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VIDEO AUDIZIONE 19 giugno 2025
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VIDEO AUDIZIONE 13 maggio 2025
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VIDEO AUDIZIONE 16 aprile 2025
19 giugno 2025 RESOCONTO STENOGRAFICO Seduta n. 83 di GiovedĂŹ 19 giugno 2025
Seguito dell’audizione di Mario Mori, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo, e di Giuseppe De Donno, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo, nell’ambito del filone di inchiesta sulla strage di via D’Amelio:Â
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CHIARA COLOSIMO
La seduta inizia alle 11.35., nonché via streaming sulla web-tv della Camera dei deputati.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’audizione di Mario Mori, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo, e di Giuseppe De Donno, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo, nell’ambito del filone di inchiesta sulla strage di via D’Amelio.
ââPrima di dare la parola agli auditi, il senatore Verini ha chiesto di intervenire sull’ordine dei lavori.
WALTER VERINI. Grazie, presidente.
Non voglio rubare piĂč di quaranta secondi ai lavori della plenaria e alle importanti audizioni che abbiamo stamattina.
Preannuncio due cose. La prima Ăš che nel prossimo ufficio di presidenza chiederemo di poter di nuovo audire in plenaria il Procuratore nazionale antimafia Melillo, anche – ma non solo – alla luce della sua audizione presso la Commissione giustizia della Camera sul tema del sequestro degli smartphone, audizione che ha sollevato inquietanti interrogativi. Crediamo sia giusto che anche l’antimafia se ne occupi.
ââInoltre, preannuncio una lettera, che poi formalizzerĂČ in ufficio di presidenza, con la quale, come gruppo del Partito Democratico, non solo ci dissociamo, ma esprimiamo profondo disappunto e dissenso per come lei ha gestito nell’ultima occasione di analoga audizione i rapporti anche con le opposizioni. Lei, dal nostro punto di vista, ma non Ăš questa la sede, Ăš solo un preannuncio, non ha dato la parola sull’ordine dei lavori al capogruppo del PD e ha ritenuto di sindacare su domande dei commissari. Su queste cose noi faremo una protesta che ho solo preannunciato e che formalizzeremo in ufficio di presidenza.
PRESIDENTE. Bene, senatore. Ci avete pensato un po’ sulla lettera.
ââAndiamo avanti. Io ho giĂ degli iscritti a parlare. Se c’Ăš qualcun altro, lo invito a segnalarmelo.
ââHo iscritto per primo il senatore Sisler.
SANDRO SISLER. Grazie, presidente.
Un saluto e un ringraziamento ai due auditi, il generale Mori e il colonnello De Donno.
Rivolgo una domanda al generale Mori, cercherĂČ di essere preciso. A seguito della testimonianza resa dall’onorevole Luciano Violante, su richiesta della sua difesa, all’udienza del 4 novembre 2019 del processo d’appello sulla «trattativa», sappiamo con certezza due cose: la prima, che il procuratore Giammanco, in maniera insistente, aveva richiesto di incontrare prima della strage del 1992 colui che di lĂŹ a poco sarebbe diventato presidente dell’antimafia per parlare del rapporto «mafia-appalti», incontro avvenuto nell’hotel Delle Palme, con colloqui di una o due ore – questo risulta dal verbale della testimonianza -; la seconda, che Giammanco definiva privo di fondamento quel rapporto del ROS, quindi il vostro, sulla trattativa «mafia-appalti». Spiega Violante – cito una sua affermazione – che «Giammanco sminuiva il rapporto perchĂ© avrebbe messo in luce i rapporti tra mafia e politica che non convincevano il procuratore». Questo Ăš quanto ha affermato Violante durante quella udienza. Dava una lettura molto riduttiva del rapporto dei ROS.
ââDice sempre Violante, cito una sua affermazione: «Falcone mi parlĂČ dell’indagine su âmafia-appaltiâ. Falcone dava, invece, molta importanza a questa indagine». Dalla testimonianza di Violante si deducono, per fatti concludenti, due cose: la prima, che Violante, nel momento in cui diventa presidente della Commissione antimafia, aveva ben chiaro che l’indagine del Pag. 6ROS aveva per Falcone una particolare importanza e che quell’indagine giĂ nella primavera del 1992, quindi prima della strage, rappresentava una questione centrale all’interno della procura di Palermo; la seconda, che Violante era consapevole della dichiarata avversione da parte del procuratore circa il rapporto «mafia-appalti».
ââArrivo alla domanda. Pochi mesi dopo l’onorevole Violante diventa presidente della Commissione antimafia e lei ha modo di incontrarlo in diverse occasioni: avete mai parlato del rapporto «mafia-appalti» e l’onorevole Violante le ha mai chiesto informazioni particolari sulla questione?
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. A quell’epoca parlai con Luciano Violante una ventina di giorni dopo la sua nomina, verso la fine di ottobre, penso. L’occasione era un’audizione mia e del generale Subranni presso la Commissione antimafia. Il tema era centrato soprattutto sugli argomenti che sarebbero stati discussi subito dopo. Io feci un breve accenno alla nostra indagine «mafia-appalti», ma non ho ricordi particolari delle risposte di Violante, quindi penso siano state considerazioni generiche.
ââIn quella circostanza, invece, segnalai all’onorevole Violante il fatto che avevo preso contatti con Vito Ciancimino e lui mi chiese, nella circostanza, se avevo informato la procura della Repubblica di Palermo. Io gli dissi che non l’avevo informata perchĂ© non mi fidavo del procuratore Giammanco. Lui non replicĂČ, quindi passammo ad altri argomenti. Questo per quanto riguarda Giammanco, Violante e «mafia-appalti».
ââPRESIDENTE. Prego, senatrice Rando.
ââVINCENZA RANDO. Grazie, presidente.
ââBuongiorno. Ho qualche domanda, spero di non prendere tanto tempo e di non togliere tempo agli altri.
ââGenerale Mori, lei ha dichiarato che l’arrivo in procura a Palermo del dottor Caselli era un fatto positivo, anche perchĂ© avevate stima, avevate lavorato nel periodo dell’antiterrorismo. Come mai, allora, non avete immediatamente informato Caselli della rilevanza attribuita tanto da Falcone quanto da Borsellino sulla pista «mafia-appalti»? Eppure, come si apprende dalla vostra relazione, che ho cercato di leggere, e anche dalla vostra audizione, il colonnello De Donno aveva giĂ messo a verbale sommarie informazioni a dicembre del 1992 a Caltanissetta; tornerete a parlare della pista «mafia-appalti» solo nel 1997, raccontando soltanto allora dell’incontro tra voi e Borsellino avvenuto presso la caserma Carini il 25 giugno, circostanza che anche nel decreto…
ââPRESIDENTE. Senatrice Rando, abbiamo letto nella scorsa seduta questa specifica, per questo le facevo segno.
ââVINCENZA RANDO. Non ero presente, perĂČ la cosa che mi chiedo Ăš quale era la strategia investigativa in quel momento? A me non interessano le valutazioni politiche, perchĂ© nello scorso incontro non ha risposto ad alcune domande. A me interessa capire la strategia politica, come mai dal 1992 arriviamo al 1997. Se Ăš stato giĂ detto me lo rileggo, perĂČ avevo visto che non erano state date risposte.
ââAltra questione. Voi ritenete – l’avete detto piĂč volte – che l’unica causale per l’accelerazione della strage di via D’Amelio sia il rapporto «mafia-appalti», tesi che tante sentenze non hanno confermato, anzi spesso l’hanno smentita, ma anche i fatti, se letti nella loro sistematicitĂ . Naturalmente, come dicevo prima, non chiedo una valutazione politica, ma una valutazione tecnica, proprio da raffinati investigatori. Ritenete veramente che l’unica causale per l’accelerazione della strage di via D’Amelio sia stata quella di bloccare per rallentare le indagini di Pag. 8«mafia-appalti» e non vi sia stato, invece, un collegamento – lo dico rispetto all’indagine e alla capacitĂ investigativa che avevate – con altri gravissimi fatti che c’erano stati in quel momento? La strage di via D’Amelio, cioĂš, non Ăš scollegata da altri fatti. O ritenete sia scollegata totalmente da altri fatti? Abbiamo il fallito attentato all’Addaura, l’assassino del poliziotto Nino Agostino, l’omicidio di Salvo Lima, la strage di Capaci e poi le stragi del nord.
ââNoi siamo convinti – lo siamo sempre stati – che Paolo Borsellino, proprio per il suo alto senso delle istituzioni democratiche, non avrebbe mai accettato che il contrasto a cosa nostra passasse per altre vie differenti, se non quella dell’azione penale. Basta ascoltare l’intervento che Paolo Borsellino fece a Casa Professa – io ero presente quel giorno -, il quale disse: «Io sono un testimone e devo riferire all’autoritĂ giudiziaria che Ăš l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possano essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone». Penso, ancora, all’intervista alla TV francese, nella quale Paolo Borsellino mi pare non abbia mai fatto alcun cenno sul rapporto «mafia-appalti».
ââVoi su questi elementi continuate a sostenere che l’unica causale sia il rapporto «mafia-appalti».
ââTutti sappiamo bene che l’effetto della strage si Ăš avuto anche rispetto alla conversione del decreto legge sul 41-bis. Siete ancora convinti – anche per un’analisi investigativa – che l’unica causale che ha accelerato la strage di via D’Amelio sia «mafia-appalti»?
ââNella vostra relazione ci sono stati giudizi a volte spinti, forse anche offensivi nei confronti di diversi servitori dello Stato. Voi dite, chiaramente sempre in sintesi, lo riporto a memoria, che lei arriva nel 1986 e che fino ad allora l’attivitĂ era stata sviluppata secondo iniziative prive di indirizzi pianificati,Pag. 9 ottenendo risultati inadeguati. E poi va avanti. Anni Ottanta, Rocco Chinnici, primo pool antimafia, che dopo il suo terribile omicidio nel 1983 fu guidato da Nino Caponnetto. Il pool era composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Natoli, Guarnotta e Di Lello, pool che ha prodotto, grazie anche alla collaborazione di Buscetta, il maxiprocesso del 10 febbraio 1986, processo che peraltro non sarebbe stato possibile senza il lavoro lungimirante e il sacrificio di Siciliani impegnati nell’istituzione, come Cesare Terranova e Pio la Torre. Ricordo anche l’operazione Pizza Connection.
ââCome mai nella vostra relazione di investigatori attenti non tenete conto di questo contesto? A suo giudizio, sempre da investigatore, la strage di via D’Amelio fu un pessimo affare per cosa nostra? Pensiamo – come dicevo prima – al decreto legge n. 306 che non prevedeva soltanto il secondo comma dell’articolo 41-bis, ma introduceva il reato di voto di scambio, ampliava la tutela dei collaboratori, rafforzava l’istituto delle misure di prevenzione patrimoniale.
ââDopo le stragi di Palermo, in particolare quella di via D’Amelio, le forze dell’ordine ancora di piĂč, e anche la magistratura, con tutti gli effetti – questo non lo possiamo negare – di quello che c’era dentro la procura, continuarono e ci furono diverse indagini: ci furono numerosi ergastoli, centinaia di condanne, trenta anni di reclusione, un numero enorme, 10 mila miliardi di vecchie lire sequestrate e confiscate. Tutto questo si puĂČ pensare che sia stato un pessimo affare per cosa nostra?
ââUn’altra questione, e concludo. Il procuratore Caselli – lo dicevo prima – aveva lavorato con voi, con il ROS e con lei, quindi si Ăš, naturalmente, fidato. Nella vostra relazione dite di questo rapporto di fiducia, tant’Ăš vero che, arrivato a Palermo, Riina viene arrestato e voi, come strategia investigativa, giusta, Pag. 10proponete di arrivare all’osservazione del covo di via Bernini e di non fare subito la perquisizione, una strategia che puĂČ essere anche lungimirante, perĂČ stranamente sul covo non viene svolta l’osservazione. Nella relazione dite che forse non era tecnicamente possibile. Come mai avete fatto questa proposta di strategia investigativa? Il risultato Ăš stato che la famiglia Riina ha avuto il tempo di trasferirsi e di imbiancare anche casa.
ââPRESIDENTE. Senatrice, se sfugge qualcosa ripeterĂ la domanda, perchĂ© sono molte.
