“Nascita della mafia. Storie di «uomini d’onore» istruite in Sicilia (1838-1846) da Pietro Calà Ulloa, il Procuratore generale del Re che scoprì la piovra” di Salvatore Mugno (Navarra Editore, 2025)
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Nascita della mafia. Storie di “uomini d’onore”, istruite in Sicilia (1838-1846) da Pietro Calà Ulloa, il Procuratore generale del Re che scoprì la piovra è un testo in parte saggistico e in parte narrativo, su un momento della storia della mafia fin qui ignorato dagli studiosi e dai manuali, basato su ricerche negli Archivi di Stato di Palermo, Napoli, Messina e Trapani, durate vari anni.
Abbiamo chiesto all’autore di parlarci di questo libro.
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«Questa ricerca nasce sulla scia di tanti altri miei lavori sulla mafia», ha detto Salvatore Mugno a Letteratitudine. «Il mio primo volume su questa materia risale a oltre trent’anni addietro, al 1992, una curatela dei redazionali di Mauro Rostagno a RTC, la tv locale con cui il sociologo torinese collaborava al tempo in cui venne ucciso a Valderice: Parole contro la mafia (1992). Da allora ho scritto e pubblicato molti testi su queste tematiche, occupandomi di Giangiacomo Ciaccio Montalto, ancora di Mauro Rostagno, di Matteo Messina Denaro, di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e, poi, da più di un decennio della “piovra” nell’Ottocento, passando a uno studio di tipo prettamente storico, presso gli Archivi di Stato, siciliani e non solo. Un lavoro enorme, in una Sicilia e in un’Italia in cui tutti scrivono di mafia, ripetendo spesso le medesime cose, ma dove pochi fanno vera ricerca sulla mafia di ieri, per così dire, nemmeno le Università».
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Don Pietro Calà Ulloa – dei cui anni in Sicilia, fino all’uscita di questo lavoro, si sapeva davvero pochissimo, malgrado siano trascorsi quasi due secoli da allora e nonostante siano stati versati fiumi d’inchiostro sulla “storia della mafia” – sin dai suoi primissimi verbali vergati dalla Procura trapanese mostra una straordinaria tenacia e un’immensa passione per lo studio e l’intelligenza della realtà giudiziaria e del profilo criminologico dell’Isola e, contestualmente, uno slancio sorprendente per la lotta senza remore contro il crimine.
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Nelle sue relazioni al Ministro della Giustizia Parisio e nei suoi resoconti di lavoro, il celebre magistrato non usa i termini mafia e mafioso – verosimilmente li sconosce del tutto – ma vi dipinge esattamente un fenomeno ancora in nuce, lo stesso che circa centocinquant’anni dopo due suoi altrettanto illustri e del pari bistrattati colleghi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dimostreranno esistere, in modo finalmente incontrovertibile, anche giudiziariamente, attraverso il maxiprocesso di Palermo degli anni Ottanta e Novanta del Novecento.
Sin dai suoi primi mesi a Trapani, Don Pietro Calà Ulloa sa bene che i peggiori malviventi siciliani, protetti da nobili e possidenti, hanno già messo in piedi una solida rete di complicità su basi provinciali e regionali, fondata sulla paura, ma ancor di più su un sordido affarismo.
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Ulloa, nella sua celebre relazione diretta al Ministro Parisio del 3 agosto 1838, rappresenta l’Isola come «abbandonata del tutto. Scarsa di popolazione, senza strade, senza commercio, senza industria, colle prepotenze del patriziato e le insolenze della plebe, la Sicilia resta tutt’ora come un anacronismo nella civiltà europea».
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Prima di assurgere al rango di mafiosi, i malavitosi siciliani associati in bande, in reticoli di ricettatori e trafficanti di animali e beni rubati, in consorterie di prepotenti e criminali tra loro in qualche modo interconnesse, per lungo tempo furono designati con molteplici denominazioni, via via sempre più puntuali e, per così dire, qualificanti.
Si può, tuttavia, certamente rilevare che, dall’enorme mole di documenti e di casi da noi visionati, il termine più prossimo – costituendone una sorta di anticipazione e di sinonimo – all’incombente mafioso, nella stagione ulloana è senz’altro quello di facinoroso.
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Naturalmente la mafia non è nata in un solo giorno e perciò non ha una data precisa di nascita. Essa è frutto di una sedimentazione nel tempo di costumi e pratiche culturali, per così dire, e di malaffare criminale. Un tempo di gestazione che fu certamente lungo decenni, forse anche secoli, e che probabilmente affonda le sue radici in territori assai lontani.
