dal ROS.
Anche qui devo riferire – ed è processualmente acquisito – che alcuni giorni prima di morire il maresciallo Guazzelli venne a Palermo a cercarmi. Io quel giorno non ero a Palermo. Lui parlò con un mio sottufficiale e gli disse testualmente: «Avvisa il capitano di stare attento alle indagini, perché lo ammazzano. Appena torna fammi parlare». Io tornai un paio di giorni dopo da Roma, mi fu riferita questa circostanza, ma non ebbi il tempo di incontrare il maresciallo Guazzelli.
Il 25 aprile 1992 si dimette il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
Il 23 maggio 1992 nell’attentato di Capaci muoiono il dottor Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
Il 25 maggio 1992, nel corso dei funerali di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino si intrattiene con il collega Alberto Di Pisa, definendo quella strage una strage «stabilizzante» in quanto più volta a mantenere in piedi un sistema criminale consolidato, aggiunge: «Intendo riaprire le indagini su mafia e appalti». Si veda, a questo proposito, l’audizione del 4 maggio 2021 del dottor Di Pisa nella commissione antimafia regionale siciliana.
I processi conseguenti alla strage di Capaci del 19 maggio 1995 si sono conclusi il 20 maggio 2020, con l’ultima condanna all’ergastolo di Matteo Messina Denaro.
Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sostenute da un imponente complesso investigativo, hanno consentito ai giudici della corte d’assise di Caltanissetta di affermare nella sentenza del 7 aprile 2000 che la causale dell’omicidio del dottor Falcone aveva una finalità preventiva volta a impedire al magistrato di promuovere l’approfondimento delle investigazioni dallo stesso promosse e dirette a individuare l’intreccio esistente tra cosa nostra, alcune frange del Partito Socialista Italiano e il gruppo finanziario Gardini, che aveva come punto di riferimento in Sicilia imprenditori mafiosi, come Antonino Buscemi e suo fratello Salvatore.
Il 25 maggio viene eletto Presidente della Repubblica l’onorevole Scalfaro.
Il 29 maggio, nel corso di una manifestazione pubblica, il Ministro degli interni Vincenzo Scotti afferma che è intenzione sua e del Ministro Claudio Martelli proporre Paolo Borsellino come Procuratore nazionale antimafia. Questa dichiarazione creerà una forte contrarietà nel magistrato, anche per l’ulteriore esposizione ai fini della sicurezza che questa notizia procura.
In quegli stessi giorni del giugno 1992 venne fatto circolare un documento anonimo a Palermo indirizzato, però, a 39 personalità, tra cui il Presidente della Repubblica, i Presidenti di Senato e Camera, il Vicepresidente del CSM, il procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco, il dottor Borsellino e diversi rappresentanti politici delle istituzioni, nonché i direttori di alcune delle più importanti testate giornalistiche. L’anonimo inquadrava gli omicidi del senatore Salvo Lima e del dottor Giovanni Falcone nell’ambito di lotte di potere interne alla Democrazia Cristiana siciliana, facendo riferimento esplicito all’attività dell’onorevole Calogero Mannino, a cui veniva attribuito l’intento volto a scalzare il potentato politico-elettorale vantato in Sicilia dall’onorevole Giulio Andreotti attraverso Salvo Lima.
In tale contesto veniva messa a fuoco la figura di un commercialista palermitano, tale Pietro Di Miceli, professionista che aveva tutelato gli interessi mafiosi di tutti i più importanti procedimenti fallimentari svoltisi innanzi al tribunale di Palermo, anche grazie agli stessi rapporti intessuti con i magistrati di quella sezione fallimentare. Soprattutto, il Di Miceli venne indicato come l’organizzatore di alcuni incontri tra l’allora Ministro Calogero Mannino e Salvatore Riina, finalizzati a realizzare un nuovo patto politico con cosa nostra che sostituisse gli accordi andreottiani.
Secondo questo anonimo, nel corso di questi incontri sarebbero stati raggiunti accordi che facevano determinare l’assassinio dell’onorevole Lima in successione a quello del dottor Falcone.
Il documento conteneva, tra l’altro, un invito a riconsiderare i contenuti dell’annotazione Mafia e appalti del ROS indicata quale strumento per comprendere gli interessi che legavano gli ambienti economici, politici e mafiosi siciliani.
Sul conto del Di Miceli il ROS svolse articolate indagini da luglio 1993 a ottobre 1994, co-delegata dalla procura di Palermo, dottor Croce e dottor Napoli, e da quella di Caltanissetta, dottoressa Boccassini, dottor Petralia e dottor Saieva, che consentirono di accertare la collocazione del commercialista al centro di un complesso circuito relazionale che comprendeva esponenti della magistratura, il procuratore della Repubblica di Palermo Giammanco, il dottor Giuseppe Ayala, uno dei titolari dell’accusa nel maxiprocesso a cosa nostra e il dottor Vittorio Aliquò, procuratore aggiunto di Palermo. Tutto questo fu refertato alla procura di Palermo in numerose informative.
  Tra le persone frequentate da Di Miceli e sospettate di rapporti con ambienti prossimi a cosa nostra, veniva evidenziata la figura di un imprenditore, detto Benedetto «Benny» D’Agostino, rappresentante della SAILEM Spa, società palermitanaPag. 27operante nel settore dei lavori pubblici. D’Agostino sarà indicato dal collaboratore di giustizia Marino Mannoia come vicino all’imprenditore Antonino Buscemi e in contatto con Angelo Siino, fatto salvo che tutto questo emergeva già nell’indagine Mafia e appalti.
  L’inchiesta, nonostante tutti questi elementi, venne archiviata, anche in relazione ai rapporti tra il Di Miceli e Raffaele Ganci, capo della famiglia mafiosa del quartiere palermitano della Noce, su cui riferiranno diversi collaboratori di giustizia e che risulterà il gestore per conto di cosa nostra della latitanza di Salvatore Riina.
Il 19 giugno 1992 il GIP del tribunale di Palermo, dottor Renato Grillo, su richiesta formulata il 1° giugno dal dottor Gioacchino Natoli, archivia la parte dell’inchiesta del dottor Lama della procura di Massa-Carrara relativa ai rapporti tra Antonino Buscemi e il gruppo Ferruzzi. Nella circostanza viene ordinata anche la smagnetizzazione delle bobine delle intercettazioni telefoniche e la distruzione dei brogliacci delle conversazioni relative all’indagine. Su questo aspetto sono in corso indagini della procura della Repubblica di Caltanissetta.
  La procura della Repubblica di Caltanissetta, però, nella sua richiesta di archiviazione del 9 giugno 2003, cosiddetta «Mandanti occulti-bis», a commento di questa decisione del dottor Grillo, afferma testualmente: «La magistratura di Palermo, probabilmente per il limitato bagaglio di conoscenze, non attribuì soverchia importanza alle connessioni tra il Buscemi e il gruppo Ferruzzi». È assolutamente inconcepibile immaginare e scrivere che a giugno 1992 la magistratura palermitana non conoscesse la dimensione imprenditoriale del gruppo Ferruzzi e sottovalutasse la pericolosità criminale dell’indiziato mafioso Antonino Buscemi, che aveva in corso un procedimento per il sequestro dei beni e la cui famiglia d’origine è notoriamente legata a Salvatore Riina.
  All’epoca, infatti, a Palermo non si poteva ignorare che Antonino Buscemi, cointeressato alla Calcestruzzi Spa, appartenente al gruppo Ferruzzi, era anche il fratello di Salvatore Buscemi, quest’ultimo, alleato dei corleonesi, già indicato da Tommaso Buscetta come capo della famiglia di Passo di Rigano. Salvatore Buscemi, coinvolto nel maxi processo a cosa nostra, riceverà una condanna definitiva a otto anni di reclusione.
L’attività dei Buscemi era stata ampiamente indicata nella nostra informativa del febbraio 1991. Sulle attività e le relazioni di Buscemi ha riferito anche Giovanni Brusca, altro collaboratore, che nella seconda fase della sua collaborazione, quella sviluppata a partire dal 1998, le più grandi direzioni distrettuali antimafia d’Italia hanno ritenuto assolutamente attendibile.
L’8 settembre 1998, davanti ai sostituti procuratori della Repubblica di Caltanissetta Antonino Di Matteo e Luca Tescaroli, Brusca, in una dichiarazione fonoregistrata, trascritta in 70 pagine, la maggior parte delle quali coperte da omissis, sosteneva: «Salvatore Riina si accorge che i Buscemi hanno un canale privilegiato, ad esempio, ve l’ho già detto, il giudice Pignatone.
Ho dichiarato che era vicino ai Buscemi e questo canale se lo tenevano chiuso. Salvatore Riina, quando ha scoperto di questo canale, è diventato pazzo. Cioè, dice: come, voi tenete questo canale e non lo dite a noi?». Continua ancora Brusca: «Tanto è vero che più di una volta io vi ho detto che quando spunta… spunta il malloppo mafia e appalti, a un dato punto abbiamo la sensazione che le indagini vengono deviate, buttate su Siino. Uno poteva essere Salamone, cioè il giudice Salamone in quanto, per difendere il fratello, ma l’altro riferimento per coprire Gardini, per coprire il suo gruppo politico, cioè il suo gruppo di amici, era Pignatone».
Alla domanda del dottor Tescaroli: «cioè il canale di fuoriuscita alle notizie concernenti quest’indagine mafia e appalti sarebbe stato veicolato dal dottor Pignatone per il tramite di Buscemi?» Brusca risponde: «e per chi, per me? Questo era il canale e che Salvatore Riina si era incazzato in maniera molto forte».
Il verbale sopracitato è stato reso pubblico solo nel 2020, a seguito delle indagini che abbiamo svolto nel nostro processo, in cui eravamo coinvolti, il processo cosiddetto «trattativa Stato-mafia».

PRESIDENTE. Mi perdoni, la data?

GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. 2020.
È agli atti del nostro processo. Se vuole ne abbiamo copia, presidente.

PRESIDENTE. No, non si era capita la data. Prego.

GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. I Buscemi, in particolare Antonino Buscemi, sono emersi nell’indagine Mafia e appalti anche perché in stretti rapporti economici con il geometra Giuseppe Lipari, considerato l’economo e il consigliere di Bernardo Provenzano. Presso l’ufficio del Lipari, a Palermo, nel corso dei servizi attuati, era stato più volte fotografato e notato Angelo Siino. Quest’ultimo, dal canto suo, risultava in frequenti contatti telefonici con l’ingegner Giovanni Bini, di cui ho detto prima, rappresentante per la Sicilia della Calcestruzzi Spa, società, questa, come già ricordato, che possedeva metà del capitale sociale della FINSAVI, di cui era fondatore e azionista Antonino Buscemi.
Nella successiva richiesta di archiviazione del 13 luglio 1992 relativa all’indagine Mafia e appalti del ROS, a firma dei magistrati Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, con riferimento in particolare ad Antonino Buscemi, si afferma testualmente che il predetto «fratello di Buscemi Salvatore, ritenuto capo mandamento di Passo di Rigano, non è risultato coinvolto in alcuno degli episodi costituenti espressione dell’attività dell’associazione mafiosa sottoposta a indagini né in altri specifici fatti illeciti».
Sempre in merito alla posizione di Buscemi, Angelo Siino, nell’interrogatorio del 5 maggio 1999, ai magistrati di Caltanissetta sottolineò il trattamento, da lui ritenuto mite, che i requirenti della procura di Palermo avevano riservato al Buscemi, il quale nel luglio 1991 non era stato arrestato, benché fosse direttamente coinvolto nella gestione degli appalti pubblici.
Quando, poi, venne arrestato da noi, nel 1993, era stato da poco rimesso in libertà e gli erano stati addirittura restituiti gli immobili in precedenza posti sotto sequestro.
Per completezza espositiva va detto che anche il pentito Salvatore Cancemi, nel 1994, riferirà che in cosa nostra era notorio come il dottor Pignatone fosse nelle mani dell’imprenditore Vincenzo Piazza, uomo d’onore del mandamento di Boccadifalco, Passo di Rigano, di cui Salvatore Buscemi era il capo. Cancemi sosteneva che il Piazza aveva persino donato un appartamento al magistrato.
Gli accertamenti svolti in merito appurarono che l’appartamento era stato venduto nel 1980 alla moglie del dottor Pignatone dalla società immobiliare Raffaello, della quale erano soci gli indiziati mafiosi Vincenzo Piazza, Francesco Bonura, Salvatore Buscemi e il fratello Antonino. La transazione tra la signora Pignatone e l’immobiliarista Raffaello risultò regolare.
Un’altra affermazione di Giovanni Brusca circa l’attenzione che cosa nostra delegava alle indagini sul ROS appare al riguardo molto significativa, cioè quella secondo cui l’organizzazione, una volta acquisita tra febbraio e marzo 1991 la relativa annotazione, si rese conto che non erano stati individuati, secondo Brusca volutamente, i suoi referenti principali nel mondo politico e imprenditoriale, cioè Filippo Salamone e Giuseppe Pignatone, perché tutta l’attenzione degli investigatori era stata dirottata sul Siino.
Ignoro se presso il tribunale di Caltanissetta esista o meno un fascicolo che avrebbe dovuto essere stato aperto nei confronti del dottor Pignatone sulle dichiarazioni di Brusca e di Cancemi.
Resta da sottolineare che, così come nel caso delle indagini della procura di Palermo su Angelo Siino, sviluppate dal 1997, anche la parte dell’inchiesta trasmessa dal dottor Lama corroborava inequivocabilmente le risultanze della nostra informativa del 1991. Anche in questa ulteriore circostanza, invece di attivare il ROS, che aveva condotto le indagini in ambito siciliano, la procura della Repubblica di Palermo preferì interessare un reparto della Guardia di finanza non in possesso del complesso dei dati e dei riferimenti già in precedenza acquisiti e sviluppati da noi carabinieri, che non fummo neppure informati, mai, della documentazione trasmessa dalla procura di Massa-Carrara.
Il 19 giugno 1992 gli ufficiali del ROS, il capitano Del Sole e il capitano Umberto Sinico, informarono per le vie brevi il dottor Borsellino che una fonte, ritenuta molto attendibile, aveva riferito di un prossimo attentato contro la sua persona. Contestualmente il comando del ROS comunicò formalmente la notizia agli organi superiori.
Il 23 giugno 1992 incontro la dottoressa Liliana Ferraro, che aveva assunto la carica di Direttore degli affari penali del Ministro della giustizia dopo la morte del dottor Falcone, e le riferisco del tentativo di contattare Vito Ciancimino per sollecitarne la collaborazione. Il magistrato ne parlerà diffusamente in una serie di interrogatori fatti dalla procura di Palermo.
Il 25 giugno 1992 nella caserma Carini dei carabinieri di Palermo il colonello Mori e io incontriamo il dottor Paolo Borsellino, che ci aveva chiesto un colloquio riservato fuori dal tribunale di Palermo. L’argomento era Mafia e appalti, di cui il magistrato aveva già ottenuto da noi copia, su sua richiesta, mentre era procuratore di Marsala. Il dottor Borsellino, che ne aveva parlato diffusamente con Giovanni Falcone, individuava nel lavoro del ROS, oltre che una possibile causale alla morte del collega, anche un nuovo e più efficace strumento investigativo nei confronti di cosa nostra. Si decideva, quindi, di riprendere le indagini sotto la sua specifica ed esclusiva direzione. Il rilevante interesse del dottor Borsellino nell’indagine Mafia e appalti è dimostrato anche dal fatto che lo stesso 25 giugno 1992 nel tardo pomeriggio, quando lui si recò alla biblioteca comunale di Palermo di Casa Professa, riparlò di questo argomento.
Come già ricordato, il giorno precedente, il 24 giugno 1992, il quotidiano ilSole24Ore, a firma della giornalista Liana Milella, pubblicò una serie di appunti del giudice Falcone, scritti al computer, relativi alle sue valutazioni sulle difficoltà incontrate nell’ultimo periodo di lavoro alla procura di Palermo diretta da Pietro Giammanco, in cui attribuiva anche la precisa intenzione di ostacolare Mafia e appalti.
Nella recente audizione svolta in questa sede del tenente colonnello Carmelo Canale, l’ufficiale ha riferito che, nella circostanza del convegno di Casa Professa, Leoluca Orlando fece pervenire al dottor Borsellino un biglietto nel quale lo pregava di evitare, nell’intervento, riferimenti ai pregressi, anche quelli ricordati, relativi ai contrasti avuti da lui con il dottor Falcone.
 Aggiungo una considerazione a commento dell’ultimo intervento del dottor Borsellino. Il magistrato, nell’evidenziare la sua attività volta ad assemblare le circostanze utili a individuare le cause della strage di Capaci, sostenendo con forza di essere il testimone dell’autenticità degli appunti redatti dall’amico Falcone, formulò indirettamente ma esplicitamente un atto di accusa contro le persone che riteneva corresponsabili di quella morte. Quelle dichiarazioni, a nostro avviso, probabilmente segnarono definitivamente la fine di Paolo Borsellino, perché chi stava seguendo e contrastando la sua attività si sentì inequivocabilmente indicato.
Il 28 giugno 1991, a seguito delle dimissioni del Governo Andreotti, entra in carica quello formato dall’onorevole Giuliano Amato.
Il 28 giugno Paolo Borsellino incontra all’aeroporto di Roma Fiumicino la dottoressa Ferraro, che gli riferisce del contatto da me avuto e del mio tentativo di avvicinare Vito Ciancimino. Il procuratore Borsellino ne prende atto, ma, a detta del magistrato, ne tratterà nelle sue deposizioni senza darne eccessivo peso, mentre chiede una serie di dettagli sull’indagine Mafia e appalti.
Il 29 giugno, in un teso confronto riferito successivamente dalla moglie la signora Agnese Piraino Leto, Paolo Borsellino chiede al procuratore Giammanco perché non lo aveva informato sulle minacce di morte che lo riguardavano e a lui riferite informalmente anche dal Ministro della difesa, onorevole Salvo Andò. In quello stesso giorno, il 29 giugno 1992, come testimoniato dalla moglie, ma anche dal dottor Ingroia, nella sua abitazione Paolo Borsellino incontra il dottor Fabio Salamone, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Agrigento, e gli consiglia di chiedere il trasferimento ad altra sede fuori dalla Sicilia. L’attività illecita nella gestione degli appalti condotta da Filippo Salamone, fratello del magistrato, era stata segnalata dal ROS nella sua annotazione del 16 febbraio 1991. Filippo Salamone, con Antonino Buscemi e l’ingegner Bini, tecnico della Calcestruzzi, dallo sviluppo delle indagini risulterà coordinare un comitato d’affari, indicato anche come «sistema Salamone-Nicolosi» dove per «Nicolosi» si intende l’onorevole Rosario Rino Nicolosi, presidente della Regione Siciliana, che insieme ad altri analoghi comitati presiedeva all’aggiudicazione e alla spartizione degli appalti tra le tre componenti interessate, il cosiddetto «tavolino», dove sedevano per accordarsi imprenditori, amministratori pubblici e mafiosi.
In tale ambito, ad Angelo Siino residuava il compito di gestire gli appalti di dimensioni medio-piccole. In particolare, Filippo Salamone, oltre che garantire gli accordi, era il materiale portatore delle tangenti ai referenti politici tramite il pentito Siino, secondo cui nel periodo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta ricevette mensilmente da Salamone 200 milioni di lire da distribuire a politici di riferimento.
La posizione di rilievo dell’imprenditore Salamone nel sistema del «tavolino» viene anche evidenziata dall’amministratore delegato della Tor di Valle, Pietro Catti De Gasperi, in una conversazione telefonica con un dipendente, l’ingegner Giuseppe Zito, intercettata da noi il 19 dicembre 1989 e riportata nell’informativa del 16 febbraio 1991.
In quella circostanza Filippo Salamone, indicato con la sola lettera «S», viene descritto come «quello che conta di più» e in particolare la persona che poteva fornire garanzie di futuri vantaggi se fosse stato ritirato un ricorso contro l’aggiudicazione di un appalto da 26 miliardi di lire, per il quale la società romana si riteneva illecitamente esclusa. Inizialmente noi – io in particolar modo – individuammo il personaggio importante indicato da Catti De Gasperi con la lettera «S» in Angelo Siino e solo successivamente,Pag. 35alla luce delle indagini svolte sulla società SIRAP, capimmo correttamente che, invece, trattavasi di Filippo Salamone.
Questa conversazione evidenziava, però, che anche il dottor Catti De Gasperi, uno degli imprenditori continentali coinvolto nelle indagini del ROS, non solo era del tutto consapevole del sistema in atto per il condizionamento degli appalti pubblici in Sicilia, ma vi aderiva scientemente per conseguire maggiori utili possibili. Piero Catti De Gasperi sarà uno di quegli indagati per i quali il 13 luglio 1991 i sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiesero l’archiviazione.
Nel periodo che va da maggio a luglio 1992 nei contatti tra Paolo Borsellino e il dottor Di Pietro, che conduceva le prime fasi dell’indagine «Mani pulite», emergeva come anche nelle indagini della procura della Repubblica di Milano risultassero fatti e persone già messe a fuoco a Palermo. I due magistrati decidevano, quindi, di procedere in maniera coordinata.
La successiva, tragica morte del dottor Borsellino e le successive dimissioni dalla magistratura del dottor Di Pietro impediranno la pratica realizzazione di questo progetto, che, a detta del dottor Di Pietro, si fondava sul presupposto di far parlare gli imprenditori. In merito, con diverse dichiarazioni processuali e anche recentemente, nel corso di interventi pubblici, l’ex magistrato dottor Di Pietro ha confermato questa sua intesa con Paolo Borsellino. Nella sua testimonianza del 3 ottobre 2019, resa nel processo d’appello sulla cosiddetta «trattativa Stato-mafia», Antonio Di Pietro, riepilogando i rapporti di quel periodo tra le procure della Repubblica di Milano e Palermo, spiegò l’intesa sulle modalità di coordinamento tra i due uffici, raggiunta non senza contrasti nel corso del mese di giugno 1993, sulla base di una intuizione del dottor Piercamillo Davigo fondata sulle connessioni tra le rispettive inchieste, che potevano essere definite deboli o forti, a seconda dell’eventuale presenza di aspetti di criminalità mafiosa.