ââPrego, generale.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Onorevole presidente, prima di rispondere – in parte lo farĂČ io e in parte De Donno – vorrei presentare questo documento, frutto delle nostre risposte ai quesiti e alle accuse che ci ha rivolto il Movimento 5 Stelle nel documento presentato il 13 maggio qui in audizione e il giorno successivo in conferenza stampa in Parlamento. Sono tutte le risposte ai quesiti, compresi quelli che ci ha posto adesso l’onorevole.
ââPRESIDENTE. Lo metto agli atti. Sinteticamente, perĂČ, vi chiedo di rispondere alla senatrice.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Partendo dal primo punto, quando il dottor Caselli arriva a Palermo a gennaio 1993 noi parliamo con lui delle indagini che erano in atto. Il dottor Caselli Ăš il primo che viene a conoscenza di tutti i nostri rapporti con Vito Calogero Ciancimino ed Ăš Caselli che ci autorizza ad andare in carcere a interloquire con Ciancimino e a convincerlo a collaborare. Quindi, il dottor Caselli per noi rappresentava una ventata di novitĂ e la speranza che tutto quello che non era stato fatto prima potesse essere fatto dopo.Pag. 11
ââQuesto rapporto, perĂČ, si Ăš incrinato molto rapidamente. Il dottor Caselli conosceva benissimo l’importanza che noi attribuivamo a «mafia-appalti», perchĂ© ne avevo parlato piĂč volte sia con lui che con gli altri magistrati. Si incrina soprattutto quando arriva da Catania il materiale del dottor Lima. A quel punto, la procura di Palermo, il dottor Caselli – perchĂ© firma lui la relazione – si convince di un nostro comportamento erroneo, tant’Ăš vero che fa una relazione alla Procura generale a Roma e chiede un’azione disciplinare nei miei confronti, perchĂ© ritiene che io abbia compiuto degli illeciti disciplinari nella gestione dell’indagine. L’ho giĂ detto l’altra volta: indagine disciplinare fatta dalla Procura generale di Roma dalla quale io vengo assolto perchĂ© non ho commesso alcun illecito.
ââĂ chiaro che, dopo questa attivitĂ e dopo gli arresti di maggio 1993, quando arrestiamo Riina Salvatore piĂč altre trentadue persone, sulla base delle indagini SIRAP, a parte alcune deleghe, non ci viene concessa piĂč alcuna delega. Quindi, il rapporto con la procura di Palermo sostanzialmente si ferma e si blocca non per nostra volontĂ .
ââPer quanto riguarda l’incontro del 25 giugno con il dottor Borsellino, ancora una volta si ripete che noi abbiamo raccontato questa cosa nel 1997. L’altra volta il presidente ha dato lettura di un verbale: io ho raccontato questa cosa quando mi hanno chiamato i magistrati di Caltanissetta a dicembre 1992 e l’ho riraccontata nel 1997 perchĂ© mi hanno richiamato nel 1997. Una volta che io la racconto e la metto a verbale a dei magistrati il mio compito Ăš finito. Spetta ai magistrati di Caltanissetta fare le indagini. Nel 1997 l’abbiamo ripetuto, ma non l’abbiamo tenuto nascosto fino al 1997.
ââPer quanto riguarda la causale «mafia-appalti», ci sono alcune sentenze che non lo condividono, perfetto, ma ci sono altre cinque sentenze, compreso il Borsellino-quater, che dicono Pag. 12che la causale piĂč probabile, piĂč accreditata e piĂč veritiera della morte del dottor Borsellino sia il suo interesse per «mafia-appalti». Noi non abbiamo mai detto – sfido a trovare una nostra dichiarazione – che sia l’unica causale della strage di via D’Amelio. Noi abbiamo sostenuto che probabilmente «mafia-appalti» potrebbe essere una delle causali di via D’Amelio. Sono d’accordo con lei: sicuramente la strage di via D’Amelio non Ăš frutto solo di «mafia-appalti», ma Ăš frutto di un contesto molto piĂč ampio di quel periodo, ma non abbiamo detto noi per primi questa situazione. Noi abbiamo sempre creduto in questa attivitĂ e una serie di sentenze, fino alle ultime risultanze investigative, fino agli ultimi processi della corte d’assise, dicono che «mafia-appalti» Ăš il motivo per cui il dottor Borsellino viene ucciso.
ââComunque, questo argomento Ăš trattato anche nella relazione.
ââPer quanto riguarda le affermazioni circa l’inadeguatezza dell’attivitĂ di contrasto che trovammo a Palermo quando siamo arrivati nel 1987, forse siamo stati fraintesi. Noi non intendevamo riferirci al fatto che fino al nostro arrivo a Palermo non fosse stato fatto nulla. Assolutamente, lungi da noi dire questo. Se lei riguarda le nostre dichiarazioni, la trascrizione di quello che abbiamo detto e di quello che abbiamo sempre scritto, noi facciamo riferimento all’azione delle forze di polizia. In particolar modo, siamo stati estremamente critici per l’attivitĂ che riguardava l’Arma dei carabinieri. Il signor generale ha piĂč volte ripetuto che quando si arrivĂČ a Palermo si trovĂČ una situazione disastrosa: non esisteva una strategia globale, complessiva, non esisteva un’azione coordinata, si facevano attivitĂ random e c’era uno scollamento tra le esigenze della procura e l’attivitĂ reale. Sulla base di questo noi riorganizzammo la nostra attivitĂ , ma non abbiamo mai inteso Pag. 13criticare tutto quello che era stato fatto prima, nĂ© l’attivitĂ del dottor Falcone nĂ© quella di altri magistrati.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Per quanto riguarda la mancata perquisizione del covo di Riina, se mi consente, visto che mi confondo ogni volta, le leggo la mia relazione su come sono andati i fatti di via Bernini: «La procura della Repubblica di Palermo ha affermato, e Scarpinato ha sempre sostenuto in pieno questa tesi, che la trattativa tra i carabinieri del ROS, in particolare Mario Mori, con Bernardo Provenzano, oltre alla protezione della sua latitanza» di Provenzano «prevedesse la consegna di Salvatore Riina, ma anche la mancata perquisizione della villa di via Bernini. Il 15 gennaio 1993, subito dopo la cattura, si tenne una riunione estemporanea nell’ufficio della Legione carabinieri di Sicilia».
ââDico «estemporanea» perchĂ© uso l’espressione corretta; da caserma direi «un casino», perchĂ© c’erano tutti e il contrario di tutti. Non eravamo nella nostra caserma, ma nella caserma dell’Arma territoriale. C’era di tutto. Ogni tanto arrivava qualcheduno, mi abbracciava, mi stringeva la mano, baciava Sergio De Caprio. Questa era la realtĂ . Dico «estemporaneo» in questo senso.
ââVado avanti: «Presenti i magistrati – Caselli era arrivato quel giorno -, altri ufficiali dell’Arma territoriale, io e il capitano Sergio De Caprio. De Caprio aveva proceduto materialmente all’arresto. Erano state predisposte immediatamente due squadre per la perquisizione dell’area dove si riteneva ci fosse l’abitazione dei Riina ed era stato delegato il dottor Patronaggio a sovraintendere alle perquisizioni. La villa, successivamente individuata, dove viveva la famiglia».
ââQui dobbiamo sempre ricordare che si parla sempre di covo, ma un covo non c’era. Viveva Ninetta Bagarella con i tre figli di Riina. Saltuariamente TotĂČ Riina andava a trovare la famiglia. Pag. 14Questo lo chiarisco una volta per tutte: si parla sempre del covo, ma il covo non era lĂŹ, non l’ha mai trovato nessuno il covo.
ââVado avanti: «La villa, successivamente individuata, risultĂČ di proprietĂ della societĂ dell’imprenditore Giuseppe Montalbano, figlio dell’onorevole Giuseppe Montalbano, giĂ deputato comunista all’Assemblea costituente. Il procedimento penale scaturito dai successivi accertamenti della procura della Repubblica di Palermo, dove tra l’altro emersero contatti dell’imprenditore Montalbano con il noto Pino Lipari, consulente di Provenzano, venne archiviato nel 1995, su richiesta della procura.
ââA quel punto, durante la discussione, De Caprio propose di non procedere alla perquisizione ed io lo sostenni sulla base delle seguenti considerazioni: Riina era stato arrestato appositamente lontano da via Bernini, nella cosiddetta ârotonda del Motel Agipâ, cosĂŹ da evidenziare che non si conoscesse il luogo da cui proveniva; il comprensorio di via Bernini era stato costruito dall’impresa di Gaetano Sansone; quest’ultimo abitava in una delle due ville piĂč grandi del complesso, mentre l’altra villa piĂč grande era occupata dal fratello Giuseppe. Entrambi i fratelli risultavano residenti anagraficamente altrove. Secondo le prime dichiarazioni del collaboratore Baldassare Di Maggio, che aveva riconosciuto Riina e Biondino uscire il 15 gennaio 1993 dal comprensorio di via Bernini, Giuseppe Sansone era persona che accompagnava il Riina nei suoi spostamenti. Si conosceva De Marco Vincenzo, legato alla famiglia mafiosa del latitante Giovanni Brusca, e, all’evenienza, accompagnatore per le esigenze familiari di Ninetta Bagarella, moglie del Riina. I favoreggiatori del Riina ignoravano le acquisizioni informative raggiunte dal ROS. Su queste basi, dilazionando la perquisizione, si rendeva possibile arrivare alla cattura di altri latitanti, Pag. 15ma anche raggiungere il cuore economico di cosa nostra, di cui i fratelli Sansone facevano sicuramente parte.
ââPer poter proseguire questo tipo di indagine occorreva non solo mantenere riservata la collaborazione del Di Maggio, ma anche non far comprendere che era stata localizzata l’abitazione in cui abitava la famiglia del Riina. Il dottor Caselli accettĂČ la nostra proposta a condizione che fosse mantenuto un costante controllo su tutti i luoghi dell’indagine e sul complesso di via Bernini. In pratica, scelse di aderire alle richieste avanzate dal ROS e di assumere il rischio di ritardare la perquisizione. Conseguentemente, assunse la decisione, concordandola con tutti gli altri colleghi, di rinviare la perquisizione. C’Ăš una sentenza al riguardo.
ââQui nacque l’equivoco. Ă vero che il ROS sin dal 14 gennaio aveva posto un furgone di osservazione in via Bernini, ma davanti all’ingresso del comprensorio: da quel punto si potevano vedere le ville ubicate all’interno. Non aveva, quindi, alcun senso continuare un’osservazione fine a se stessa, con la rilevante possibilitĂ che Sansone o qualche altro scoprisse il dispositivo di osservazione.
ââIl De Caprio assicurĂČ di proseguire l’attivitĂ di osservazione e controllo sui Sansone, cosa ben diversa e piĂč ampia del servizio di osservazione visiva sul complesso di via Bernini, sicchĂ© la decisione da tutti condivisa fu assunta sulla base di presupposti antitetici: quello della procura, basato sulla continuazione del servizio di osservazione del complesso, mentre quella del ROS si fondava sulla pianificazione di un’indagine a medio-lungo termine, da intraprendere una volta raffreddata la sensibilitĂ sui luoghi di interesse.
ââSin dall’inizio non vi erano le condizioni per proseguire la sorveglianza specifica del luogo, ma alla sua inutilitĂ contribuĂŹ anche l’improvvida iniziativa di un ufficiale del Comando della Pag. 16Legione carabinieri di Palermo, che nella mattina del 16 gennaio ai giornalisti che chiedevano dove era stato arrestato il Riina li invitĂČ a recarsi in via Bernini. A fronte delle numerose troupe giornalistiche subito precipitatesi sul luogo, a cui si unirono anche un certo numero di curiosi, cancellando cosĂŹ la segretezza dell’operazione, il colonnello Mori, ritenendo di poter operare nei limiti delle sue competenze, diede l’ordine di ritirare il furgone dell’osservazione, anche al fine di tutelare la sicurezza dei militari posti all’interno del mezzo.