Storici di professione, come Virgilio Titone, peraltro di Castelvetrano, centro storicamente nevralgico nella manifestazione di questo fenomeno, nei suoi saggi da precursore sulla mafia, faceva risalire l’insorgenza della mafia addirittura fino alla dominazione araba della Sicilia, cioè oltre mille anni prima.
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Ma questo titolo del libro, da me ideato, mi è anche piaciuto perché mi ricordava un celebre film muto di David Wark Griffith, Nascita di una nazione (1915). Ulloa, in un certo senso, preconizza, presagisce, profetizza la nascita di una collettività o di una nazione “mafiosa”.
La “regia” di Ulloa, tra atti riservati e provvedimenti palesi, nei suoi più di otto anni di operatività siciliana contro l’emergente e ancora innominata “cosa nostra”, verosimilmente coglieva e consegnava l’essenza di una parte non marginale della nostra entità e identità regionale e, poi, latamente, statuale.
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Non pochi, tra gli studiosi della materia, ancora oggi si interrogano se Ulloa avesse visto bene, se davvero fosse la mafia la nuova realtà da egli avvertita e descritta.
Parecchi si appagano del solo quesito, senza aspettarsi o perseguire una risposta. Altri, invece, si sono detti che no, non era la mafia.
Dal lavoro di Ulloa – qui illustrato anche con una ampia e probante casistica nella sezione delle Storie –, che a Trapani copre sette interi e intensi anni di indagini, dal 1838 al 1844, emerge nettamente, in modo sempre più nitido, il verminaio degli abigeati, delle ricettazioni, delle componende, degli incontri e delle saldature di amicizie mafiose presso le fiere di animali in giro per tutti i Comuni della Sicilia, della macabra ragnatela di “cordate” criminali, campieri, possidenti, uomini “pubblici”, preti e casate eminenti e vere e proprie “famiglie” mafiose o proto-mafiose dominanti che andavano coagulandosi in un’unica fluida, elastica, interconnessa realtà regionale.
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Il magistrato napoletano operò in Sicilia per poco più di otto anni, di cui sette trascorsi a Trapani, nel corso dei quali egli non soltanto comprese e delimitò concettualmente e operativamente la dimensione del fenomeno mafioso ante litteram, ma certamente lo combatté come mai nessun magistrato aveva fatto fino a quel momento.
Questo nostro studio, perciò, intessuto di storie e di materiali mai usciti dagli Archivi, testimonia, tra l’altro, che Calà Ulloa fu il primo giudice antimafia del Regno delle Due Sicilie e d’Italia. E, pensate, non vi sono vie o scuole o enti culturali a lui dedicati. Ignorato! Dimenticato! Cancellato! Cancel culture, avanti lettera.
Soltanto a Napoli, in tutta Italia, vi sarebbe una via intitolata a Girolamo Calà Ulloa, uno dei due fratelli generali di Pietro.
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Il Procuratore Calà Ulloa indica diverse cause come fonte di questo nuovo tipo di criminalità, che nelle sue vesti più mature e complete si nutre di rapporti di connivenza con il pubblico potere, con l’amministrazione della cosa pubblica che, in parte, diviene cosa nostra in combutta coi criminali. L’emergente mafia si sta definendo come una colpevole associazione, per usare un’espressione di Ulloa, che si stupisce e stigmatizza la ricorrente, se non stabile, alleanza tra i criminali e esponenti delle istituzioni, soprattutto a livello di amministrazioni comunali, oltre alla lassezza, se non complicità, in ambito giudiziario. Ma anche tra facoltosi imprenditori e possidenti si registrava spesso una nefasta comunella con i peggiori ceffi della società, reclutati soprattutto come campieri o soprastanti. Alla base di queste ragnatele illegali vi erano, insieme alla diffusa povertà e ignoranza, le ataviche arretratezze socio-economiche e le ingiustizie in cui troppo spesso versavano (e in molti casi versano ancora oggi) le comunità siciliane da molti secoli, tanto che lo stesso magistrato le definisce anacronistiche.
Un popolo che aveva smesso chissà da quanto tempo di fare affidamento nelle strutture governative e amministrative che lo assoggettavano e sfruttavano, senza riuscire a conquistarne la fiducia e la collaborazione.
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La mafia non è mai stata dalla parte dei poveri. Se si analizzano gli atti giudiziari, è questo che risulta. Forse essa può far del bene soltanto per errore o in vista di un male maggiore; o per offrire ai terzi una faccia pulita e presentabile. Tra i fini “statutari” della società mafiosa non vi è altro che il proprio cosiddetto tornaconto, conseguito con la forza e col sangue, fino a quando non si passa, solitamente, alla resa dei conti violenta tra gli stessi membri dell’associazione, per un passaggio di mano del potere. Le intermediazioni mafiose non sono mai disinteressate; spesso sono artificiose, provocate ad arte, architettate.