In pratica, Milano avrebbe operato a tutto campo sugli imprenditori, quindi a livello nazionale, interessando di volta in volta i requirenti palermitani per gli spunti che fossero eventualmente messi in relazione a problematiche mafiose. L’accordo raggiunto si fondava sulla constatazione, ricavata tra l’altro dall’amministrazione del manager della Calcestruzzi, Panzavolta, il quale aveva dichiarato al dottor Di Pietro che sino al Rubicone, per salvarsi, ammetteva tutto e sotto il Rubicone preferiva la galera, evidenziando il timore diffuso, nell’imprenditoria nazionale, per la variabile della presenza della criminalità mafiosa.
Nella sua deposizione Antonio Di Pietro ricordò anche le ripetute sollecitazioni ricevute da parte mia perché si interessasse all’inchiesta Mafia e appalti. Infatti, proprio in base a questa mia iniziativa, il 12 novembre 1992 il magistrato poté interrogare il geometra Giuseppe Li Pera, in carcere a Roma, venendo a compiuta conoscenza delle relazioni tra mafia, politica e imprenditoria e delle indagini che il ROS aveva condotto al riguardo.
Nel corso del processo di primo grado sulla trattativa Stato-mafia, al termine del quale sono stato condannato a otto anni di reclusione, la richiesta di ascoltare il dottor Di Pietro fatta dalla mia difesa e dal colonnello Mori fu respinta dal presidente della corte d’assise, in quanto ritenuta superflua.
L’intesa tra le procure di Milano e Palermo, a detta del dottor Di Pietro, si ruppe quando i giudici siciliani, accettando la richiesta di patteggiamento, alleggerirono nettamente la posizione di Filippo Salamone, indagato anche a Milano, derubricando in associazione per delinquere semplice l’imputazione all’imprenditore agrigentino che originariamente era per associazione di tipo mafioso. L’inchiesta relativa ad alcune accuse rivolte ad Antonio Di Pietro e trattate per competenza dalla procura della Repubblica di Brescia fu assegnata al sostituto procuratore Fabio Salamone, fratello dell’imprenditore Filippo. Secondo il magistrato di «Mani pulite» costituì una delle cause che lo portarono alla successiva decisione di abbandonare la magistratura.
Appare veramente singolare che a indagare il dottor Di Pietro che procedeva nei confronti di Filippo Salamone, fosse proprio il sostituto procuratore della Repubblica di Brescia, che si era dovuto allontanare dalla Sicilia per le vicende giudiziarie del fratello.
Un altro caso, questo, come l’altro verificatosi in Sicilia con protagonista Giuseppe Pignatone, di incompatibilità ignorata dagli interessati nel silenzio degli uffici sovraordinati ai due magistrati.
Le vicende giudiziarie di Filippo Salamone dopo un secondo arresto per associazione a delinquere mafiosa, effettuato dal ROS il 4 ottobre 1997, si conclusero nel marzo 2000.
In quella circostanza Salamone ricevette una condanna definitiva a un anno e mezzo sulla base dell’asserto, da lui sostenuto e accettato nella sentenza, di avere elargito ai politici una serie di «contributi volontari».
Giova a questo punto accennare, dopo l’imprenditore Filippo Salamone, a un altro protagonista del sistema prima indicato, l’onorevole Rino Nicolosi. L’uomo politico della Democrazia Cristiana resta alla presidenza della Regione Siciliana dal 1° febbraio 1985 al 12 agosto 1991 e successivamente divenne parlamentare nazionale.
Coinvolto nell’indagine sul condizionamento degli appalti pubblici nell’ottobre 1997, l’onorevole Nicolosi, prossimo alla fine – morì, infatti, per tumore nel corso del successivo 1998 – consegnò, di sua iniziativa, ai magistrati della procura della Repubblica di Catania un memoriale nel quale descriveva il meccanismo illecito di finanziamento ai partiti da parte delle imprese destinatarie di appalti pubblici; un sistema che comprendeva tutti i partiti e di cui Rino Nicolosi si autoaccusava di farne parte a pieno titolo, unitamente a diversi maggiorenti politici non solo regionali.
  Nell’intesa descritta dall’onorevole Nicolosi era compreso anche il Partito Comunista Italiano, all’opposizione anche nel Parlamento della Regione Siciliana, a cui in particolare giungevano i contributi tramite la Lega nazionale delle cooperative, cosiddette «cooperative rosse».
L’accordo, secondo l’onorevole Nicolosi, era stato realizzato sulla base di una precisa definizione di regole che attribuivano alle imprese locali il compito di finanziare i componenti di rilievo dei partiti politici siciliani, mentre alle grandi imprese nazionali competeva il compito di versare alle segreterie nazionali.
Il documento, che elencava nominativamente i collettori delle tangenti, più di venti esponenti di rilievo, suddivisi per partiti e per imprese, fu consegnato alla procura della Repubblica di Catania.
Per la DC venivano indicati, tra gli altri, Calogero Mannino, Salvo Lima, Nino Drago; per il PCI Luigi Colajanni e Michele Russo; per il PSI Salvatore Lauricella, Salvo Andò, Nicola Capria; per il PRI Aristide Gunnella ed Enzo Bianco; per il PSDI Carlo Vizzini.
Tra le imprese Nicolosi indicava come a lui legata quella di Filippo Salamone, mentre quella agrigentina di Antonio Vita veniva posta in relazione a Calogero Mannino. In questa ricostruzione l’imprenditore catanese Gaetano Graci aveva come riferimento i politici socialisti Salvatore Lauricella e Salvo Andò, mentre l’azienda dei Costanzo, che si rapportava agli esponenti democristiani, in successione nel tempo aveva fornito un contributo anche ad esponenti socialisti.
L’impresa Mangiapane, attraverso le coop, era la referente del Partito Comunista.
Al sistema di erogazione dei partiti, sempre secondo l’onorevole Nicolosi, si sottraevano esclusivamente i sostenitori siciliani del senatore Andreotti che, tramite l’assessore regionale ai lavori pubblici, Salvatore Sciangula, per il suo specifico incarico, provvedeva direttamente al finanziamento della corrente di appartenenza.
Il memoriale Nicolosi non causò danni di natura penale ai politici indicati. Infatti, soltanto Salvatore Lombardo, deputato regionale del PSI, nel quadro delle inchieste della cosiddetta «Tangentopoli siciliana», fu condannato in primo grado risultando successivamente assolto.
Al riguardo c’è una piccola considerazione da aggiungere. Nel suo memoriale l’onorevole Nicolosi parla del periodo 1989-1991 come un triennio tumultuoso e lo individua come la fase di maggiore espansione dell’intesa illegale causata dalla gestione degli appalti pubblici.
Si tenga conto che proprio in quel periodo – febbraio-marzo 1991 –, seppure illegalmente, politica e cosa nostra apprendono dell’indagine del ROS sugli appalti pubblici. Alla luce delle sofferte confessioni di Nicolosi mi pongo una domanda. Poiché all’epoca erano in corso iniziative praticamente contemporanee del ROS a Palermo e a Catania, la decisione di quei magistrati che non hanno concesso deleghe di indagine sugli aspetti politici e le inchieste, e archiviato la maggior parte delle politiche segnalate, era motivata esclusivamente dalla mancanza di adeguati elementi di conoscenza, ovvero archiviare inizialmente parte del dossier Mafia e appalti, con i suoi aspetti relativi al mondo politico, smembrare l’indagine catanese del dottor Lima, non considerare i contenuti dell’inchiesta del dottor Lama, tutto questo non era un modo di condizionare il processo in altro modo?
La risposta, a mio modo di vedere, si ricava dalle dichiarazioni espresse dal dottor Falcone quando sosteneva che le scelte riduttive assunte dal dottor Giammanco derivavano dall’esigenza di evitare il coinvolgimento di personaggi politici e dalle sollecitazioni ricevute da qualche uomo politico.
Il 30 giugno 1992 e seguenti il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, sentito dal dottor Borsellino, riferisce che Salvatore Riina, attraverso l’imprenditore Antonino Buscemi, venne cointeressato nella Calcestruzzi. Secondo le successive dichiarazioni del pentito Brusca Giovanni, con l’enorme flusso di denaro costituito dall’avvio del processo SIRAP, Salvatore Riina, attraverso la Reale Costruzioni, società di proprietà del suocero di Vito Ciancimino e del citato «Benny» D’Agostino, praticamente fallita, era entrato in maniera occulta come socio di Buscemi nei grandi appalti.
Se il dottore Borsellino avesse avuto il tempo di sfruttare l’indicazione del Messina, mettendola in relazione ai dati dell’inchiesta della procura di Massa-Carrara, avrebbe potuto valutare a pieno i rapporti del costruttore Buscemi e dell’ingegner Gardini.
Elaborando queste acquisizioni poste sulla base delle spiegazioni richieste in una riunione della direzione distrettuale antimafia del 14 luglio, l’inchiesta del ROS sarebbe saldata anche tecnicamente a quella milanese di Mani Pulite assumendo una dimensione nazionale.
Paolo Borsellino non ebbe il tempo di farlo. Altri, a Palermo, pur avendo tutta la possibilità di valutare già in quei momenti la enorme documentazione inviata da Augusto Lama e collegarla all’acquisizione raggiunta dalla nostra informativa, non apprezzarono le potenzialità di questa indagine e si perse un’occasione.
Il 1° luglio 1992 il dottor Borsellino interroga il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, il quale, sebbene informalmente, gli riferisce che un suo collega, il sostituto procuratore Domenico Signorino, titolare dell’accusa al maxiprocesso, e il dirigente del SISDE, Bruno Contrada, sono collusi con la mafia.
Nel corso dell’interrogatorio di Mutolo, il magistrato, su invito del Capo della polizia dell’epoca, Vincenzo Parisi, sospende l’incontro e si reca al Viminale dove quel giorno si teneva una cerimonia per l’insediamento dell’onorevole Nicola Mancino come nuovo Ministro dell’interno.
Nella circostanza il dottor Borsellino incontra anche Bruno Contrada, accompagnato dal prefetto Parisi. Nel breve scambio di convenevoli il funzionario del SISDE dimostra di essere a conoscenza che il magistrato stava interrogando Mutolo, fatto che, unito a quanto poco prima appreso dal collaboratore, lo impressionò profondamente.
Questo è il periodo che costituisce la fase di maggiore impegno professionale del dottor Borsellino al suo rientro alla procura di Palermo.
In questo lasso di tempo che non riesco meglio a precisare, ma orientativamente circoscrivibile dal periodo che va da maggio a fine giugno del 1992, Giovanni Brusca, che era stato precedentemente indicato da Salvatore Riina di preparare l’omicidio di Calogero Mannino, riceve l’ordine di sospendere quelle attività perché vi erano esigenze più immediate. Secondo il collaboratore Brusca, Riina, per una serie di notizie ricevute e valutazioni connesse, riteneva prioritaria l’eliminazione del dottor Borsellino.
Il 2 luglio il dottor Borsellino incontra a Palermo il giornalista del Corriere della Sera, Luca Rossi. In quel colloquio, successivamente riferito in sede processuale, il magistrato parla delle indagini relative agli appalti e gli attribuisce grande importanza.
Il dottor Borsellino – si legge in quell’articolo – pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone e che il trait d’union fosse una questione di appalti in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando.
Sempre il magistrato, a proposito del suo dissenso con la proposta di nomina a Procuratore nazionale, disse: «Se me ne vado da qui, da Palermo, non ho più nessuno che mi faccia da sponda. Qui non è rimasto nessuno. Non ci sono più inchieste, non c’è un lavoro organico. Che cosa posso coordinare da Roma se nessuno fa le indagini in Sicilia?».
Il 13 luglio 1992 i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono al procuratore Pietro Giammanco l’archiviazione per diversi soggetti segnalati nell’inchiesta Mafia e appalti.
Tra le posizioni archiviate risultano anche quelle di Claudio De Eccher, titolare della Rizzani De Eccher di Udine, Piero Catti De Gasperi, responsabile della Tor di Valle, Antonino Buscemi, fondatore della FINSAVI, posseduta per metà dalla Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi, Antonino Spezia, che era il commercialista di Pino Lipari.