ââQuanto ai documenti che avrebbero potuto essere custoditi nella villa, secondo l’esperienza degli investigatori del ROS, ma di un qualsiasi buon investigatore siciliano, Riina per evitare la compromissione dei propri familiari mai avrebbe tenuto nell’abitazione alcunchĂ© di connesso alla sua attivitĂ . All’atto dell’arresto, al latitante fu sequestrato un sacchetto di plastica contenente pizzini e annotazioni riferite a persone e ad attivitĂ di cosa nostra, fatte oggetto di successive e fruttuose indagini.
ââQuest’ultimo punto di vista da alcuni Ăš stato legittimamente considerato sbagliato. Tra questi vi sono anche i pubblici ministeri del processo cosiddetto âtrattativa Stato-mafiaâ, che hanno sostenuto che la mancata perquisizione originava dal fatto che non si volevano trovare documenti imbarazzanti, poichĂ© l’arresto del Riina era stato il frutto di un compromesso vergognoso che si doveva evitare di far conoscere, in quanto concordato con i mafiosi, cosĂŹ da poter concedere qualche beneficio da loro richiesto in quel periodo.
ââSecondo la procura l’uscita di scena di Riina era parte della âtrattativaâ concordata dagli ufficiali del ROS con Provenzano. Le argomentazioni e le conseguenti accuse dei magistrati della procura di Palermo appaiono suggestive, ma vengono invalidate sul piano pratico e della logica. Se Mori avesse fatto una trattativa con cosa nostra e avesse ritenuto che il fatto avrebbe Pag. 17potuto emergere in qualche documento in possesso del Riina, ovvero fosse a conoscenza che il latitante detenesse atti compromettenti addirittura per le istituzioni, anzichĂ© proporre di soprassedere alla perquisizione, avrebbe dato ordine al capitano De Caprio» a detta dei magistrati, non mia «ufficiale a lui fedelissimo, di rintracciare immediatamente la villa e perquisirla, cosĂŹ da acquisire e distruggere ogni documento compromettente». Questo Ăš addirittura banale. Per fare una perquisizione nell’abitazione frequentata da un latitante, loro mi insegnano, non c’Ăš bisogno dell’autorizzazione del magistrato: si procede di iniziativa.
ââA queste obiezioni, infine, Ăš stata posta un’altra ipotesi, prospettata dalla sentenza di primo grado del processo cosiddetto «trattativa Stato-mafia», cioĂš che la mancata perquisizione poteva anche essere stata un’iniziativa del colonnello Mori mirata all’invio alla controparte mafiosa di un messaggio di disponibilitĂ ad aprire o mantenere aperto un dialogo per future trattative». Qui siamo veramente al di fuori della logica. «Appare contraddittorio e assurdo affermare che il ROS, dopo aver arrestato il capo dell’operazione criminale, assestandogli un colpo praticamente mortale, con quell’operazione potesse pensare di lanciare messaggi distensivi all’organizzazione». Se il responsabile del reparto operativo dell’Arma dei carabinieri, cioĂš il sottoscritto all’epoca, avesse avuto un’idea simile, non sarebbe stato da denunciare, ma da mandare a una visita neurochirurgica.
ââPer concludere, «Il 20 febbraio 2006 la terza sezione penale del tribunale di Palermo assolse pienamente Mario Mori e Sergio De Caprio dall’accusa di aver favorito elementi appartenenti a cosa nostra attraverso la mancata continuazione dell’osservazione del comprensorio di via Bernini e il provocato ritardo della perquisizione dell’abitazione. Tanto fu chiaro e Pag. 18logico il verdetto che la procura della Repubblica rinunciĂČ a proporre appello».
ââPRESIDENTE. Senatrice, non so se c’Ăš qualcosa di importante che Ăš stato perso e su cui gli auditi vogliono rispondere, altrimenti vado avanti.
ââPrego, onorevole De Corato.
ââRICCARDO DE CORATO. Grazie, presidente. Ringrazio il generale Mori e il colonnello De Donno per i chiarimenti che hanno dato sia nella scorsa seduta che in questa, che sono a nostro avviso fondamentali e importanti nell’ambito di questa indagine.
ââGenerale, a pagina 250 del libro «L’altra verità » vengono riportate le dichiarazioni di Rino Nicolosi, ex presidente della Regione siciliana, che individua intorno al 1990 il salto di qualitĂ della mafia, che si propone, essa stessa, come impresa che partecipa direttamente alla spartizione degli appalti. Nicolosi fa riferimento alle sue denunce pubbliche e all’invito agli imprenditori a stare alla larga da Siino. In questo contesto fa riferimento alla Calcestruzzi, all’ingegner Bini e al costruttore Buscemi. Inoltre, nel triennio tumultuoso 1989-1991 diventa piĂč rilevante la presenza delle «cooperative rosse» nell’economia siciliana. La domanda Ăš questa: avete svolto come ROS indagini su questa attivitĂ delle «cooperative rosse»? In tal caso, che esito hanno avuto? Siete a conoscenza di indagini di procure siciliane sempre su questo aspetto? Sapete il loro esito?
ââGrazie.
MARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Onorevole, mi puĂČ precisare la data dell’intervento di Rino Nicolosi?
ââRICCARDO DE CORATO. Io ho come riferimento le date che le ho detto, generale. La data precisa non ce l’ho.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Tenga conto che Rino Nicolosi all’epoca, quando io comandavo il gruppo di Palermo, quindi nel 1986-1990, era presidente della giunta regionale siciliana.
ââRICCARDO DE CORATO. Esatto.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Lui sapeva della nostra inchiesta perchĂ©, per lo statuto speciale della Regione siciliana, i comandi di polizia avevano l’obbligo di riferire e rapportarsi non solo a livello politico nazionale, ma anche a livello politico locale. Eravamo obbligati addirittura a fare le segnalazioni. Quindi, lui sapeva della nostra attivitĂ anche in campo di «mafia e appalti». Quindi, il problema che Nicolosi in qualche modo allertasse il mondo politico sull’attivitĂ di Siino Ăš abbastanza logico. Sta di fatto che lui, perĂČ, come poi ha anche ammesso, faceva parte di un sistema nel quale i rapporti tra politica e imprenditoria erano molto sviluppati e, a nostro avviso, rappresentavano un elemento penalmente rilevante. Nelle sue confessioni Nicolosi ammise questo rapporto prima alla procura di Catania e poi alla Commissione antimafia, dicendo che c’erano piĂč sistemi, perchĂ© i vari gruppi politici avevano ciascuno un proprio rapporto di particolare attenzione con alcuni imprenditori. Nicolosi disse: «Io ho un rapporto particolare con l’impresa Salamone». IndicĂČ, per esempio, i Costanzo, che avevano rapporti prima con la DC della Sicilia orientale e poi anche con i socialisti. ParlĂČ anche delle «cooperative rosse» e in particolare disse che, attraverso un’impresa, c’era un rapporto preciso tra imprenditoria e Partito Comunista, mediato dalle «cooperative rosse».
ââSe vuole qualche delucidazione piĂč precisa sul rapporto tra imprenditoria e «cooperative rosse», penso che le possa rispondere il dottor De Donno.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Sinteticamente, giĂč a Palermo nella prima informativa e nelle successive informative c’erano dei riferimenti anche a imprese riguardanti il sistema delle «cooperative rosse», perĂČ noi non abbiamo sviluppato indagini nel dettaglio in questa direzione. Tenga conto che, dopo l’ultima operazione, quella del 1993, l’unica delega che ci fece la procura di Palermo fu relativamente alle dichiarazioni di Ciancimino. Ciancimino parlava abbondantemente di tutti i partiti, compresa l’area di sinistra. Noi facemmo una serie di informative alla procura di Palermo, perĂČ quelle furono le ultime attivitĂ che compimmo giĂč. Quindi, non abbiamo fatto attivitĂ di dettaglio, oltre a quelle che abbiamo giĂ riferito.
ââPRESIDENTE. Grazie, colonello.
ââPrego, vicepresidente D’Attis.
ââMAURO D’ATTIS. Grazie, signora presidente. Grazie, generale Mori e colonnello De Donno, per l’articolata audizione che state svolgendo in questa Commissione. Vi ringrazio anche per la mole di documentazione che ci avete consegnato, cosĂŹ da rendere piĂč semplice poter approfondire le risposte, come Ăš accaduto nel caso precedente delle domande della collega.
ââVoglio farvi una domanda, sebbene ne abbiate parlato e l’abbiate raccontato piĂč volte, piĂč legata a un fattore umano-ambientale che non all’approfondimento dei documenti. Ă una domanda che mi faccio anche da appartenente a una generazione che, giovanissima, ha vissuto quei fatti vedendoli in televisione. Ricordo le notizie dei telegiornali, in particolare in Pag. 21occasione dei due attentati, quello al giudice Falcone e quello al giudice Borsellino. La cosa che mi ha colpito di piĂč di questa vicenda Ăš l’incontro presso la caserma Carini. Ne ha parlato anche il tenente Canale. Di questa cosa se n’Ăš parlato e se ne parla, Ăš centrale rispetto a tutta la vicenda. Del resto, qui stiamo cercando di capire cosa ci fosse intorno al giudice Borsellino. La domanda che voglio fare a entrambi Ăš questa: in che clima si Ăš svolto quell’incontro? Ma soprattutto, qual era la percezione della tensione umana, del sentimento che attraversava in quel momento la persona che avete incontrato, cioĂš il giudice? Non mi interessa il profilo delle carte, non mi interessa ciĂČ che vi siete detti, ma come l’avete trovato veramente quando vi siete incontrati nella caserma, con che stato d’animo. D’altronde, lo stato d’animo di una persona come lui poteva dire tanto. Non era lo stato d’animo di una persona comune.
ââGrazie.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Rispondo prima io. Poi, siccome era presente anche il colonnello De Donno, Ăš giusto che risponda anche lui, per la sua parte.
ââIo conoscevo da tempo Paolo Borsellino, meno di Giovanni Falcone, comunque lo conoscevo abbastanza. Era arrivato da Marsala nel marzo 1992 come procuratore aggiunto. La prima cosa che ci stupĂŹ fu il fatto che, venendo dalle sue esperienze e avendo fatto parte del pool antimafia, a tutti noi investigatori sembrava scontato che Borsellino si dovesse interessare, per quanto riguarda le cose di mafia, della provincia di Palermo, mentre Giammanco gli assegnĂČ Trapani e Agrigento. Questa fu la prima anomalia.
ââIn quel periodo non ci furono incontri lunghi con Borsellino, ma solo fugaci, nei corridoi o al bar del tribunale, ma la sensazione, che poi era quella che provavano un po’ tutti, era Pag. 22quella di un uomo che progressivamente si andava incupendo. Paolo Borsellino aveva un bel carattere, era gioviale, aperto, aveva sempre la battuta pronta. Invece, progressivamente lo vedevi piĂč chiuso, piĂč meditabondo. Ci sorprese quando Canale disse che Borsellino voleva vederci da noi, presso la caserma Carini. Praticamente ci convocĂČ nella nostra caserma. E questo giĂ era anomalo. Il primo impatto fu con me: rimanemmo soli qualche minuto e mi spiegĂČ che non voleva che la cosa fosse nota, per tanti motivi. Io capii che non voleva che Giammanco si rendesse conto che aveva un rapporto diretto con me, considerato il fatto che dal punto di vista delle indagini non poteva interessarsi delle indagini palermitane. Mi disse che il suo interesse era su «mafia e appalti» e, quindi, chiese la disponibilitĂ del reparto che aveva fino ad allora gestito le indagini su «mafia e appalti», chiedendo in particolare di parlare con il capitano De Donno. Allora, feci entrare il capitano De Donno. E qui mi fermo, con la constatazione che questo lo so perchĂ© ancora sento la battuta nelle orecchie. Quando entrĂČ, disse: «Lei Ăš il capitano De Donno? Ho sentito parlare di lei molto male, ma se si fidava Falcone mi posso fidare anch’io». DopodichĂ©, passo la parola al colonnello De Donno.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Io non avevo avuto modo di lavorare con il dottor Borsellino prima. L’avevo incontrato un paio di volte, soprattutto una volta a Marsala quando gli portai una copia dell’informativa. A tal riguardo, ci fu un piccolo episodio. Lui ce la richiese prima in maniera informale, tramite Canale, un mio sottufficiale, che, basandosi sui miei ordini, non gliela consegnĂČ. Allora, io dissi: «Se il procuratore la vuole, la porto io a Marsala». E quel giorno andai a Marsala e gli consegnai l’informativa. Ricordo che quella copia aveva la copertina rossa. Pag. 23Ci fu un breve colloquio. A lui interessava molto l’impostazione generale, ma soprattutto in quel momento gli interessava tutta la parte di Pantelleria. L’informativa del 1991, come abbiamo giĂ detto, racchiudeva una marea di notizie, che andavano esplose. Avevamo raccolto, dalle intercettazioni, dai servizi, dai pedinamenti, da tutto il lavoro che avevamo fatto, una marea di indicazioni su tantissime gare d’appalto, ma, per mantenere tutto riservato, non avevamo fatto neanche una richiesta di acquisizione di documentazione agli enti che gestivano queste gare. Pertanto, l’informativa aveva una montagna di indicazioni che andavano sviluppate nella fase successiva. A lui interessava Pantelleria. Tant’Ăš vero che poi su Pantelleria fece una serie di arresti.