Il volto bonario del mafioso, se talvolta c’è, è soltanto in funzione della sottostante malvagità e famelicità. L’azione edificante è soltanto uno specchietto per le allodole.
Gli intenti della mafia in quanto tale sono sempre parassitari, da sanguisuga.
Il suo metodo è sempre la prepotenza, la sopraffazione, la violenza.
Gli stessi campieri, che avrebbero dovuto difendere i possidenti, i borgesi, spesso finivano con l’azzannarli, col derubarli.
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A parte le versioni leggendarie e mitiche della sua origine (ad es. quella di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i tre immaginari fratelli rinchiusi nella fortezza di Santa Caterina di Favignana, nel XV secolo, presunti fondatori, rispettivamente, della mafia, della ‘ndrangheta e della camorra; o quella di Giuseppe Petrai, che ne Il romanzo d’un bandito immagina che si sia costituita nel Caffè Trinacria di Mazara del Vallo, nel luglio del 1799), che la mafia sia stata ravvisata, negli esatti termini indicati da Ulloa, a Trapani e nella nostra provincia, in modo così precoce, depone per l’ipotesi che essa qui abbia le sue originarie radici, che questo territorio sia certamente stato almeno una delle “patrie” di tale triste fenomeno.
Anche l’esportazione della mafia nell’America del Nord, tra fine Ottocento e inizio Novecento, è opera, soprattutto, di questa provincia.
Certamente in tutta l’area occidentale della Sicilia la mafia ha attecchito prima e meglio che nel resto dell’Isola.
Nella nostra provincia, ad esempio, il pensare e il sentire mafiosi spesso sembrano, anche ai giorni nostri, essere una sorta di seconda pelle, al punto da non renderci neppure conto, spesso, probabilmente, di aderire a “modalità” prevaricatrici, irrispettose delle regole, intimidatrici, di tipo familistico e tribale, come diceva anche il povero Rostagno quasi quaranta anni addietro dagli schermi di RTC.
Lo stesso Denis Mack Smith, nella sua Storia della Sicilia medievale e moderna, la cui prima edizione è del 1968, dipinge, testualmente, una «Trapani ultramafiosa».
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La scheda del libro: “Nascita della mafia. Storie di «uomini d’onore» istruite in Sicilia (1838-1846) da Pietro Calà Ulloa, il Procuratore generale del Re che scoprì la piovra” di Salvatore Mugno (Navarra Editore, 2025)
“Nascita della mafia” racconta ― per la prima volta, con un ampio saggio storico basato su documenti finora sconosciuti e con la ricostruzione di decine di vicende giudiziarie mai studiate e pubblicate ― l’attività svolta in Sicilia (1838-1846) dal Procuratore generale del Re, Pietro Calà Ulloa (Napoli, 1801-1879), il primo operatore del diritto ad avere individuato, descritto e combattuto il fenomeno mafioso ante litteram nell’Isola; ricerca che va a colmare un grave vuoto intorno alla storia della mafia nelle sue documentabili fasi iniziali. Il volume si compone per lo più di materiali inediti individuati e decrittati, nel corso di numerosi anni di indagine e di studio, negli Archivi di Stato di Napoli, di Palermo, di Messina e di Trapani. L’autore descrive l’opera del magistrato sin dalle prime settimane del suo arrivo in Sicilia, rappresenta la condizione dell’Isola sotto il profilo giudiziario e criminale, l’iniziale manifestazione e incrostazione delle dinamiche mafiose, le varie azioni intraprese dal pubblico ministero campano e i suoi successi. In appendice sono raccolti rapporti inediti di Ulloa sulla lotta alla criminalità organizzata e sulla realtà giudiziaria.
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Salvatore Mugno, saggista e narratore, ha pubblicato tra i romanzi, Opere terminali (Jaca Book, 2001), Il pollice in bocca (il Grandevetro, 2005); Il biografo di Nick La Rocca (Besa, 2005; Arcana Editrice, 2017), Il prof terrone (Margana Edizioni, 2017); tra i saggi, Mauro è vivo. L’omicidio Rostagno dieci anni dopo, un delitto impunito (Coppola Editore, 1998), Matteo Messina Denaro. Un padrino del nostro tempo (Massari Editore, 2011), Una toga amara. Giangiacomo Ciaccio Montalto la tenacia e la solitudine di un magistrato scomodo (Di Girolamo Editore, 2013).
Per Navarra Editore ha pubblicato Decollati. Storie di ghigliottinati in Sicilia (2019), Sentenze di ghigliottinati in Sicilia (2019) e I carnefici di Sicilia (2021).
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