PRESIDENTE. Data?

GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. 13 luglio 1992.
L’annotazione del ROS del 16 febbraio 1991 aveva documentato i collegamenti tra tutti questi imprenditori e Angelo Siino. In tempi successivi alcuni magistrati della procura della Repubblica di Palermo sosterranno che le archiviazioni decise in quella circostanza avevano riguardato solamente posizioni residuali. Si è già accennato alla rilevanza mafiosa di Buscemi, ma tengo a evidenziare che intanto la sua dubbia attività imprenditoriale aveva provocato una richiesta di sequestro di beni da parte della procura della Repubblica di Palermo. La notoria posizione rivestita all’interno di cosa nostra dal fratello Salvatore, capo del mandamento di Passo di Rigano-Boccadifalco, era nota alla procura di Roma. I legami da tempo segnalati dal dottor Augusto Lama della procura di Massa alla procura di Palermo erano già stati acquisiti.
Le dichiarazioni del collaboratore Leonardo Messina, da cui emergevano i collegamenti di Salvatore Riina, tramite l’imprenditore, con il gruppo Ferruzzi, erano acquisite.
Questi sono tutti fatti già da tempo noti alla DDA di Palermo prima che i sostituti Lo Forte e Scarpinato chiedessero l’archiviazione della posizione nel quadro di Mafia e appalti.
Il 26 novembre del 2021, nel corso del processo Mario Bo + 2, i magistrati Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, intesi come testimoni a richiesta della parte civile della famiglia Borsellino, hanno affermato di non avere ricordo della documentazione inviata nell’agosto 1991 dal dottor Lama alla procura della Repubblica di Massa-Carrara e a quella di Palermo, documentazione che, evidenziando le connessioni imprenditoriali tra il gruppo Ferruzzi di Raul Gardini e l’indiziato mafioso Antonino Buscemi, avvalorava e avrebbe dato sostegno all’inchiesta del ROS sugli appalti che stavamo trattando.
Risulta arduo ammettere che un procedimento che trattava di un colosso industriale quale il gruppo Ferruzzi, legato a un imprenditore in sospetto di far parte di ambienti mafiosi palermitani qualificanti, passasse per tanti mesi inosservato a due tra i più esperti componenti di quella direzione distrettuale e questo tenuto anche conto del fatto che la circolarità informativa tra i componenti fosse uno dei fondamenti su cui si basava il presupposto istitutivo delle direzioni distrettuali antimafia che, attraverso previste e periodiche riunioni, ottenevano il costante adeguamento conoscitivo da parte di tutti i componenti; indirizzo procedurale, sempre decisamente sostenuto, quale regolare modalità operativa, in particolar modo dai membri della DDA palermitana, che ne sottolineavano anche la funzione ai fini della sicurezza salvo il fatto che, adottando questa modalità, nessuno di loro risultava depositario esclusivo di aspetti sensibili ai fini investigativi.
Il 14 luglio 1992, nella riunione della direzione distrettuale antimafia, il dottor Borsellino chiede notizia dell’inchiesta Mafia e appalti, osservando come una sua specifica indagine non era stata collegata a quella del ROS. Infatti, mentre alla procura della Repubblica di Marsala il magistrato apprese l’annotazione del ROS che coinvolgeva quali elementi Angelo Siino e Rosario Cascio da lui indagati, ma soprattutto Antonino Spezia, chiese di collegare questa indagine ad alcuni appalti connessi al comune di Pantelleria. Chiese ed ottenne da me copia dell’informativa.
Rilevati i significativi collegamenti, aveva inviato per connessione investigativa atti del suo procedimento a Palermo. La documentazione gli era stata restituita dalla procura di Palermo in quanto alcuni suoi colleghi non ravvisavano nessuna utilità per il prosieguo delle indagini. In pratica, la decisione era una conferma dell’indirizzo privilegiato dalla DDA di Palermo secondo cui ogni ufficio giudiziario doveva curare separatamente queste indagini.
Quel 14 luglio le richieste di chiarimento del dottor Borsellino nella riunione ottennero risposte vaghe e nessuno comunque in quella sede, neppure il dottor Lo Forte, alla presenza del procuratore Giammanco, lo informa che il giorno precedente era stata chiesta l’archiviazione.
D’altra parte, per quanto risulta dalle dichiarazioni quasi immediatamente rilasciate dal CSM, che consacravano ricordi sicuramente più nitidi e attendibili di quelli rassegnati in tempi successivi da taluni magistrati anche a questa Commissione, nemmeno nei giorni che precedettero la strage di via D’Amelio qualche collega palermitano, nonostante il manifesto e dichiarato interesse del dottor Borsellino al caso, ritenne di informarlo di questa richiesta di archiviazione.
Anni dopo, e precisamente il 25 maggio 1921, il dottor Ingroia, sentito dalla commissione antimafia della Regione Siciliana a proposito dell’assemblea della DDA di Palermo del 14 luglio 1992, dichiarerà che Paolo Borsellino, al termine della riunione, rivolto ai colleghi Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone così esclamò: «Voi non mi raccontate tutta la vera storia del rapporto del ROS».
Sul punto preme ricordare che nel corso dell’audizione davanti al CSM dei magistrati della procura di Palermo avvenuta nei giorni 28, 29 e 31 luglio 1992 emerse chiaramente come il dottor Borsellino in questa riunione avesse fatto importanti osservazioni sull’indagine Mafia e appalti. In particolare, il dottor Gozzo sottolineò il contrasto più che latente visibile tra alcuni colleghi e il dottor Borsellino.

PRESIDENTE. Siccome c’era un accordo sulla durata dell’audizione, il generale Mori concorda che le sue conclusioni siano rimandate alla seduta che sarà dedicata alle domande dei colleghi.

GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Va bene. Chiedo scusa, però purtroppo se saltiamo alcuni argomenti…

PRESIDENTE. Non salti niente.

GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. In particolare, il dottor Domenico Gozzo sottolineò come il contrasto era più che latente e visibile tra alcuni colleghi e il dottor Borsellino, che chiese di rinviare la riunione per poter affrontare meglio la questione dell’inchiesta del ROS e lamentò che non fosse stata acquisita agli atti la documentazione relativa al procedimento della procura della Repubblica di Marsala.
La dottoressa Antonella Consiglio affermò, invece, che sino al suo arrivo in procura a Palermo aveva avuto la sensazione che le cose funzionassero formalmente in modo ineccepibile, ma che ci fosse una notevole spaccatura fra i sostituti e non vi fosse lealtà di rapporti. Anche il dottor Patronaggio dichiarò che il dottor Borsellino aveva espressamente detto che i carabinieri si aspettavano risultati giudiziari maggiori e che alla domanda postagli se si riferisse alla posizione dei politici disse: «In realtà no, non è solo nei confronti dei politici, ma anche nei confronti degli imprenditori», perché il nodo era valutare a fondo la loro posizione. Su questo punto il collega Lo Forte si dilungò spiegando il delicato meccanismo e la posizione degli imprenditori.
Peraltro, il dottor Patronaggio il 29 novembre 2023, in questa sede, ha tenuto a sottolineare la specificità dei quesiti di chiarimento rivolti al dottor Borsellino e al collega Lo Forte che faceva il punto sull’indagine Mafia e appalti. Un altro magistrato, a distanza di tempo, ha parlato della sua deposizione al CSM: si tratta del dottor Lorenzo Matassa, che era stato assegnato al tribunale di Palermo quale sostituto procuratore della Repubblica nel corso del 1992. Il dottor Matassa, il 23 luglio 2022, ha rilasciato un’intervista al giornalista Morici del periodico La Valle dei Templi sostenendo che nel giugno-luglio 1992 l’ufficio della procura all’epoca era una polveriera pronta a esplodere e che l’autorità del dottor Giammanco si era praticamente dissolta, ma il procuratore godeva ancora del supporto di numerosi colleghi, che per questo motivo venivano chiamati i «nipotini». Alcuni tra i «nipotini» avevano successivamente avuto carriere professionali fulminanti nel quadro dell’antimafia militante. Nella riunione del 14 luglio 1992 il procuratore Giammanco aveva accennato a un nuovo importante pentito, che però voleva parlare solo con il dottor Borsellino. Tale affermazione aveva provocato la reazione di un «nipotino», che replicava chiedendo di non dare seguito a quella richiesta, dicendo testualmente: «Io e te, Pietro, andiamo io e te ad ascoltare questo pentito». Tutti erano rimasti perplessi e Borsellino era rimasto in silenzio.
Il dottor Matassa ha aggiunto che, dopo la strage di via D’Amelio, il dottor Giammanco avevano nuovamente riunito la DDA per chiedere un sostegno legittimante, che era stato prontamente concesso dai «nipotini». Pochi tra i magistrati della procura avevano conosciuto e partecipato alle vicende di Mafia e appalti.
Il documento di contestazione verso il procuratore Giammanco, presentato da otto magistrati il 23 luglio 1992, comprendeva riflessioni e considerazioni che attenevano al rapporto tra mafia e politica e alle regole di ingaggio, che facevano degli uomini dello Stato carne da macello. Aveva concluso la sua deposizione al CSM lasciando a verbale il convincimento dell’inutilità dell’audizione a fronte della percepita volontà di non essere correttamente ascoltato. Attribuiva all’azione del CSM un valore formale ma non volto effettivamente a comprendere la realtà che era nella procura di Palermo.
Il 15 dicembre 2021, nel processo Mario Bo, il dottor Antonio Ingroia, sentito quale teste, ha indicato, oltre agli aggiunti Vittorio Aliquò ed Elio Spallitta, nei sostituti procuratore Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Giusto Sciacchitano i fedelissimi del dottor Pietro Giammanco alla DDA di Palermo.
Per due volte, a distanza di anni, l’avvocato Milio ha chiesto alla procura di Caltanissetta la consultazione degli atti connessi in qualche modo al procedimento «Stato-mafia», ottenendone un diniego. Al terzo tentativo, esperito insieme all’avvocato Romito, mio difensore – siamo ormai nel 2019 – i due legali ottennero la possibilità di consultare l’intera documentazione. Negli atti relativi alla morte del dottor Borsellino rinvennero quelli dell’inchiesta svolta dal CSM a seguito della strage di via D’Amelio, che sino ad allora erano stati segretati. Il CSM li pubblicherà solamente nel corso del 2022. Le audizioni dei magistrati della DDA di Palermo furono la conseguenza di un documento che il 23 luglio 1992 otto componenti dell’ufficio avevano redatto per denunciare le criticità che affliggevano la procura, prospettando le proprie dimissioni, affinché fossero chiare a tutti la gravità delle rimostranze e l’urgenza delle loro preoccupazioni, fondate in particolare sulla sicurezza personale, ma anche rivolta a una gestione più formale dell’ufficio.
  Il 28 luglio 1992 venne ascoltato dal CSM il dottor Roberto Scarpinato, uno degli otto sottoscrittori del documento, e riporto al riguardo testualmente questa parte del suo intervento: «E poi c’è un altro fatto che mi ha molto inquietato e ha molto pesato dentro di me, cioè che Paolo Borsellino conducesse delle indagini su fatti di grande rilevanza all’insaputa del procuratore. Su queste indagini naturalmente non posso dire niente per motivi di ufficio. Sul fatto che Paolo Borsellino raccomandasse il segreto nei confronti di Giammanco potrà essere sentito il sostituto Ingroia, quantomeno non solo sull’esistenza e non tanto sull’esistenza del filone di indagine in sé, ma su alcune informazioni all’interno di quel filone particolarmente importante. Questa cosa io la apprendo dal sostituto Ingroia, poi me la conferma Paolo Borsellino. Io vivo questa cosa dentro di me malissimo, mi inquieta e mi chiedo: cosa sta succedendo a questa procura? Com’è possibile che accadano cose di questo genere?».
  Il 15 luglio 1992 il dottor Tinebra diventa procuratore della Repubblica di Caltanissetta. Il 4 ottobre 1994 il tribunale di Caltanissetta inizierà il processo per la strage di via D’Amelio. Giovanni Tinebra morirà il 6 maggio 2017.
  Il 16 luglio 1992 il dottor Borsellino, unitamente ai colleghi Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli, in un locale della DIA di Roma procede all’interrogatorio di Gaspare Mutolo. Il pentito parla informalmente delle collusioni con cosa nostra di Domenico Signorino e Bruno Contrada, che saranno ufficializzate solamente il successivo 23 ottobre 1992.
  Nella serata del 16 luglio 1992 in Roma si tiene una cena tra il dottor Borsellino, l’onorevole Carlo Vizzini e i magistrati Lo Forte e Natoli. Come testimonierà processualmente l’uomo politico, Paolo Borsellino in quella cena tratta diffusamente del sistema illecito degli appalti, individuando questo come causa della possibile morte di Giovanni Falcone. Anche in questa circostanza non risulta che il dottor Lo Forte accenni alla proposta di archiviazione inoltrata tre giorni prima.
  Il 18 luglio 1992 il dottor Borsellino, rientrato a Palermo, come si ricava dall’esame del carteggio, declassificato su decisione di questa Commissione, lascia traccia nel prelievo del fascicolo dell’imprenditore Luigi Ranieri, ucciso il 14 dicembre 1988, in quanto si era opposto al sistema mafioso per il condizionamento degli appalti. Al magistrato ne aveva parlato Leonardo Messina nelle sue dichiarazioni rese il 1° luglio. L’attività conferma anche la specifica attenzione del magistrato alla problematica e in particolare all’inchiesta del raggruppamento operativo speciale (ROS), che nell’annotazione del 16febbraio 1991, alle pagine 339 e 340, descrive la vicenda dell’omicidio Ranieri, mettendolo in diretta connessione all’assunto complessivo delle indagini.
  Aggiungo una mia considerazione personale. Dal verbale di sequestro dei materiali acquisiti nell’ufficio del dottor Borsellino dopo la sua morte, risulta che la maggior parte dei documenti rinvenuti riguardava un’indagine sugli appalti e personaggi che si ritrovano nella nostra annotazione del 16 febbraio. In sostanza, emergeva un febbrile lavoro di ricostruzione, sintesi e collegamento sulla problematica del condizionamento degli appalti pubblici.
  Il 19 luglio 1992, domenica, intorno alle 7.30 del mattino, secondo la testimonianza della signora Agnese Borsellino, per telefono il procuratore Giammanco informa il marito di avergli conferito delega per le indagini nella provincia di Palermo. Appare del tutto anomala l’urgenza della chiamata fatta dal dottor Giammanco, considerato che all’indomani in procura avrebbe potuto informare il collega della sua decisione, senza disturbarlo nelle prime ore del mattino, per di più in un giorno festivo, e poco prima che lo stesso, come d’abitudine, andasse a messa e poi, sempre in mattinata, si recasse in via D’Amelio a trovare la madre. In quella giornata, tuttavia, il dottor Borsellino cambia programma e si reca dalla madre solo a pranzo. Nel pomeriggio a Palermo, in via D’Amelio, per l’esplosione di un’auto riempita di esplosivo, il magistrato muore e con lui cadono cinque agenti della Polizia di Stato, Agostino Catalano, Walter Cosina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Si salva solo l’agente Antonino Vullo.
  Nel corso delle indagini che hanno dato vita ai procedimenti fin qui tenutisi presso la corte d’assise di Caltanissetta sulla morte di Borsellino, né quei giudici, né il dottor Tinebra, né i suoi successori alla procura della Repubblica, Francesco Messineo, Sergio Lari e Amedeo Bertone, hanno ritenuto che, per completezza delle indagini, fosse necessario sentire formalmente il dottor Giammanco, che muore il 2 dicembre 2018. Non viene mai sentito sulle sue determinazioni assunte circa l’inchiesta Mafia e appalti e sui suoi difficili rapporti con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In particolare, nessun magistrato, anche di altri distretti, a titolo personale, ha voluto fare chiarezza sull’indubbia anomalia di questa telefonata fatta al collega Borsellino il giorno della sua morte.
  Il 19 luglio 1992 il primo magistrato ad arrivare in via D’Amelio è il dottor Napoli, effettivo alla procura distrettuale di Palermo. Il dottor Napoli è uno degli otto firmatari del documento sulla protesta della situazione della procura della Repubblica di Palermo, noto solo il 23 luglio 1992. In un successivo colloquio svoltosi il 31 ottobre 2023, riportato dal ricercatore Vincenzo Ceruso in un suo libro, il magistrato parla delle vicende da lui vissute in quei giorni e, a proposito di Mafia e appalti, il dottor Napoli definisce come risaputo il fatto che il documento fosse di contenuto esplosivo, perché per la prima volta descriveva il meccanismo di condizionamento degli appalti e che tra i colleghi corresse la voce che fosse stato «agghiuniato», termine dialettale siciliano che dovrebbe avere accezione come «accantonato» o «nascosto».
  Subito dopo il dottor Napoli e prima ancora dei colleghi di turno Salvatore Pilato e Luigi Patronaggio, sopraggiunti a distanza di un’ora sul luogo dell’esplosione, arrivarono in via D’Amelio il procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, Guido Lo Forte, Giuseppe Ayala e Gioacchino Natoli. Di certo non era presente il dottor Arnaldo La Barbera, dirigente della squadra mobile, perché fuori sede, non a Palermo. Sono stati, quindi, i requirenti palermitani giunti nell’immediatezza che hanno avuto la possibilità di sovraintendere e dirigere le operazioniPag. 52degli organi di polizia giudiziaria nella fase preliminare dell’acquisizione di elementi di prova rinvenibili sul luogo della strage. Pertanto, ogni atto immediatamente successivo, sino al sopraggiungere, in serata, dei colleghi titolari dell’indagine, è da attribuire alle loro decisioni.