ââQuel giorno, onestamente, non sapevo che cosa potesse volere il procuratore da me. Quando entrai, disse appunto questa frase: «Io ho sentito parlare molto male di lei, mi dicono che Ăš un pazzo scatenato, perĂČ ho preso le mie informazioni, se si fidava Falcone mi posso fidare anch’io». E io dissi: «Va bene». Lui, in maniera molto rapida, mi disse: «Io vorrei riprendere tutto il discorso di âmafia e appaltiâ da dove Ăš stato lasciato. Lei Ăš disponibile?». Io gli risposi: «Guardi, non aspetto altro». Lui, di rimando, mi disse: «PerĂČ, a una condizione: lei parla solo ed esclusivamente con me». Io gli risposi: «GiĂ non parlo piĂč con nessuno in procura, quindi non Ăš un problema». Lui mi chiese alcune cose, alcuni dettagli dell’indagine, fu molto breve, poi mi disse: «Prepari un piano, mi dica tutto quello che le serve per ricominciare il lavoro, come lo vuole impostare, quando rientro» â doveva fare una rogatoria in Germania â «ci vediamo e cominciamo». E io gli dissi: «Va bene». FinĂŹ lĂŹ.
ââFu un incontro â lei, onorevole, chiedeva una percezione dal punto di vista umano â molto importante. Per me fu la Pag. 24speranza di continuare il lavoro. Tant’Ăš vero che, quando lui andĂČ via, scendemmo giĂč â eravamo nei locali della sezione anticrimine â nel cortile della caserma. Il procuratore andĂČ via con la scorta e con Canale. In quel momento eravamo addirittura quasi in procinto di lasciare. Io dissi al signor colonnello: «Ricominciamo tutto daccapo. Io preparo il piano, ma questa volta veramente non ci fermiamo». PerĂČ, poi sfortunatamente non abbiamo mai fatto l’altro incontro.
ââSe vuole una mia opinione â questo non lo dico per corroborare le nostre idee â era determinato. A me chiese una cosa sola, solamente di riprendere quel lavoro. Poi, non le so dire nella sua visione globale, in quello che stava facendo, come e dove questa indagine si inquadrava, perchĂ© sicuramente aveva un disegno molto piĂč ampio. PerĂČ, sfortunatamente non abbiamo mai avuto l’occasione di riparlarne.
ââPRESIDENTE. Grazie mille.
ââPrego, onorevole Serracchiani.
ââDEBORA SERRACCHIANI. Grazie, presidente. Intanto vorrei rassicurare i nostri auditi, ringraziandoli ovviamente per la pazienza e per il tempo che ci stanno dedicando, che figure come quelle di Falcone e Borsellino sono patrimonio dell’Italia intera. Non hanno colore politico, non dovrebbero averlo. Quindi, vorrei che fosse chiaro a tutti noi e anche a lei, generale, che non c’Ăš una parte di cattivi e una parte di buoni, stiamo semplicemente cercando di fare il nostro lavoro e provare a chiarire delle questioni che oggettivamente chiare non lo sono mai state. Per cui, l’utilitĂ di questa audizione ha soltanto quell’obiettivo, generale, non ce n’Ăš un altro. E proprio perchĂ© lei dice che conosceva meglio Borsellino, io citerĂČ proprio Paolo Borsellino: «Non c’Ăš mafia senza politica perchĂ©…».
MARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Mi scusi, la correggo. Conoscevo meglio Falcone, non Borsellino.
ââDEBORA SERRACCHIANI. Mi scusi, avevo capito Borsellino. Va bene, allora le ricordo quello che diceva Borsellino, Ăš sempre utile: «Mafia e politica sono due poteri che stanno sullo stesso territorio: o si fanno la guerra, o si mettono d’accordo».
ââParto da qui per dire che ad alcune domande che noi abbiamo fatto nel corso di queste lunghe audizioni lei ha tenuto a precisare che rispondeva da tecnico e non da politico, ma considerando i ruoli o, comunque, dando la sensibilitĂ politica che si puĂČ cogliere in questi rapporti. Ă anche vero, perĂČ, che per i ruoli che lei ha avuto â non mi riferisco soltanto a quando aveva la divisa, ma anche ai ruoli che ha avuto soprattutto nei servizi â noi non possiamo non pensare che questi rapporti con la politica ci siano stati. Quindi, quando le chiediamo che cosa ne pensava o qual era la sua sensibilitĂ , lo facciamo perchĂ© vorremmo capire che idea si Ăš fatta lei in quegli anni e con quelle persone, per esempio, rispetto alle elezioni politiche del 1987, rispetto all’omicidio di Salvo Lima del 1992, rispetto al ruolo di Marcello Dell’Utri. Su questo, per esempio, io non posso dirmi soddisfatta delle risposte, perchĂ© su questo le risposte non ci sono state.
ââLe faccio una domanda piĂč attuale, se vuole, che Ăš quella legata a una trasmissione televisiva, 100 Minuti, trasmessa su LA7, in cui lei Ăš stato intervistato sulla vicenda Vaccarino-Messina Denaro. Vaccarino sappiamo chi Ăš, quindi non sto qui a ripetere e precisare. So che lei sa. La vicenda Vaccarino-Messina Denaro Ăš stata gestita quando lei era al SISDE. Da quanto emerge, sono state rese pubbliche soltanto le risposte di Matteo Messina Denaro a Vaccarino, ma vorremmo capire, per esempio, perchĂ© non sono disponibili le lettere che voi scriveste Pag. 26a Messina Denaro. Penso che sia importante poterle avere. Sarebbe importante acquisirle e analizzarle, proprio per completezza rispetto a quello che diceva poc’anzi il colonnello De Donno. La vicenda Vaccarino dimostra che, comunque, anche al SISDE avete continuato a occuparvi delle vicende palermitane e siciliane. Arrivo alla domanda: avete fatto poi anche altre operazioni che riguardavano sempre quelle vicende? Che cosa ci puĂČ dire, per esempio, del «Protocollo Farfalla»? Parlo del protocollo che Ăš stato sottoscritto con il DAP, allora guidato da Tinebra. Queste sono domande su cui forse si crea un contesto rispetto alle cose che sono state dette e che chiariscono.
ââDa ultimo, poste, come avete detto piĂč volte, la serietĂ e la determinazione con cui avete fatto queste indagini, avete acquisito informazioni, avete avuto questi collegamenti e questi legami, possibile che non possiamo riuscire a capire quali fossero i rapporti con la politica di allora, con alcune figure, anche figure che poi hanno avuto un ruolo da protagonisti in alcune delle vicende piĂč importanti? Cito ancora una volta Marcello Dell’Utri. Su questo francamente vorrei capire quello che sapeva, se sapeva, come si Ăš mosso, se aveva avuto qualche indicazione o altro su quello che stava accadendo proprio in quel periodo, in quei luoghi, con quelle persone.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Onorevole, lei ha ripetuto, grosso modo, la domanda che ha fatto il senatore Verini l’altra volta. Io sono un tecnico, mi considero un grande tecnico, un grande professionista, ma non sono un politico e non voglio fare politica. Se l’avessi voluta fare, forse un posto me l’avrebbero anche dato. Ma non voglio fare politica. Quindi, io non faccio valutazioni di natura politica. I miei atti sono informative all’autoritĂ giudiziaria, e io le ho fatte. Durante il periodo di direzione del servizio ho fatto delle informative alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Pag. 27com’Ăš mia competenza, e basta. Questa Ăš la riposta che le posso dare. Se lei, come ha fatto l’onorevole precedente, vuole sindacare la mia specifica attivitĂ tecnica, Ăš doveroso da parte mia rispondere. Sulla parte politica non intendo rispondere.
ââPer quanto riguarda Vaccarino e il «Protocollo Farfalla», siccome le operazioni le ha fatte direttamente e personalmente l’allora capitano De Donno, mi sembra che sia piĂč giusto che risponda lui.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Brevissimamente, per quanto riguarda i rapporti politica e mafia, erano oggetto della nostra informativa, quindi quando li abbiamo individuati e abbiamo ritenuto che fossero oggetto di reato abbiamo fatto l’informativa. «Mafia e appalti» parte da questo.
ââVaccarino Ăš un’operazione che abbiamo gestito quando eravamo al SISDE. Il professor Vaccarino era ex sindaco di Castelvetrano, professore, credo, al liceo del giovane Matteo Messina Denaro, amico della famiglia. Entriamo in contatto con lui, lo convinciamo a collaborare e lo convinciamo a prendere contatti con Matteo Messina Denaro. Le lettere che Vaccarino ha scritto e le lettere che Matteo Messina Denaro scriveva a Vaccarino sono state tutte consegnate alla procura della Repubblica di Palermo, quindi, la procura della Repubblica di Palermo ce le ha. Tant’Ăš vero che, quando divenne nota questa operazione, la procura ci intimĂČ di bloccare l’operazione che stavamo conducendo e di passare tutta l’attivitĂ alla Polizia di Stato. PerchĂ© successe questo? PerchĂ©, quando iniziammo questa attivitĂ e riuscimmo a entrare in contatto con Matteo Messina Denaro, sostanzialmente la lettera era un pizzino che veniva consegnato, quindi all’inizio non eravamo certi di giungere a Matteo Messina Denaro. Quando arrivarono le risposte, noi, sebbene servizio di intelligence e non di polizia giudiziaria, Pag. 28avvisammo di tale attivitĂ il Procuratore nazionale antimafia, dottor Grasso, il quale ci disse di proseguire l’attivitĂ e che avrebbe pensato lui a coordinarsi con le procure competenti. CosĂŹ fu fatto. Noi proseguimmo questa attivitĂ . Il nostro obiettivo, ad essere oggettivamente onesti, all’inizio non era la cattura di Matteo Messina Denaro. Come si potrĂ valutare dalle lettere e dalle attivitĂ che fece la procura di Palermo, l’obiettivo era quello di ottenere da Matteo Messina Denaro l’affidamento in gestione di tutte le risorse economiche, per un reinvestimento all’estero. Noi volevamo togliergli tutti i soldi. Poi, casomai, avremmo catturato Matteo Messina Denaro. Questo fu autorizzato da cosa nostra, ma non avvenne, perchĂ© poi la procura di Palermo ci bloccĂČ. A nostra insaputa che cosa era successo? Chiaramente non controllavamo tutti i canali. Matteo Messina Denaro, nel corso dell’interlocuzione con il professor Vaccarino, scriveva a Bernardo Provenzano e notiziĂČ Provenzano di questa iniziativa del Vaccarino. Tenga conto che tra uno scritto e una risposta mediamente passavano quaranta giorni, perchĂ© chiaramente il pizzino andava dato a una persona, che poi la teneva alcuni giorni per evitare i controlli. Insomma, fino a che arrivava e ritornava passava del tempo. Provenzano autorizzĂČ Matteo Messina Denaro a far fare a Vaccarino questa attivitĂ di riciclaggio e reinvestimento. Tant’Ăš vero che â anche questo Ăš agli atti â venne a un incontro con Vaccarino un imprenditore mandato da Matteo Messina Denaro per iniziare questo tramite. Che cosa successe? Che nel corso di tutta questa attivitĂ la Polizia di Stato arresta Bernardo Provenzano e nel suo covo trova tutti i pizzini che lui aveva scritto, e in questi pizzini chiaramente trova anche quelli scritti da Matteo Messina Denaro in cui si faceva riferimento a un tale «V.C.», che era il tramite. Capendo, chiaramente, che la Polizia non ci avrebbe messo molto a individuare Vaccarino e non sapendo che cosa Pag. 29stesse facendo, noi, d’intesa con il Procuratore nazionale, avvisammo il Capo della Polizia, all’epoca il dottor De Gennaro, il quale prese contatto con la procura di Palermo. La procura di Palermo non era stata informata da noi, perchĂ© noi seguivamo le direttive all’epoca del dottor Grasso, allora si relazionĂČ con il dottor Grasso. Sebbene la nostra intenzione fosse quella di proseguire l’attivitĂ , ci ordinĂČ di sospendere l’attivitĂ e di consegnare tutto alla Polizia di Stato. Noi cosĂŹ facemmo. Su questa attivitĂ la procura di Palermo e la Polizia arrestarono una serie di persone, per cui furono disvelate tutte queste attivitĂ . Fu addirittura disvelato il ruolo di Vaccarino. Vaccarino non fu sottoposto a programma di protezione all’epoca e ricevette un’ulteriore lettera da Matteo Messina Denaro di minacce. Poi, l’attivitĂ ebbe il naturale svolgimento. Tutte le attivitĂ , con tutte le note, sono state consegnate, quindi non sono assolutamente segrete. Le ha la procura di Palermo.
ââIl «Protocollo Farfalla» Ăš stato oggetto, anch’esso, di un’indagine della procura della Repubblica di Roma, archiviata perchĂ© non c’era alcun illecito. In che cosa consisteva il «Protocollo Farfalla»? Io credo che fosse un’idea assolutamente corretta e utile. Tra l’altro, era un protocollo tra due organismi dello Stato, il SISDE, che, in quanto agenzia di intelligence, Ăš un organismo dello Stato, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, all’epoca, come lei ha giustamente detto, retto dal dottor Tinebra. Sostanzialmente questo protocollo, che era un protocollo scritto, non orale, non fatto tra amici al bar, ma scritto su carta formale, con tanto di protocollo, chiaramente segreto, prevedeva che, ove la Polizia penitenziaria avesse raccolto nelle carceri segnali di malessere o problemi, o qualche altro segnale che potesse far intendere che detenuti di un certo livello, quindi parliamo di articolo 416-bis, o legati ad ambienti del terrorismo,Pag. 30 ci avrebbe informato per iscritto, quindi in maniera formale, con tanto di protocollo, affinchĂ© noi potessimo avviare un’attivitĂ informativa sui familiari e cercare di arrivare al reclutamento di queste fonti informative, che Ăš l’attivitĂ che la legge prevede per il servizio di intelligence. Sostanzialmente Ăš questo.
ââIl protocollo fu applicato, se non sbaglio, solamente in uno o due casi, con un appartenente alla camorra e poi in un altro caso che non ricordo. Poi questa cosa Ăš diventata pubblica ed Ăš nata un’indagine che ha scandagliato tutti gli elementi e che alla fine Ăš stata archiviata, perchĂ© in realtĂ non esisteva nulla di illecito.
ââNon so se ho risposto.
ââPRESIDENTE. Prego, senatore Sallemi.
ââSALVATORE SALLEMI. Grazie, presidente. Generale e colonnello, io nel 1992 avevo quindici anni, quindi, considerato che Ăš la prima volta che vi incontro, permettetemi di ringraziarvi da siciliano per quello che avete fatto nel contrasto alla mafia in Sicilia e nel resto della Nazione. Quindi, vi ringrazio fortemente.
ââNella relazione che avete lasciato alla Commissione e in molte delle dichiarazioni che nel tempo avete reso all’autoritĂ giudiziaria avete sempre sottolineato con particolare chiarezza l’attenzione che il dottor Falcone prestava all’indagine da voi condotta, nota come «mafia e appalti», e avete chiarito come egli l’avesse seguita sin dal suo nascere e ritenesse l’approfondimento dei rapporti tra mafia, imprenditoria e politica un passaggio fondamentale per un efficace contrasto a cosa nostra. Per questo motivo, avete detto che il rapporto del 16 febbraio 1991 Ăš stato consegnato dal dottor De Donno nelle mani del dottor Falcone…
PRESIDENTE. Le chiedo scusa, senatore, interrompiamo l’audizione soltanto per qualche minuto.
ââ(La seduta, sospesa alle ore 12.35, riprende alle ore 12.50)
ââPRESIDENTE. Prego, senatore Sallemi. Chiedo scusa dell’interruzione, ma era dovuta.
ââSALVATORE SALLEMI. Grazie, presidente.
ââDicevo, nella relazione che avete lasciato alla Commissione, ma anche in molte delle dichiarazioni che nel tempo avete reso all’autoritĂ giudiziaria, avete sempre sottolineato con particolare chiarezza l’attenzione che il dottor Falcone prestava all’indagine da voi condotta, nota appunto come «mafia e appalti». Avete chiarito come egli avesse seguito sin dal suo nascere e ritenesse l’approfondimento dei rapporti tra mafia, imprenditoria e politica un passaggio fondamentale per un efficace contrasto a cosa nostra.
ââPer questo motivo avete detto: «Il rapporto 16 febbraio 1991 Ăš stato consegnato dal dottor De Donno nelle mani del dottor Falcone prima che egli lasciasse la procura di Palermo». Avete ricevuto direttamente o indirettamente sollecitazioni da parte di magistrati della procura di Palermo o di altri per ritardare di deposito dell’informativa? Se sĂŹ, quali motivi furono rappresentati in proposito? Parlaste di ciĂČ con il dottor Falcone? Se sĂŹ, che cosa vi disse? Il dottor Falcone vi aveva mai manifestato prima del deposito la sua preoccupazione per le sorti di quell’indagine dopo il suo allontanamento dalla procura? Grazie.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Penso che la materia sia piĂč competenza di De Donno che l’ha vissuta direttamente.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Il fascicolo era assegnato direttamente al dottor Falcone, al dottor Pignatone e al dottor Lo Forte. L’altra volta avevamo fatto quel piccolo errore riguardo l’annotazione del deposito. Il dottor Falcone era preoccupato per l’informativa e fu il motivo per cui ci chiese di depositare l’informativa prima della sua partenza da Palermo. Io all’epoca non ero convinto di questa ipotesi, perchĂ© erano quasi due anni che lavoravamo, ma il lavoro non era assolutamente completo. Ripeto, c’erano una marea di cose da sviluppare, da approfondire, di fronti da aprire. Tenga conto che non avevamo aperto neanche realmente il filone Calcestruzzi. Questo lo dico perchĂ© a volte si cita l’informativa. Questo si ricollega anche a tutto il problema relativo all’archiviazione. All’epoca iniziammo questo lavoro come Seconda Sezione del Nucleo operativo di Palermo che era in gergo la Sezione omicidi. Eravamo in tutto una trentina di persone. Mentre gestivamo questa indagine che io avevo portato da Bagheria, dove ero prima di arrivare a Palermo, nel frattempo noi gestivamo tutti gli omicidi che succedevano a Palermo e provincia. Nel frattempo facemmo anche l’indagine sul comune di Palermo, che portĂČ ai due arresti di Vito Calogero Ciancimino e altri. Per cui, non avevamo una massa di personale sufficiente a sviluppare tutte le attivitĂ . GiĂ il numero delle intercettazioni telefoniche era altissimo, tenuto conto che all’epoca fortunatamente non esistevano i cellulari, non esistevano ancora perĂČ degli strumenti tecnici particolari. All’epoca iniziammo con le prime microspie, ma erano molto rudimentali, perchĂ© furono i primi esperimenti tra il 1990 e il 1991.
ââQuando il dottor Falcone mi chiese di fare l’informativa io gli dissi: «Giovanni, non siamo pronti, non Ăš completa. Ci sono una marea di cose che restano aperte». Lui mi disse: «No, la dovete fare prima che io me ne vada, perchĂ©, tu lo sai, qui Pag. 33succederĂ un âcasinoâ». Chiaramente alla fine ebbe ragione lui e quindi noi facemmo l’informativa; informativa che era sostanzialmente in alcune parti molto concreta, nel senso che c’erano giĂ tutti gli elementi per definire il sistema di gestione di mafia e appalti in Sicilia, c’era tutto il discorso di alcuni imprenditori che erano ben focalizzati, c’era tutto il discorso di Bini della Calcestruzzi, c’era tutta la parte Buscemi, Salamone, Siino, c’era tutto quel mondo. PerĂČ, c’erano una serie di indizi, perchĂ© nelle telefonate molto spesso si faceva riferimento ad appalti di un comune, «dobbiamo fare quella gara». Tutta questa cosa era un lavoro su cui teoricamente avremmo dovuto aprire altre intercettazioni e altre attivitĂ . All’epoca feci una scelta. La scelta fu tra tutte le attivitĂ di concentrarci sulla SIRAP. Contemporaneamente al lavoro dell’informativa di novembre attivammo le intercettazioni sulla SIRAP che ci portarono ad aprire un altro mondo, perchĂ© fu il mondo della maggiore connessione ai politici, dei mille miliardi della SIRAP, delle aree, quindi tutto quel sistema. Tutta questa cosa non la facemmo. La mattina che gli portai l’informativa lui era nell’ufficio, mi ricordo che stava facendo i pacchi, perchĂ© stava andando via, era, se non l’ultimo, uno dei pochissimi giorni prima della partenza, lui la firmĂČ per ricevuta, «Giovanni Falcone», e la portĂČ su dal procuratore. Fu una sorta di atto per dire «l’ho ricevuta ed Ăš firmata da me». Ă un non detto, «l’ho firmata io, quindi sta qui». Quando scese mi disse: «Non hai idea di quanti guai vi procurerĂ questa informativa». Sul momento la presi cosĂŹ, poi mi ricordo che quel giorno fu un giorno molto triste, perchĂ© lo aiutai a impacchettare le cose del suo ufficio e quindi finĂŹ lĂŹ. Questo Ăš il clima di quel momento.
ââDa quella attivitĂ si vanno a rivedere una serie di parti. Ecco perchĂ© noi eravamo contrari e nel documento che abbiamo presentato c’Ăš la spiegazione anche tecnica del problema degli Pag. 34omissis sul deposito al tribunale del riesame. Alla fine, proprio per sottolineare l’importanza del lavoro di prosecuzione, facemmo delle schede, le famose quarantaquattro schede che erano alla fine dell’informativa, perchĂ© l’informativa era di circa 900 pagine e non so quante centinaia di allegati. Alla fine noi facemmo delle schede sui personaggi che, secondo noi, erano i piĂč importanti di tutto quel lavoro fino a quel momento ed erano quelli sui quali si sarebbe dovuto proseguire a lavorare. Se Ăš questo il contesto della sua domanda spero di aver risposto.
ââPRESIDENTE. Grazie.
ââMi inserisco prima di altri iscritti dopo la riflessione che ha appena fatto il colonnello De Donno sul contesto. Molti di noi in questa Commissione hanno letto i diari di Falcone, e molti altri, non contenti dei diari di Falcone, hanno letto le varie dichiarazioni fatte dalla dottoressa Milella sulla grande delusione che ebbe Falcone in quel periodo, che Ăš una frase che ritrovo in altre dichiarazioni che fece il Ministro Martelli. Leggo testualmente: «Quel che ricordo Ăš che Falcone osservĂČ che Giammanco aveva trascurato o insabbiato quell’indagine». Io vi chiedo, rispetto a queste riflessioni sia della dottoressa Milella che del Ministro Martelli, proprio per quello che avete raccontato, avete avuto occasione di parlare con Falcone quando era giĂ a Roma, quindi quando si era giĂ trasferito al Ministero, dell’esito della famosa indagine «mafia e appalti»? Lui in quella sede, in quel momento, vi ha fatto qualche confidenza o ha fatto qualche valutazione?