  Se ne deve, quindi, concludere che, pur ammettendo l’indubbia difficoltà psicologica dell’agire in quei drammatici momenti, le loro attività, se non altro, sono state connotate da improvvisazione e sciatteria, così da produrre gravi danni, tuttora riscontrabili, alla storia processuale dell’inchiesta. In tale contesto, infatti, uno degli aspetti che ancora risultano non chiariti è costituito dalla scomparsa di un’agenda del 1992, con copertina rossa, data dall’Arma dei carabinieri al dottor Borsellino in quell’anno, che, unitamente ad altre due agende, portava sempre con sé. A detta delle persone a lui vicine, in quella rossa annotava esclusivamente appunti e considerazioni del tutto riservati e personali, tanto che nessuno, nemmeno i suoi familiari, era in grado di indicarne il contenuto. Quel pomeriggio del 19 luglio 1992 con ogni probabilità, stante il fatto che non avrebbe avuto molto senso portarla a casa della madre, il magistrato la lasciò nella sua borsa, rimasta nell’auto. Se l’avesse portata con sé, sarebbe andata senz’altro incenerita dall’esplosione. In caso contrario e più probabile, l’agenda, per qualche tempo dopo l’esplosione, sarebbe rimasta incustodita nella vettura. La sua sparizione, allora, potrebbe essere avvenuta sul posto della strage, ovvero in altri due luoghi della procura di Palermo, o negli uffici della squadra mobile, che procedeva formalmente per l’attentato, ovvero in quelli della procura della Repubblica di Palermo. In tutti e due i casi, più che di sparizione appare realistico parlare di sottrazione.
  In particolar modo, il dottor Salvatore Pilato, il giorno della strage di via D’Amelio magistrato di turno, avrebbe affermato che, rientrato in sede dopo l’attività svolta sul posto, apprese della presenza dell’agenda rossa nell’ufficio del collega Borsellino. Sorvolo su alcune considerazioni per essere più rapido, presidente.
  Il 22 luglio 1992 il procuratore Giammanco inoltra una richiesta di archiviazione dell’inchiesta «Mafia e appalti» relativa alla maggior parte delle persone indicate nella nostra informativa. Lui e i due sostituti, chiedendone l’archiviazione, nella circostanza trascurano i motivi e l’importanza del problema degli appalti, sottolineato alla Commissione parlamentare antimafia nel giugno 1990 da Giovanni Falcone, ignorano l’attenzione particolare che Paolo Borsellino, nei suoi ultimi mesi di vita, aveva rivolto all’indagine dei carabinieri, sottovalutano la consistenza probatoria dell’annotazione del ROS del 16 febbraio 1991 e non considerano rilevante che alla pagina 335 del documento risultasse che uno dei soci di Antonino Buscemi, Vito Giuseppe Buscemi, classe 1955, peraltro suo parente, disponesse di una abitazione proprio in via D’Amelio, al civico n. 46, praticamente di fronte a quella del dottor Paolo Borsellino, e non collegano l’indagine del ROS con gli atti del dottor Lama, che erano arrivati a Palermo da Massa-Carrara.
Questi aspetti, già di per sé significativi nella drammaticità di questo momento, segnato dalla morte del magistrato più qualificato della procura, che aveva mostrato una particolare attenzione a Mafia e appalti, avrebbero dovuto essere valutati a prescindere. In questi casi, infatti, l’abbiccì di chi sovraintende le indagini per gravi delitti prevede di accertare, in primo luogo, quali siano le più recenti attività svolte dalla vittima e, di conseguenza, individuare con chi si rapportasse negli ultimi giorni di vita, quali intendimenti professionali manifestasse e, infine, di quali documenti e informazioni disponesse in merito a queste problematiche. Tutto ciò, attraverso l’affrettata proposta di archiviazione, è stato colpevolmente disatteso, non avendo neppure attivato il reparto, ossia il ROS, che stava gestendo le indagini nell’interesse del dottore Borsellino.
Il 22 luglio 1992 il colonnello Mori incontra, a Palazzo Chigi, l’avvocata Fernanda Contri, Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e, nel corso di una relazione sulla situazione della sicurezza pubblica con riferimento alla strage di Capaci, accenna al tentativo di convincere Vito Ciancimino a qualche forma di collaborazione. L’avvocato Contri riferirà dei contenuti all’onorevole Giuliano Amato, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il 23 luglio 1992, come già accennato, otto sostituti procuratori della Repubblica di Palermo, Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi, presentano una lettera di dimissioni. L’iniziativa, a cui si aggiungevano altri magistrati, veniva motivata come atto di protesta per stigmatizzare l’azione inefficace degli organi preposti alla tutela della sicurezza pubblica, sottolineare la mancanza di un’accettabile predisposizione di sicurezza nei confronti dei magistrati, sollecitare l’arrivo di personalità autorevoli che valga a ricompattare lo spirito dell’unità della procura di Palermo. Il dottor Giammanco, a seguito di questa iniziativa, con una memoria scritta confuta queste accuse. Nei giorni successivi, dopo una sua audizione al CSM, il magistrato chiede e ottiene il trasferimento alla Corte di cassazione, dove resterà fino al 2 ottobre 1999, data del pensionamento. Il dottor Giammanco muore a Palermo il 2 dicembre 2018.
Il dottor Giammanco, per le accuse di corruzione formulate da più pentiti, è stato coinvolto, unitamente ad altri colleghi, in una specifica inchiesta giudiziaria. Gli accusatori erano Giuseppe Marchese, che gli attribuì il fatto di aver intascato denaro Pag. 55per ammorbidire la posizione degli imputati, Giuseppe Li Pera, che lo indicò quale percettore di denaro, unitamente ai colleghi De Francisci, Lo Forte e Pignatone, per mitigare la posizione di alcune personalità, e Angelo Siino, che lo accusò di aver procurato ad estranei, sempre per denaro, una copia dell’informativa «Mafia e appalti». La posizione del magistrato, così come quelle dei suoi colleghi, verrà archiviata dalla procura della Repubblica di Caltanissetta.
Già un’altra sentenza, il 22 aprile 2006, a Catania, della corte d’assise, terza sezione, nel processo contro gli autori della strage di Capaci, conferma l’interesse del dottor Borsellino alla problematica degli appalti. Sulla base delle dichiarazioni di vari collaboratori, in particolare Antonino Giuffrè, quei giudici affermarono che le ragioni dell’anticipata uccisione del dottor Borsellino si rinvengono nei timori basati su due motivi: la possibilità che venisse ad assumere la Direzione nazionale antimafia e soprattutto la pericolosità che egli avrebbe potuto svolgere indagini in materia di mafia e appalti.
La conduzione dei primi tre procedimenti connessi alla strage di via D’Amelio ripropone le negative considerazioni sulla concretezza degli accertamenti questa volta svolti dai magistrati della procura della Repubblica di Caltanissetta, anche in questo caso, come a Palermo, caratterizzati da superficialità e approssimazione non giustificabili.
Il 30 luglio 1992 la professoressa Maria Falcone, sorella del dottor Giovanni Falcone, intesa dal Consiglio superiore della magistratura, riferisce che Paolo Borsellino, nel corso del giugno 1992, presente nella circostanza anche il dottor Morvillo, magistrato e fratello di Francesca Morvillo, li pregò di evitare richieste pubbliche volte a ottenere una maggiore determinazione sull’indagine per la morte dei loro congiunti perché stava testualmente – scoprendo cose terribili e che avrebbe fatto saltare parecchie cose.
Il 14 agosto 1992 il GIP del tribunale di Palermo, dottor La Commare, determina l’archiviazione di Mafia e appalti, così come richiesto dalla procura. La notizia non viene pubblicizzata sugli organi di stampa, di norma molto attenti a queste vicende.
Al riguardo, preme sottolineare che nella richiesta di archiviazione «Mandanti occulti-bis» della procura di Caltanissetta si sostiene: «Se il programma investigativo di Falcone e Borsellino era indirizzato all’esplorazione del tema dei rapporti tra mafia e appalti, non solo come terreno di individuazione della mafia operativa, ma soprattutto come punto di convergenza tra interessi mafiosi e terzo livello, la scansione degli eventi, che si muovono tra il trasferimento di Giovanni Falcone a Roma, l’utilizzazione riduttiva del rapporto del ROS da parte della procura diretta dal dottor Giammanco, la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, sembra propendere verso la sussistenza di un forte interesse, sia all’interno che all’esterno di cosa nostra, volto a ostacolare l’attuazione di questo programma investigativo e, quindi, a legittimare un movente di tipo stragista».
Rimane il fatto che l’inchiesta relativa alla problematica delle connessioni tra mafia e imprenditoria politica, nella quale emergeva il nuovo atteggiamento assunto da cosa nostra, che da una concezione tradizionalmente parassitaria era passata a una posizione attiva nell’aggiudicazione e nella gestione degli appalti pubblici, venne interrotta per il mancato sostegno che la procura di Palermo offrì a noi investigatori.
A questo punto serve una disamina dell’inchiesta Mafia e appalti svolta a Catania.
Il 30 aprile 1992 giunge al ROS un anonimo nel quale si indica che il geometra della Rizzani De Eccher, Giuseppe Li Pera, in quel periodo detenuto, era in grado di far scoprire gli illeciti su alcuni appalti aggiudicati in provincia di Catania e si chiede di interessare il sostituto procuratore della Repubblica, dottor Felice Lima.
Questo è un punto fondamentale perché ancora oggi il ROS – in particolare io – viene accusato di avere, sostanzialmente, redatto questa lettera anonima per poter migrare il geometra Li Pera dalla procura della Repubblica di Palermo a quella di Catania. Nulla di più falso, per un semplice motivo: se io avessi scritto questo anonimo per sottrarre Li Pera dalla procura di Palermo per quella di Catania non avrei chiesto l’autorizzazione alla procura della Repubblica di Palermo di andare a Catania con Li Pera. Quindi, l’anonimo non l’ho scritto io.
Quando l’anonimo è arrivato noi, prima di andare a parlare con la procura della Repubblica di Catania, abbiamo chiesto l’autorizzazione – e ce n’è copia scritta – alla procura della Repubblica di Palermo, al dottor Lo Forte e al dottor Pignatone.
Il 6 maggio 1992, infatti, la sezione ROS di Palermo informa per iscritto della ricezione dell’anonimo il dottor Lo Forte, che ne prende atto e autorizza tutti gli atti conseguenti con la procura della Repubblica di Catania.
Il 28 maggio 1992 il dottor Lo Forte autorizza, da me chiestogli, il riascolto delle intercettazioni telefoniche depositate per l’inchiesta Mafia e appalti. La richiesta si pone in relazione agli sviluppi dell’indagine SIRAP. Il 1° ottobre 1992 deposito alla procura della Repubblica di Catania l’annotazione denominata «Caronte» connessa agli accertamenti sulle dichiarazioni rese da Giuseppe Li Pera. Nelle sue affermazioni, il geometra Li Pera, premettendo che la sua richiesta, inoltrata dopo l’arresto, di essere sentito dai magistrati della procura della Repubblicadi Palermo era stata respinta, descriveva al dottor Lima e a me le modalità con cui imprenditori, politici e mafiosi condizionavano gli appalti pubblici in Sicilia. Li Pera sosteneva anche di aver ricevuto da Angelo Siino notizie di dettaglio sui contenuti dell’annotazione Mafia e appalti subito dopo il suo deposito in procura a Palermo.
Sulla base di queste indagini, conseguenti al complesso delle dichiarazioni, il dottor Lima richiedeva l’emissione di ventitrè ordinanze di custodia cautelare in carcere, oltre che per turbativa d’asta, per associazione a delinquere semplice, non mafiosa, evidenziando così la sua intenzione di interessare le procure competenti per gli aspetti relativi al 416-bis.
La richiesta venne bloccata dal procuratore della Repubblica capo di Catania, dottor Giuseppe Alicata, che suddivise l’inchiesta in più parti, assegnandola alla procura della Repubblica di Catania per alcuni appalti relativi che, tra l’altro, porteranno all’arresto di Pasquale e Giuseppe Costanzo, figli del cavaliere Carmelo Costanzo; a Palermo, per i complessivi aspetti relativi a cosa nostra; a Caltanissetta, per il segmento riguardante il comportamento dei magistrati Pietro Giammanco, Giuseppe Pignatone, De Francisci e Lo Forte, accusati, sulla base delle affermazioni di Li Pera, di corruzione in atti giudiziari.
Il dottor Alicata, nel frattempo, non delegò il ROS, organismo che aveva proceduto alle indagini, nemmeno all’esecuzione materiale degli arresti competenti del suo ufficio.
A seguito di queste polemiche originate dal contrasto con la procura di Catania, il dottor Lima venne sottoposto a procedimento disciplinare. Il magistrato, per evitare il trasferimento ad altra sede, chiese e ottenne il passaggio al tribunale civile.
Il mio comportamento, ritenuto illecito dalla procura della Repubblica di Palermo, venne esaminato come ipotesi di abuso d’ufficio dalla competente magistratura di Roma. Nella fattispecie,Pag. 59i magistrati palermitani, in relazione alle indagini da me svolte e all’informativa del 16 febbraio 1991, mi accusarono di non aver trasmesso tutte le intercettazioni svolte su loro delega, intercettazioni che, invece, avrei fornito per intero alla procura della Repubblica di Catania, sviluppate nell’indagine Caronte.