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Con il dottor Falcone restammo in contatto. Chiaramente ne parlammo, perchĂ© era «la sua indagine». Ne parlammo e lui sapeva della delusione che noi avevamo perchĂ© Pag. 35intervenne nel famoso convegno al Castello Utveggio e intervenne successivamente. Anche quando ci furono i primi esiti delle indagini noi rappresentammo â avevamo un buon rapporto, io lo vedevo spesso a Roma â che non eravamo contenti di come stava andando il lavoro, perchĂ© non avevamo la possibilitĂ di svilupparlo. Lui questo lo sapeva. Una volta ricordo che, l’abbiamo detto forse l’altra volta, in questo incontro ci disse: «Tra un po’ cambia tutto. Con la Superprocura cambia tutto. Voi venite con me». Il colonnello gli disse: «Oggettivamente forse siamo piĂč utile al ROS che alla Superprocura», anche perchĂ© nella nostra idea le sezioni di polizia giudiziaria presso le procure non brillano per capacitĂ operativa o perlomeno noi come istituzione non mandiamo i migliori nelle sezioni di polizia giudiziaria delle procure. Lui ci rispose: «Con me cambia tutto perchĂ© io come Procuratore avrĂČ intanto il potere di svolgere indagini, quindi farĂČ le indagini di mia iniziativa, ma soprattutto avrĂČ il potere di acquisire i fascicoli dalle procure dove ritengo che non siano stati sufficientemente sviluppati». Noi gli dicemmo: «A queste condizioni sicuramente sÏ». L’altra parte di questo organismo di polizia giudiziaria era la Polizia di Stato con il dottor De Gennaro Questo era il contesto, sicuramente lo sapeva. Tra l’altro, mi ricordo che il giorno dell’omicidio Lima fui io a chiamarlo per la prima volta e gli dissi: «Hanno ammazzato stamattina Lima». Lui mi disse: «à una cosa gravissima, cambia tutto. Fammi sapere», e attaccĂČ il telefono. Per la parte nostra sapeva. Sicuramente avrĂ avuto altre informazioni da altri lati.
ââPRESIDENTE. Grazie.
ââOnorevole Piccolotti, prego.
ââELISABETTA PICCOLOTTI. Rivolgo una domanda molto breve che presuppone una risposta specifica. Lei, generale, Pag. 36prima, rispondendo a domande che riguardavano la necessitĂ di fare alcune considerazioni politiche, in particolare sull’uccisione di Salvo Lima, poi anche la collega Serracchiani le ha chiesto di Dell’Utri, ha detto: «Io non parlo di politica, non voglio fare il politico. Ho parlato nella mia vita attraverso le informative». Le chiedo se, oltre all’informativa «mafia e appalti» lei abbia firmato altre informative che invece hanno a che vedere con filoni di indagine in cui sono stati coinvolti altri politici, perchĂ© questo potrebbe essere di interesse della Commissione.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Si riferisce a Palermo o ad altre parti?
ââELISABETTA PICCOLOTTI. A Palermo, ma se invece in altre parti, in altri momenti della sua vita professionale, con altre funzioni, ha comunque depositato informative che hanno un’attinenza con le cose che stiamo discutendo, forse Ăš bene che la Commissione possa saperlo.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Ho avuto una lunga vicenda professionale. Mi sono interessato di terrorismo e poi di criminalitĂ . Ă chiaro che durante il periodo del terrorismo ho fatto una serie di informative, ma lei mi coglie di sorpresa perchĂ© dovrei fare un elenco abbastanza lungo che in questo momento non ho presente. Certo, ho fatto delle informative per quanto riguarda il terrorismo, ma sempre come tecnico di polizia giudiziaria.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Onorevole, se la sua domanda Ăš riferita al problema «mafia e appalti», formalmente l’informativa di Palermo fu firmata dal colonnello. Alla fine dell’informativa Ăš riportata questa dizione: «Indagini e informativa a cura del capitano De Pag. 37Donno e dei militari della Seconda Sezione, Primo Reparto del Raggruppamento operativo dei Carabinieri». Il colonnello Mori firmĂČ l’informativa come comandante del Reparto. La firmĂČ per un motivo specifico. Non Ăš usuale questo. Chi ha lavorato nei Reparti lo sa, perchĂ© molto spesso i superiori rifuggono dal firmare informative complesse. Il colonnello volle firmare questa informativa e le ultime tre pagine furono da lui scritte personalmente perchĂ© si trattava di un’informativa molto complessa, molto particolare, che riguardava il sistema di cosa nostra, il mondo politico, l’imprenditoria e quindi potenzialmente anche pericolosa per i militari che l’avevano condotta. Volle firmarla come comandante per sottolineare che il comandante era lĂŹ, che dietro non c’erano solo il capitano De Donno e una sezione, ma c’era il Comando del ROS.
ââIn prospettiva noi poi abbiamo fatto una serie di altre informative che perĂČ non ha firmato il generale, ma ho firmato io direttamente. Abbiamo ripetuto indagini sul mondo della politica, degli appalti e altri sistemi criminali sia in Campania che a Reggio Calabria. Credo che le informative siano state sempre firmate da me, ma il colonnello era il comandante del Reparto, quindi sapeva tutto. Se intendeva questo, in altre parti del territorio nazionale abbiamo continuato a lavorare esattamente su questo sistema, soprattutto in Campania in Calabria. Assolutamente sĂŹ.
ââELISABETTA PICCOLOTTI. Grazie.
ââQuesto lo aveva giĂ specificato anche nell’audizione. PerĂČ, a Palermo altre informative su altri fatti diversi dal filone «mafia e appalti» non sono state prodotte, da quello che capisco dalla risposta.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. No, attenzione. Altre informative ci sono state.
PRESIDENTE. Che riguardino i politici. Questo sta dicendo.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Tutta la parte SIRAP sĂŹ, perĂČ l’ho firmata io.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Nel 1990.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. C’Ăš tutta la parte Ciancimino, c’Ăš tutta la parte delle deleghe date alla procura. Sono informative fatte da me come comandante della Sezione del Primo Reparto.
ââPRESIDENTE. Si Ăš iscritto il senatore Sigismondi.
ââETELWARDO SIGISMONDI. Grazie, generale. Grazie, colonnello.
ââIl dottor Ingroia, sentito dalla Commissione antimafia siciliana il 25 maggio 2021, nello spiegare le ragioni per le quali il dottor Borsellino aveva detto al colonnello Canale, come da lui riferito anche davanti a questa Commissione: «non passa l’estate che a Giammanco lo arrestiamo», affermĂČ: «Su Giammanco le cose principali su cui poteva essere oggetto il suo approfondimento era la famosa faccenda del rapporto âmafia e appaltiâ del ROS, sulla quale giĂ quando eravamo a Marsala lui aveva avanzato sospetti sulle coperture di Giammanco e di qualche altro magistrato della procura».
ââArrivo alla domanda. Il dottor Borsellino mostrĂČ mai, nel parlare con voi, dubbi sull’operato dei suoi colleghi della procura?
MARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Per quanto mi riguarda, no.
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. No. Io ho avuto solamente un primo incontro a Marsala e poi quello del 25 giugno. Non abbiamo poi avuto altro tempo. Con me no. PuĂČ essere un segnale il fatto che mi disse, pur non avendo la delega a lavorare sulla provincia di Palermo: «C’Ăš una condizione, che lei parla solamente ed esclusivamente con me» era il segno che non voleva che altri lo sapessero, perĂČ commenti particolari con me non li ha fatti.
ââPRESIDENTE. Ă iscritto il senatore Verini.
ââWALTER VERINI. Voglio premettere con le stesse parole il concetto che anche quando feci domande l’altra volta, generale, espressi. Il concetto era che io considero lei e i suoi collaboratori dei servitori dello Stato che hanno combattuto sempre la criminalitĂ . Aggiungo anche che a me, al di lĂ dei nomi e dei cognomi, dispiace quando servitori dello Stato sono contrapposti tra loro, magistrati e carabinieri, perchĂ© penso che chi combatte la criminalitĂ , la criminalitĂ organizzata, debba avere un ruolo comune, possibilmente. Detto questo, che ripeto senza alcuna difficoltĂ , tengo anche a dire che le domande formulate dal sottoscritto, poi dal deputato Provenzano l’altra volta, oggi dalla collega Serracchiani non erano, generale, domande politiche. Nessuno le chiede di esprimere giudizi politici che lei evidentemente non puĂČ e non dovrebbe neanche esprimere, non Ăš suo compito. Erano, perĂČ, domande per capire se dai suoi punti, autorevolissimi, di osservazione lei avesse maturato un’idea secondo la quale ambiti e settori della politica nazionale e non solo locale, in qualche misura interagissero in collaborazione con ambienti e associazioni mafiose per intervenire nelle dinamiche politico-economiche, anche «mafia e appalti», ma non solo «mafia e appalti», stragi. Sa perchĂ© ribadisco e ho chiarito questo? PerchĂ© io vorrei capire come il suo riserbo, che Pag. 40lei ha piĂč volte reiterato in questa circostanza, sia coerente con delle intercettazioni che sono agli atti del processo «trattativa» e brevissimamente cito, che raccontano di un fatto, di una non indifferenza sua e del colonnello De Donno nei confronti di certi ambienti politici. Oggi lei dice: «Io non posso, io sono un tecnico», ma queste intercettazioni, se sono vere, sono depositate agli atti, raccontano un’altra storia, generale.
ââQuando la sera del 9 marzo 2012 la Corte di cassazione annullĂČ con rinvio la sentenza Dell’Utri, che significa che lui era sempre imputato dopo aver avuto due condanne in primo e in secondo grado, la Cassazione non dice: «Io ti assolvo», ma annulla con rinvio. Tanto che due anni dopo Dell’Utri venne condannato in via definitiva per associazione mafiosa e ha pagato il suo debito, oggi Ăš un cittadino assolutamente nel pieno dei suoi diritti. PerĂČ, De Donno chiama Dell’Utri e dice, commentando la sentenza della Cassazione: «C’Ăš ancora speranza in questo Paese. C’Ăš ancora speranza». E Dell’Utri risponde: «Esatto, non pensavo». «Si vede che, nonostante tutto» â replica il colonnello â «qualche persona onesta e di intelligenza c’Ăš ancora. Non si sono tutti giocati il cervello». Dell’Utri risponde: «Bravissimo. Questo incoraggia». De Donno: «Sono davvero contento, senatore. Complimenti». Lo dice a un imputato per associazione mafiosa che due anni dopo sarĂ condannato, che aveva giĂ subito due condanne di primo e secondo grado. Dice: «Ci vediamo presto».
ââChiudo, presidente, dicendo che il giorno dopo il colonnello De Donno riferisce per telefono a lei, generale Mori. Lei dice, commentando la sentenza: «à veramente una mazzata terrificante per loro». Per loro chi? Per coloro che indagavano un imputato per associazione mafiosa?
ââDe Donno: «Mostruosa, mostruosa la mazzata, signor generale». Mori: «Sono contento per lui, perchĂ©, insomma…». Sono Pag. 41attribuite a lei, generale, queste parole. De Donno: «Gli ho telefonato ieri sera». Lei, colonnello Mori: «Ha fatto bene».
ââChiudo qui perchĂ© la sostanza c’Ăš tutta. Mi chiedo, se sono vere e sono depositate agli atti di un processo queste intercettazioni tra lei e De Donno e tra De Donno e Dell’Utri, Ăš possibile che, visti questi rapporti cordiali con un imputato, non vi siate fatti un’idea non politica, ma del ruolo che ambienti della politica possano avere esercitato in quel frangente e in quelle vicende che hanno determinato non solo stragi, assassinii e omicidi, ma anche che in qualche modo hanno influito nel corso della storia del nostro Paese?
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Senatore, rispondo brevissimamente per la parte che mi riguarda. Sono intercettazioni assolutamente vere, che mi sono giĂ state contestate in dibattimento piĂč volte dai pubblici ministeri. Io non ho mai fatto mistero di essere amico all’epoca del senatore Dell’Utri. Quando ci fu questa sentenza gli telefonai perchĂ© ero assolutamente convinto dell’innocenza del senatore Dell’Utri, non ero assolutamente convinto della sua contiguitĂ o appartenenza ad associazione mafiosa. Che poi due anni dopo sia stato condannato sulla base di altre cose, sono altre questioni. Io ho espresso un saluto a una persona che stimavo e stimo, perchĂ© ritengo che sia fuori da quel concetto, ma le sentenze vanno accettate per quelle che sono. Quindi, quella intercettazione c’Ăš. Mi sembrava, quando faccio riferimento alla «mazzata», tant’Ăš vero che la Cassazione rimanda con rinvio, che ci fosse una costruzione un poco forzata su quei temi, su quelle discussioni, cosĂŹ come nel processo «trattativa Stato-mafia» Ăš stato inserito ancora una volta anche il senatore Dell’Utri, che poi Ăš stato assolto anche lui da queste accuse, perchĂ© c’Ăš sempre una costruzione che tende ad arrivare da alcuni punti. Io non lo nego. Sul rapporto di come la politica Pag. 42possa avere influito su alcune dinamiche, ma noi stiamo discutendo del discorso «mafia e appalti». Noi questa cosa della politica contigua alla mafia la diciamo da una marea di anni, la diciamo dal 1991. Siamo stati noi i primi a dirlo. Non siamo reticenti nel non voler dire che la politica non abbia avuto un ruolo. L’abbiamo scritto, abbiamo fatto i nomi, abbiamo fatto le intercettazioni, abbiamo fatto le informative. Io sono addirittura andato in procura a Caltanissetta a denunciare dei magistrati. Mi sembra che come ufficiale di polizia giudiziaria piĂč di questo non potessi fare. Oltre a questo, i giudizi che si possono dare su altre vicende, su come sono andate le elezioni, come dice il signor generale, non mi competono, non ho indagato. Se avessi indagato su altre questioni le avrei risposto tranquillamente. PerĂČ, non ci vedo nulla di strano, assolutamente.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Per quanto mi riguarda, ho conosciuto il senatore Dell’Utri perchĂ© mi fu presentato dall’allora Presidente del Consiglio Berlusconi quando io comandavo la Legione Carabinieri Lombardia. L’ho incontrato due o tre volte, ma si discuteva di tutt’altro che di politica. Io di politica non ho mai parlato. Lei ha letto un fatto in cui io dimostro una particolare propensione verso Dell’Utri. Me la prendo con qualcheduno, sicuramente erano quelli della procura di Palermo con cui ho un rapporto pessimo, ma questo Ăš notorio. Continua ad essere pessimo e li disistimo profondamente.
ââPRESIDENTE. Ho ancora due o tre iscritti e poi chiudo, anche perchĂ© so che ci sono problemi di treni. PerĂČ, mi collego soltanto alla questione aperta sulla presunta omissione o comunque reticenza sui rapporti politici per fare una domanda che peraltro forse in parte risponde anche a quello che veniva accennato prima sulla SIRAP.Pag. 43
ââCome avviene anche in questi periodi, nel mese di giugno del 1991, la stampa anticipa l’esistenza di un’indagine, dell’indagine «mafia e appalti» e del fatto che esistessero delle conversazioni che coinvolgevano importanti personaggi politici. Il riferimento della stampa dell’epoca era in particolare a De Michelis.
ââLa procura di Palermo ha negato di aver avuto all’epoca la disponibilitĂ di quelle conversazioni e ha sostenuto di aver trovato inaccettabile e incomprensibile la divulgazione di queste notizie. Poi, la vicenda Ăš stata chiarita, come peraltro avevate evidenziato anche nella vostra nota dal dottor Lo Forte che prima del famoso rapporto del 16.02.1991 erano state depositate alcune informative. Queste informative, tra cui quelle del 2 luglio del 1990 e del 5 agosto del 1990, erano quelle richiamate e allegate a cui effettivamente si faceva riferimento, che erano quelle poi riportate dalla stampa, di personaggi politici di rilevanza nazionale.
ââA me risulta, dagli atti della Commissione che ho potuto leggere, che proprio queste conversazioni e l’esistenza dell’attivitĂ di indagine effettuata sui vertici della SIRAP furono rese note dai magistrati di Palermo, in particolare da Lo Forte e da De Francisci, agli stessi intercettati. Ă agli atti il verbale di assunzione di informazioni del politico siciliano La Cavera, a quel tempo posto al vertice della SIRAP, dal quale peraltro risulta che giĂ nel maggio 1991, quindi prima dell’uscita degli articoli, venne data lettura delle conversazioni intercettate per avere spiegazioni sul loro contenuto. Nelle conversazioni lette a La Cavera Ăš menzionata l’esistenza di un comitato che gestiva il sistema di aggiudicazione degli appalti in Sicilia ed erano menzionati dei personaggi di rilievo della politica nazionale accostati a vicende di indubbia rilevanza mafiosa, se mi permettete. Tra questi nomi c’erano personaggi di spicco della Pag. 44Sicilia: Ciancimino, Lima, Lombardo, Capitummino, Gunnella, Riggio, Sciangula e anche De Michelis.
ââIo non voglio entrare nel merito delle conversazioni intercettate, perĂČ vorrei sapere da voi, proprio perchĂ© stiamo agli atti e alle informative, se eravate stati informati dalla procura di Palermo che avrebbero reso noti ai vertici della SIRAP, e in particolare a La Cavera, queste notizie. Da quello che risulta vennero fatte ancora prima delle perquisizioni e dell’arresto di Angelo Siino del luglio del 1991. Questa scelta fu da voi, che facevate queste investigazioni, condivisa? Come mai non avete partecipato a quella assunzione di informazioni?
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo.La scelta non fu condivisa. Non abbiamo partecipato perchĂ© la procura non ci informĂČ e non ci chiese di partecipare.
ââPRESIDENTE. Su una vostra indagine?
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Assolutamente sĂŹ. Bisogna dire per correttezza che il magistrato delegato Ăš competente a gestire l’indagine. Se il pubblico ministero decide di sentire delle persone e di non informare la polizia giudiziaria procedente lo puĂČ fare. Il fatto che questo sia totalmente irrituale, perchĂ© teoricamente tra pubblico ministero e polizia giudiziaria deve esserci un’intesa formale perchĂ© stanno facendo le indagini insieme, le gestiscono insieme e dovrebbero arrivare insieme al risultato, Ăš un altro discorso. Noi all’epoca non fummo informati e non fummo noi – dai verbali risulta, infatti la dottoressa Loforti, nell’ultimo capitolo della sua ordinanza, lo spiega bene – a divulgare i nomi, perchĂ© noi non sapevamo neanche che erano stati fatti questi atti. Questo, perĂČ, Ăš uno degli episodi, presidente.
âPRESIDENTE. Ă la fotografia del rapporto tra voi e la procura.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Esatto. Quando si crea questo clima, se tra chi sta facendo le indagini e chi teoricamente le coordina non c’Ăš uno scambio continuo di informazioni, Ăš normale che poi le due parti prendono vie diverse, ed Ăš la fotografia di quello che succedeva a Palermo in quel periodo.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Questo anche perchĂ© – a sostegno della mia informazione di prima – non stimavo quella gente e non ci volevo parlare.
ââPRESIDENTE. Senatore Russo, prego.
ââRAOUL RUSSO. Grazie, presidente.
ââRingrazio gli auditi.
ââParliamo della vicenda Li Pera. Vorrei sapere se voi avete avuto notizia che il dottore Borsellino o altri magistrati palermitani della stessa procura, in modo particolare, che si occupava delle indagini di «mafia-appalti», fossero stati informati da voi, dal dottor Lima o da altri, della collaborazione del Li Pera. Mi potete spiegare nel dettaglio cosa vi ricordate su questa vicenda, che peraltro, come Ăš stato richiamato prima, ha portato anche a un conflitto con il procuratore Caselli quando si Ăš scoperto successivamente?
ââVorrei sapere se avete contezza, notizia di reazioni su questa vicenda da parte del dottor Borsellino, su questo tema specifico.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Le rispondo subito. Questo Ăš un tema controverso, perchĂ© esiste la mia parola contro quella dell’allora dottor Roberto Scarpinato. Io, purtroppo, all’epoca, essendo un ufficialePag. 46 dei carabinieri, non pensavo di dover registrare i miei colloqui con i magistrati, perchĂ© pensavo fossimo tutti votati allo stesso risultato. Ho sbagliato.
ââLi Pera inizia a collaborare a Catania. Non mi dilungo, perchĂ© ne abbiamo parlato giĂ l’altra volta, ma qui c’Ăš il problema della doppia informativa, della teoria dell’esposto a norma, che, come abbiamo giĂ chiarito, non fu scritto da noi. Per portare Li Pera a Catania chiedemmo l’autorizzazione alla procura della Repubblica di Palermo. Non Ăš vero che Palermo lo sapeva, perchĂ© ci autorizzĂČ il dottor Lo Forte. Da questo poi nacque l’esposto, la richiesta di azione disciplinare del dottor Caselli nei miei confronti alla Procura generale di Roma.
ââLi Pera inizia a collaborare con Catania e spiega perchĂ© parla con Catania, spiega nei suoi verbali che aveva provato a rendere dichiarazioni ai magistrati di Palermo, che aveva mandato il suo avvocato dal dottor Pignatone a dire che lui era disponibile a rendere dichiarazioni e che Pignatone gli aveva detto che a lui non interessavano queste dichiarazioni. Questo riferito dall’avvocato a Li Pera, chiaramente. Quando Li Pera comincia a spiegare tutto il sistema di gestione degli appalti riempie centinaia di pagine di verbali.
ââIl dottor Lima non era alla procura distrettuale antimafia, per cui non prende le dichiarazioni, non entra nello specifico del discorso mafioso. Li Pera viene sentito mentre Ăš detenuto. Noi ci recavamo in carcere a Teramo e con degli escamotage, per non far capire che era sotto interrogatorio, proseguiamo i suoi verbali. A un certo punto, Li Pera inizia a parlare anche di come loro avevano avuto notizia dell’informativa e parla del ruolo di alcuni magistrati della procura di Palermo, raccontando una serie di circostanze. A quel punto, con il dottor Lima sorse il problema anche se di questa circostanza, che all’epoca appariva estremamente grave, era il caso o meno di avvisare il Pag. 47dottor Borsellino. PerchĂ© il dottor Borsellino? Bisogna provare a contestualizzare queste cose. Siamo nel periodo dopo la strage di Capaci, in un momento in cui tutti erano disorientati e sentivano il peso di quello che stava succedendo in Sicilia. Questa era l’ulteriore riprova che per tutti Borsellino era il nuovo riferimento della procura di Catania, era il successore di Giovanni Falcone.
ââIo dissi al dottor Lima che avevo un canale per avvisare il dottor Borsellino e gli dissi che avrei parlato con il dottor Scarpinato. All’epoca il dottor Scarpinato era tra coloro che avevano gestito l’indagine, quindi avevamo un buon rapporto. Nell’immediatezza della strage, era tra coloro che si opponevano, insieme ad altri magistrati, alla gestione di Giammanco della procura.
ââIo chiamai il dottor Scarpinato e ci incontrammo a Roma, in via Veneto, di fronte a un noto albergo, e gli dissi che a Catania Li Pera stava collaborando e che aveva iniziato a parlare anche di alcuni magistrati, tra cui Lo Forte, Pignatone, De Francisci e il procuratore Giammanco. Gli chiesi di poter avvisare riservatissimamente il dottor Borsellino di questa notizia perchĂ©, con tutto quello che stava succedendo, era fondamentale che Borsellino sapesse di questo e chiedevo a lui di fare questa attivitĂ perchĂ© io non potevo recarmi in procura a Palermo, visti i miei rapporti pessimi con tutti i magistrati, e se fossi andato a parlare con Borsellino tutti lo avrebbero saputo.
ââIl dottor Scarpinato mi disse di sĂŹ. Dopo alcuni giorni mi richiamĂČ e ci rivedemmo a Roma nello stesso posto e mi disse che il dottor Borsellino era stato informato, che mi ringraziava di questa informazione, che mi chiedeva di andare avanti e di avvisarlo quando con Catania saremmo stati pronti a rendere pubblici questi atti, perchĂ© congiuntamente loro avrebbero agito a Palermo.Pag. 48
ââNel frattempo, noi andiamo avanti con la gestione Li Pera e poi interviene la strage di via D’Amelio. Quando io riferisco questa circostanza all’autoritĂ giudiziaria di Caltanissetta, il dottor Scarpinato, sentito a Caltanissetta, nega che noi abbiamo avuto questo colloquio, dice che ci siamo incontrati a Roma, che abbiamo parlato di altre cose, ma non che io lo abbia informato della collaborazione di Li Pera. Per cui, al momento, Ăš la mia parola contro quella dell’attuale senatore Scarpinato.