Palermo lamentava, inoltre, anche la mancata tempestività della notizia relativa alla collaborazione del geometra Li Pera, ritardo che avrebbe concorso a non far valutare adeguatamente il complesso delle iniziative di propria competenza.
Posto che secondo Li Pera la sua decisione di collaborare con la procura di Catania derivava dal fatto che i magistrati di Palermo si erano rifiutati di sentirlo, costoro non tenevano conto che il geometra della Rizzani de Eccher venne interrogato mentre era detenuto in carcere di massima sicurezza, insieme a molti esponenti mafiosi, e che qualsiasi fuga di notizie nella fase iniziale della sua collaborazione avrebbe causato pericoli per la sua vita.
In ogni caso, fui sottoposto a procedimento disciplinare e la procura generale della Corte di cassazione il 13 dicembre 1994 definì il procedimento relativo al mio comportamento rilevando che non avevo commesso alcun tipo di irregolarità. Indirettamente, con questa decisione, venne respinta la tesi della doppia informativa, sostenuta all’epoca dalla procura di Palermo, che ancora torna. Infatti, con questa denominazione si è tentato e si tenta ancora di dimostrare il comportamento proceduralmente scorretto del ROS nei confronti della procura di Palermo. L’asserto sarebbe dimostrato dall’esame dei contenuti dell’annotazione relativa alla società SIRAP depositata a Palermo il 5 settembre 1992 e di quella denominata «Caronte» relativa agli accertamenti sulle affermazioni di Palermo, consegnata a Catania il 1° ottobre 1992 e posta in relazione con l’informativa del 1991.
La SIRAP – Siciliana incentivazioni reali per l’attività produttiva –, fortemente voluta dall’onorevole Lima, era alla diretta dipendenza della Regione Siciliana.
La società era incaricata di gestire i finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno, ammontanti a quell’epoca a circa mille miliardi di lire, previsti per la realizzazione di venti aree attrezzate. La SIRAP era controllata dall’Ente siciliano per la promozione industriale (ESPI), un istituto della regione, il cui presidente era Francesco Pignatone, padre del sostituto procuratore della Repubblica, Giuseppe Pignatone. Francesco Pignatone, già parlamentare nazionale, era esponente della Democrazia Cristiana, inserito nella corrente dell’onorevole Lima. Giuseppe Pignatone, sostituto procuratore dell’epoca, da me immediatamente informato del fatto che il congiunto era emerso nel corso di alcune intercettazioni telefoniche, ne prese atto, ma non ritenne di doversi astenere dalla trattazione del procedimento.
In merito a questo particolare aspetto, la dottoressa Loforti, GIP del tribunale di Caltanissetta, sempre nella sua ordinanza del 15 marzo 2000, sostenne: «Avuto riguardo, quindi, alla qualità del di lui padre, presidente dell’ESPI, una più attenta valutazione di opportunità avrebbe, forse, potuto suggerire al dottor Pignatone, pur in assenza di un evidente obbligo di astensione tenuto conto che, almeno formalmente, la società oggetto di indagine era diversa dall’ESPI, di evitare di occuparsi delle vicende in questione fin dal momento in cui si trattò di richiedere le autorizzazioni alle intercettazioni telefoniche proprio sulle utenze SIRAP.
Tale rapporto di filiazione può avere obiettivamente ingenerato il convincimento che le strategie processuali, seguite all’epoca dalla procura della Repubblica di Palermo, fossero state, sia pure indirettamente dalla loro valutazione di carattere prettamente tecnico, influenzate dal fatto che il presidente di uno dei due unici soci azionisti della SIRAP fosse, per l’appunto, il padre del dottor Pignatone».
Peraltro, all’epoca il dottor Giuseppe Pignatone avrebbe dovuto anche considerare che nel corso degli anni Ottanta, come già accennato, i componenti della sua famiglia avevano acquistato a Palermo una serie di appartamenti dall’immobiliare Raffaello, società gestita da indiziati mafiosi. Il dottor Pignatone come co-assegnatario dell’indagine Mafia e appalti non poteva ignorare che sia Bonura che Buscemi erano stati segnalati nell’informativa del 16 febbraio 1991.
In relazione alle indagini del ROS trasmesse a Catania, in seguito a separata e successiva acquisizione, la procura della Repubblica di Palermo sviluppò alcune attività sulla «tangentopoli siciliana», dizione con cui vengono coinvolte varie attività. I relativi esiti non causarono danni penali al mondo politico siciliano e modeste conseguenze al mondo imprenditoriale.
Non ho gli elementi per riferire dettagliatamente su questa attività.
I sostenitori della tesi della doppia informativa affermano che l’annotazione del 16 febbraio 1991 consegnata a Giovanni Falcone differiva da quella relativa alla società SIRAP depositata il 5 settembre 1992, in quanto nella prima erano state omesse le intercettazioni con i nomi dei politici, che emergevano, invece, nella seconda. Questa posizione, già propria dei responsabili della procura della Repubblica di Palermo all’epoca, è tuttora sostenuta da alcuni magistrati, quali Vittorio Teresi e Gioacchino Natoli, e da alcuni politici e cronisti giudiziari, in particolare dal senatore Roberto Scarpinato e anche dalla pubblicazione Antimafia Duemila, periodico per iniziati che tratta della lotta alla mafia, pubblicazione diretta da Giorgio Bongiovanni, che gode di ampia considerazione presso alcuni magistrati distintisi nel contrasto a cosa nostra, quali Antonino Di Matteo, Roberto Scarpinato, Giuseppe Lombardo, Luca Tescaroli e Sebastiano Ardita, con cui partecipa a diverse iniziative antimafia, come quella, ad esempio, tenutasi nel maggio 2022 in occasione del triennale della strage di Capaci. Il Bongiovanni è anche detto «uomo delle stigmate», in quanto sostiene di averle ricevute direttamente dalla Madonna nel corso del 1989 durante una visita al santuario di Fatima.
  L’infondatezza della tesi sulla doppia informativa è dimostrata dall’ordinanza del GIP di Caltanissetta, dottoressa Loforti, mai ufficialmente contestata, a mia conoscenza, da nessuno dei protagonisti di queste vicende. A riguardo, la dottoressa afferma testualmente: «Se ne deve dedurre, quindi, che la omessa trasmissione da parte dell’organo di polizia giudiziaria, nel febbraio 1991, di parte delle intercettazioni telefoniche era ben nota ai magistrati dottor Lo Forte e Pignatone, i quali avevano autorizzato e seguito lo sviluppo delle intercettazioni ed erano, inoltre, in possesso, come ufficio, dei brogliacci e delle bobine, sicché erano bene in condizioni sia di leggere i primi che, rilevata l’assenza della trascrizione delle intercettazioni sulle utenze SIRAP, di richiederne l’immediata trascrizione allo stesso organo di polizia giudiziaria, ovvero di disporla loro stessi.
Infatti, dalla documentazione acquisita in esecuzione dell’ordinanza di questo ufficio, è emerso che l’informativa del 20 febbraio 1991 era stata, in realtà, preceduta dalle annotazioni dei carabinieri del 23 aprile 1990, del 2 luglio 1990, del 5 agosto 1990 e del 30 agosto 1990, delle quali le prime due risultano espressamente richiamate nell’informativa del 20 febbraio 1991. Deve, dunque, concludersi che non può ritenersi affatto provata la cosiddetta “teoria della doppia informativa” e che, al contrario di quanto ritiene il dottor Lo Forte» – sono parole testuali del GIP di Caltanissetta – «non può affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati, oggetto del presente procedimento, possono essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalità politiche, i magistrati oggi indagati».
Nel medesimo senso definiva anche, la sentenza, l’insussistenza di una doppia informativa, cui si è espressa la corte d’assise d’appello di Palermo, nel processo relativo alla trattativa Stato-mafia, sostenendo, nelle motivazioni depositate il 5 agosto 2022, che «non è vero o almeno non è provato che già all’epoca dell’informativa Mafia e appalti, depositata il 20 febbraio 1991, ne esistesse una seconda copia o una seconda versione molto più ricca perché comprensiva degli atti che vennero poi allegati alle successive informative».
Al riguardo, il dottor Lima il 4 maggio 2021, davanti alla commissione d’inchiesta dell’assemblea regionale che lo ascoltava, sostenne: «Io avevo le stesse carte dei colleghi palermitani, ma mentre sul mio tavolo queste carte portarono i frutti contenuti in quelle 230 pagine di richiesta di ordinanza cautelare, a Palermo non era praticamente successo niente. Anzi, c’era stata una dolorosa, dal mio punto di vista, richiesta di archiviazione».
Stante le difficoltà dei rapporti tra la procura della repubblica di Palermo e il ROS, nel corso del 1993 il colonnello Mori decise l’impiego del mio reparto fuori dalla Sicilia in aree del territorio nazionale comunque connotate da organizzazioni di criminalità mafiosa. In particolare, in Campania il ROS ripropose lo stesso modello d’indagine adottato in Sicilia, questa volta con il pieno sostegno della procura della Repubblica di Napoli.
Nell’aprile del 1996, infatti, ebbe inizio l’indagine denominata «Avvio», originata da una denuncia dell’amministratore delegato pro tempore della Calcestruzzi, l’ingegner Giuseppe Parrello, espressione della fattiva collaborazione e della Pag. 64nuova lineare gestione della società. Emergeva che la Calcestruzzi, capofila dell’associazione temporanea di imprese destinata alla realizzazione della linea ferroviaria alta velocità, TAV, Roma-Napoli, aveva subìto una serie di danneggiamenti e minacce. Il presupposto operativo concordato con i magistrati della procura di Napoli si fondò sulla presenza di un agente infiltrato, che avrebbe dovuto prendere contatto con gli autori delle azioni criminose, risalendo fino ai loro mandanti. Attraverso la brillante e coraggiosa opera del tenente colonnello Vincenzo Paticchio, alto ufficiale del ROS, che tenne i difficili rapporti con i responsabili di un articolato sistema criminale, rifacendosi al clan dei casalesi, si giunse a individuare un complesso intreccio di responsabilità che, come nel caso siciliano, in perfetta intesa, vedeva anche qui protagonisti criminali, imprenditori e amministratori pubblici.
L’operazione, conclusa il 9 settembre 1996, portò alle reazioni da parte di alcuni esponenti politici, con l’accusa nei confronti del colonnello Paticchio di essere stato non un infiltrato, bensì un provocatore.
Il 7 maggio 2015 la Corte di cassazione confermava le condanne penali solo per la componente camorristica, sulla base del principio che quest’ultima, con le sue attività criminali, era preesistente alle vicende di causa, mentre assolveva la parte politica coinvolta sulla base della considerazione di aver deciso il proprio orientamento illecito non solo dopo l’attività posta in essere dall’agente sotto copertura, autorizzata dalla magistratura procedente. Peraltro, la Suprema Corte riconobbe la correttezza giuridica e l’operato del ROS e dei magistrati requirenti, il procuratore Agostino Cordova, i sostituti procuratori Paolo Mancuso e Federico Cafiero de Raho, oggi componente di questa Commissione. L’operazione otteneva anche la legittimazione istituzionale rappresentata dall’apprezzamento manifestato dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione che la Camera dei deputati, in sede di Commissione Giustizia, espresse il suo favore anche in futuri casi di impiego dell’agente infiltrato nell’operazione Avvio.
Il 14 novembre 1992 la Corte di cassazione emette la sentenza per l’omicidio del capitano Emanuele Basile, condannando Francesco Madonia e i figli.
Il 3 dicembre Domenico Signorino, sostituto procuratore della Repubblica di Palermo e pubblico ministero nel maxiprocesso, si suicida esplodendo un colpo di pistola alla testa.
Il 19 dicembre 1992 a Roma viene nuovamente arrestato Vito Ciancimino, in esecuzione di un provvedimento emesso dalla corte d’appello di Palermo.
Il 24 dicembre viene arrestato il dottor Bruno Contrada.
Il 27 gennaio 1993 Vito Ciancimino inizia a rendere deposizioni ai magistrati della procura della Repubblica di Palermo, Giancarlo Caselli e Antonino Ingroia. Nel corso delle stesse, il 23 marzo 1993, descrive tutti gli incontri che si sono svolti insieme tra il capitano De Donno e il colonnello Mori.
A questo punto, presidente, direi che possiamo fermarci qui. Non tedio più l’attenzione dei componenti. Grazie.

PRESIDENTE. Devo dire che difficilmente ho sentito tanto silenzio. La ringrazio.
Se il generale Mori conferma di essere d’accordo, accorpiamo le sue conclusioni alle domande perché i lavori dell’Aula della Camera sono ripresi.
Ritengo opportuno che prima delle domande leggiate tutti la relazione, decisamente lunga ma necessaria.
Ringrazio gli auditi e dichiaro conclusa la seduta.

La seduta termina alle 16.20.

 

Ci sono voluti quasi vent’anni di travagli giudiziari, sempre chiusi con assoluzioni definitive, affinché l’ex comandante del ROS Mario Mori potesse tornare a parlare davanti a una Commissione parlamentare antimafia. È successo oggi, per la prima volta, nella sede presieduta da Chiara Colosimo. Con lui c’è anche Giuseppe De Donno, ex ROS anche lui, per il quale si tratta di un ritorno: l’ultima audizione risale infatti al 1993, quando, da investigatore, aveva spiegato come la mafia condizionasse il sistema degli appalti pubblici.
Allora, la politica lo ascoltava compatta. Oggi, però, il quadro è ben diverso. La scena è polarizzata, frammentata, ideologizzata. Le accuse lanciate da un certo settore della magistratura palermitana a partire dalla fine degli anni Novanta hanno avuto un peso e chi un tempo era in prima linea nelle indagini è stato trasformato, nell’immaginario collettivo e mediatico, in una figura opaca, talvolta losca.
È Mori a prendere la parola. «Il 22 settembre 1986 – ricorda – assunsi il comando del Gruppo Carabinieri Palermo 1°. Era la mia prima volta in Sicilia». Dopo una carriera nell’Arma, compreso il Nucleo Speciale di Dalla Chiesa, si capiva che per combattere la criminalità organizzata non bastava inseguire i singoli reati, ma occorreva studiarne la struttura, la logica, l’economia. «A Palermo trovai altro: un’attività frammentata, senza strategia», afferma. L’azione immediata, seppur d’impatto, mancava di visione.
Eppure, il 6 maggio 1987, i suoi uomini arrestarono Francesco Madonia e due figli, condannati a più ergastoli – un successo che però non svelò le dinamiche interne di Cosa nostra. Mori capì che la mafia non teme l’arresto dei suoi esponenti – sono sempre rimpiazzabili – ma teme che si scavi nei suoi legami esterni, in particolare negli appalti pubblici, il vero motore del potere mafioso. «Il pizzo rende poco. È nel condizionamento degli appalti che la mafia costruisce il suo impero», sottolinea. Ed è su questo fronte, metodo poi abbracciato con convinzione da Giovanni Falcone, che decise di attivare un nucleo speciale, al di fuori degli schemi tradizionali.
Dopo Mori, interviene De Donno e ricostruisce l’indagine del 1989 condotta con il magistrato Di Pisa sugli appalti truccati a Palermo, con Ciancimino e Lima ai vertici del sistema. Una lettera trovata nella cassaforte del sindaco Orlando, firmata dall’Alto Commissario Antimafia, segnala il coinvolgimento di Ciancimino. Orlando non sa spiegare e viene indagato. Anche Falcone conosce bene la vicenda: nel ’91 la cita al CSM per difendersi da accuse dello stesso Orlando. Ma l’inchiesta si arena: arresti, lettere anonime, un’indagine che coinvolge Di Pisa, poi assolto, ma estromesso. Tutto si ferma lì.
De Donno, sempre davanti alla Commissione Antimafia, prosegue ripercorrendo passo dopo passo la genesi e lo sviluppo dell’inchiesta “Mafia appalti”, ricostruendo anche le frizioni – mai risolte – tra i Carabinieri del ROS e la Procura di Palermo. Il 20 febbraio 1991, il ROS consegna a Falcone il dossier da 877 pagine, corredato da centinaia di allegati. È una sintesi poderosa delle prime risultanze investigative sugli appalti pubblici in Sicilia, firmata proprio da De Donno. «Falcone ci aveva sollecitato più volte il deposito – racconta l’ ex ufficiale – perché temeva che, una volta trasferito al Ministero, l’inchiesta potesse essere messa da parte». E infatti, appena ricevuto il dossier, Falcone lo trasmette al procuratore Giammanco. Poi parte per Roma. Da lì in avanti, tutto si complica.
Già prima della consegna ufficiale del dossier, De Donno aveva trasmesso a Falcone e ai pm Pignatone e Lo Forte alcune annotazioni in cui si ipotizzavano responsabilità di politici. Ma da Palermo, secondo lui, non arrivò mai alcuna delega. Il 9 luglio 1991 scattarono i primi arresti, tra cui Angelo Siino, ma la Procura – denuncia De Donno – agì senza informare il ROS e consegnò l’intero dossier alle difese, rendendo pubbliche informazioni riservate. Da quel momento, lo scontro tra magistrati e carabinieri si fece insanabile. Il 20 luglio, un articolo del Corriere della Sera rese pubblici i contrasti. Pochi giorni dopo, Giammanco smembrò l’inchiesta, inviando i fascicoli alle Procure dell’isola: l’indagine unitaria era finita.
Falcone reagisce: affida alla giornalista Liana Milella alcuni appunti che diventeranno i suoi “diari” e incarica De Donno di informare il presidente dell’Antimafia Chiaromonte sull’intera indagine. In uno di quegli scritti, pubblicati dal Sole 24 Ore, accusa Giammanco di aver cercato di bloccare l’inchiesta sugli appalti, su pressione – scrive – di «qualche uomo politico».
Nel frattempo, da Massa Carrara arriva alla Procura di Palermo un’informativa su alcune società legate all’imprenditore Antonino Buscemi. Gli incroci con le indagini del ROS sono evidenti. Ma nessuno informa i Carabinieri. «Con quella segnalazione potevamo completare il quadro – dice oggi De Donno –. Ma la pratica fu data alla Guardia di Finanza e chiusa in fretta con l’archiviazione».
E alla fine l’archiviazione arriva anche per l’inchiesta madre. Il 13 luglio 1992, gli allora pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono l’archiviazione del dossier. Per De Donno, quella richiesta è il sigillo su una lunga operazione di ridimensionamento. E non sarebbe stato l’unico ad annusare che qualcosa non andasse. Borsellino stesso, in quelle settimane, aveva definito la strage di Capaci «stabilizzante» e aveva manifestato l’intenzione di riaprire l’indagine su mafia e appalti. Come se sapesse che lì dentro si nascondesse qualcosa che altri volevano non vedere. Alla prossima audizione, data ancora da stabilire, ci saranno le domande poste dai commissari. Si prevede forte tensione.

La strage di via D’Amelio, De Donno: «Nell’ufficio di Borsellino carte su mafia e appalti»

«Dal verbale di sequestro del materiale acquisito nell’ufficio del dottor Borsellino dopo la morte risulta che la maggior parte riguardava indagini su appalti e personaggi che si ritrovano nella nostra annotazione di febbraio». Lo ha detto Giuseppe De Donno, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo, durante un’audizione davanti alla Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e
sulle altre associazioni criminali nell’ambito del filone di inchiesta sulla strage di via D’Amelio. Nel suo intervento ha ripercorso le tappe dell’attività svolta al Ros. «Il 20 febbraio 1991 consegnai al dottor Falcone, quale procuratore aggiunto di Palermo, un’annotazione a firma del colonnello Mario Mori conosciuta poi come “Mafia e Appalti”, composta da 877 pagine, 483 allegati e 44 schede relative a persone coinvolte nelle indagini – ha spiegato -. Il documento costituiva il compendio di tutta l’attività investigativa eseguita su questo settore fino a quel momento. In precedenza, poiché più volte siamo stati accusati di aver omesso nell’informativa di febbraio ’91 tutta la parte politica che ne era venuta fuori, nel quadro di queste indagini avevo consegnato al dottor Falcone, a Guido Loforte e Giuseppe Pignatone, una serie di annotazioni preliminari, due delle quali il 2 luglio e il 5 agosto del 90, in cui si delineavano i rapporti relativi a responsabilità di personaggi politici nazionali e regionali in merito. Chiedevamo di poter svolgere approfondimenti ed è il motivo per cui nel documento non erano citati parti politiche. Non ricevemmo mai una delega da parte della procura di Palermo». GdS 16.5.2924

 


 

DE DONNO GIUSEPPE 

 

MORI MARIO

 


 

Strage di Via D’Amelio – In COMMISSIONE ANTIMAFIA le audizioni dei famigliari di Paolo Borsellino e dei testimoni

 

 

Processo Trattativa, famiglia Borsellino: “Ora concentrarsi sul nido di vipere…”

 

PAOLO BORSELLINO in COMMISSIONE ANTIMAFIA

 

Il Rapporto “Mafia&Appalti” e l’eliminazione del dottor Paolo Borsellino