ââNon ricordo se mi ha chiesto altre cose sulla questione di Lipera, chiedo scusa.
ââRAOUL RUSSO. Quindi, c’era stato un secondo incontro con il senatore.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. SĂŹ, ne abbiamo fatti due a Roma.
ââRAOUL RUSSO. Da cui avrebbe acquisito una reazione del dottore Borsellino.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Assolutamente sĂŹ, che perĂČ il senatore Scarpinato nega.
ââPRESIDENTE. Ho iscritto il senatore Melchiorre, per l’ultimo intervento.
ââFILIPPO MELCHIORRE. Grazie, presidente.
ââRisulta dagli atti che, durante la collaborazione del Li Pera a Catania, scopriste che Claudio De Eccher era al corrente di alcune notizie riservate trapelate dagli uffici palermitani e addirittura aveva la disponibilitĂ di verbali relativi all’interrogatorio del collaboratore Leonardo Messina, atti che all’epoca erano ancora segreti. Parte di questi verbali gli furono sequestrati,Pag. 49 essendo stati trovati indosso a lui dal capitano Parente del ROS. De Eccher giustificĂČ tale possesso, con il capitano Parente, dicendo genericamente di averli avuti in cancelleria a Palermo. Svolgeste indagini al riguardo? Scopriste in che modo Claudio De Eccher aveva acquisito la disponibilitĂ di quei verbali, in particolare di quali verbali si trattava e quale fosse il loro contenuto? PerchĂ© De Eccher era interessato ai verbali di Leonardo Messina?
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Questo episodio Ăš vero. Noi direttamente, se non sbaglio, non facemmo indagini, perchĂ© questa cosa rientrĂČ nel procedimento che c’era a Caltanissetta sui magistrati. Dopo le mie dichiarazioni alla procura di Caltanissetta, la procura di Caltanissetta aprĂŹ un fascicolo nei confronti di alcuni magistrati. Io, poi, da alcuni di questi, soprattutto dal dottor Lo Forte e dal dottor Pignatone, fui querelato per calunnia.
ââQuesto episodio fu investigato non da me direttamente, quindi non le so dare l’esito, ma credo che nell’ordinanza, se non ricordo male, della dottoressa Loforti Ăš citato questo episodio. Tra l’altro, si tratta di verbali che noi carabinieri non avevamo, erano verbali che provenivano sicuramente dalla procura di Palermo, ma tenga conto che noi avevamo giĂ ormai acquisito la prova che dalla procura di Palermo era uscita l’intera informativa.
ââDe Eccher era interessato a questa vicenda perchĂ© era il proprietario, oltre che il dirigente, della Rizzani De Eccher, che era una delle aziende principali al centro di «mafia-appalti», di cui Li Pera era il capo area per la Sicilia, tant’Ăš vero che poi De Eccher sarĂ arrestato, in un secondo momento, successivamente. Poi, per un caso della vita, lo rincontriamo a Napoli nelle indagini e lo arrestiamo pure a Napoli, un’altra volta. Forse il possesso di verbali per lui era una sorta di assicurazionePag. 50 che non si parlasse di lui, perchĂ© De Eccher era una di quelle quarantaquattro persone che noi avremmo potuto arrestare all’inizio. Anche perchĂ© gli elementi nei confronti suoi, come di Catti De Gasperi, erano assolutamente chiari. Ricordo solo che Catti De Gasperi, quando viene avvisato da Palermo che Ăš meglio non presentare ricorso per entrare nella spartizione della torta, non Ăš che dice al suo capo area, all’ingegner Zito: «Vai in procura, vai dai carabinieri a fare la denuncia», ma gli dice: «Va benissimo, perĂČ la garanzia ce la deve dare quello che comanda». Da lĂŹ, poi, il problema della famosa esse.
ââPRESIDENTE. Vi ringrazio della disponibilitĂ e, ovviamente, anche per il documento consegnato.
ââLa seduta Ăš tolta. La seduta termina alle 13.
RESOCONTO STENOGRAFICO Seduta n. 80 di MartedĂŹ 13 maggio 2025
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CHIARA COLOSIMO
ââLa seduta comincia alle 10.35.
Seguito dell’audizione di Mario Mori, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo e di Giuseppe De Donno, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo, nell’ambito del filone di inchiesta sulla strage di via D’Amelio.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’audizione di Mario Mori, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo e di Giuseppe De Donno, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo, nell’ambito del filone di inchiesta sulla strage di via d’Amelio. Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell’audizione libera ed Ăš aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione. I lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta dell’audito o dei colleghi e in tal caso non sarĂ piĂč consentita la partecipazione da remoto e verrĂ interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
ââDo la parola al generale Mori per il finale della sua relazione e poi passiamo direttamente alle domande. Prego, generale.â
MARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Buongiorno a tutti. Mi riallaccio alle dichiarazioni rilasciate dal dottor Giuseppe De Donno nell’audizione del 16 aprile scorso. Pag. 4L’indagine mafia-appalti con i suoi contenuti sostenuti in maniera convinta prima da Giovanni Falcone, poi da Paolo Borsellino, ridefiniva l’approccio investigativo alle indagini sulla gestione degli appalti pubblici, individuando in molti tra politici e imprenditori non giĂ le vittime dell’organizzazione mafiosa bensĂŹ dei concorrenti nel loro illecito condizionamento. GiĂ nel giugno del 1990 davanti alla Commissione parlamentare dell’epoca, il dottor Falcone aveva fatto comprendere l’ampia dimensione del fenomeno che interessava l’intera Sicilia e presentava potenziali connessioni a livello nazionale. La partecipazione di personalitĂ politiche emersa durante l’indagine, delineata ma non ancora compiutamente definita nelle dimensioni, apriva nell’inchiesta prospettive delicate, ma ineludibili. La determinata presenza della componente mafiosa manifestatasi in piĂč procedimenti giudiziari connessi alla problematica degli appalti, sviluppati anche fuori dalla Sicilia, consentiva e avrebbe logicamente imposto di tenere unite le varie vicende che emergevano progressivamente nelle indagini. In pratica, per la prima volta in un’inchiesta di questo tipo, avrebbe potuto essere ipotizzato nei confronti di tutti i responsabili accertati il reato di concorso in associazione per delinquere di tipo mafioso, rendendo quindi piĂč incisiva l’azione di contrasto delle istituzioni. Le annotazioni del ROS fornivano le prime indicazioni su attivitĂ e protagonisti di uno spaccato significativo della borghesia siciliana non solo imprenditoriale, ma anche politica, amministrativa e delle professioni. In quel contesto emergevano anche una serie di rapporti, per noi preoccupanti, tra piĂč di un magistrato ed esponenti collegati a personalitĂ e ambienti discutibili, se non proprio criminali. Valgano al riguardo la notoria frequentazione dei due capi delle Procure piĂč importanti della Sicilia, Pietro Giammanco e Gabriele Alicata, con i discussi esponenti politici Mario d’Acquisto e Salvo Lima; la Pag. 5difficile situazione personale del magistrato agrigentino Fabio Salamone a fronte dell’inchiesta che riguardava direttamente il fratello Filippo, uno dei maggiori protagonisti del condizionamento illecito degli appalti pubblici in Sicilia; la parentela del magistrato Francesco Messineo con Sergio Maria Sacco, fratello della moglie â Sacco, piĂč volte indagato per reati di mafia e sempre scagionato, compreso un arresto nell’ambito delle indagini per l’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, nel 2009, e quindi nel periodo in cui Messineo dirigeva la procura di Palermo, verrĂ condannato per associazione per delinquere finalizzata alla ricettazione, per aver operato, d’intesa con un gruppo criminale legato al noto esponente mafioso di Partinico, Vito Vitale; la posizione dell’aggiunto della Procura della Repubblica di Palermo, Vittorio AliquĂČ, la cui cognata, Giulia Gemmato AliquĂČ, era la piĂč diretta collaboratrice del commercialista palermitano Piero Di Miceli, il professionista che all’epoca tutelava gli interessi mafiosi in tutti i piĂč importanti procedimenti fallimentari tenuti a Palermo; lo stretto e non del tutto lineare rapporto tra il Di Miceli e il dottor Pietro Giammanco, Procuratore della Repubblica di Palermo; l’acquisto nell’anno 1980 a Palermo da parte del dottor Guido Lo Forte, sostituto procuratore cointestatario dell’indagine mafia-appalti di un alloggio dell’Immobiliare Raffaello, gestita da imprenditori notoriamente legati ad ambienti mafiosi; altri appartamenti nello stesso periodo, sempre da parte dell’Immobiliare Raffaello, erano stati venduti ai familiari del dottor Giuseppe Pignatone, anch’egli cointestatario dell’indagine del ROS sugli appalti; il conflitto di interessi prospettatosi al dottor Giuseppe Pignatone, coassegnatario dell’altra indagine del ROS sulla societĂ SIRAP, che coinvolgeva anche l’attivitĂ del padre Francesco; le accuse, successivamente giudicate infondate, rivolte dai collaboratori di giustizia Giovanni Drago e Gaspare Pag. 6Mutolo ai magistrati Giuseppe Prinzivalli, all’epoca Procuratore della Repubblica di Termini Imerese, Pasquale Barreca, Francesco d’Antoni e Domenico Mollica presidenti di Corte d’assise d’appello palermitani e Carlo Aiello, consigliere di Corte di cassazione, indicati come responsabili di aver aggiustato una serie di processi di mafia; il suicidio del dottor Domenico Signorino, pubblico ministero del maxiprocesso a Cosa nostra, avvenuto in coincidenza con le accuse di collusione con ambienti mafiosi, a lui rivolte dai pentiti Drago e Mutolo.
ââLe archiviazioni proposte e ottenute dalla Procura di Palermo in merito alla nostra inchiesta che seguivano mancate deleghe di indagine, a cominciare da quelle delle annotazioni dell’agosto del 1990, coinvolgenti alcune personalitĂ politiche, dimostravano che l’iniziativa non aveva ottenuto la considerazione che, anche per le sue potenziali prospettive, noi carabinieri ritenevamo meritasse e che il chiaro interesse mostrato da Giovanni Falcone e poi da Paolo Borsellino avrebbero almeno consigliato. Questo non fu solo il nostro giudizio, ma anche quello di Giovanni Falcone, appunto, che in piĂč occasioni e, in particolare, dopo i pochi arresti del luglio 1991, aveva commentato con grande delusione gli sviluppi dell’inchiesta confidando alla giornalista Liana Milella che riteneva riduttiva la scelta di arrestare solo certe persone e che non si volevano sviluppi di alcun genere nei confronti dei politici. Le iniziative assunte da parte dei requirenti incaricati della trattazione delle indagini sugli appalti, sono state quindi un prodotto di un approccio parziale che, oltre a indebolirne l’intrinseca potenzialitĂ , ne ha danneggiato lo sviluppo. Valgano al riguardo la consegna senza omissis giĂ nel luglio del 1991 alle difese degli indagati dell’annotazione base dell’indagine mafia-appalti, a cui ha fatto seguito il 14 agosto 1992 la parziale archiviazione relativa a molti soggetti indicati nella annotazione del 16 Pag. 7febbraio 1991. Tutto ciĂČ, mentre, sempre nel luglio 1991, il procuratore Giammanco, dopo aver suddiviso l’indagine attivando altri uffici giudiziari siciliani, realizzandone cosĂŹ una scontata dequalificazione sotto l’aspetto del reato associativo, con un atto illecito volto a svalutarla completamente, aveva inviato l’annotazione base del ROS al Ministro della giustizia, tentando di farla passare come un’informativa di natura politica, senza poi tenere conto, come si seppe poi in tempi successivi, che giĂ dopo pochi giorni dalla sua consegna, grazie sempre al Procuratore Giammanco, l’annotazione del ROS era in mano a Cosa nostra.
ââL’insieme delle attivitĂ che poi prenderĂ la denominazione giornalistica di dossier mafia-appalti, ha rappresentato obiettivamente per me e per Giuseppe De Donno una serie di brucianti sconfitte. Infatti, piĂč volte, nel corso dell’attivitĂ sviluppata in Sicilia, ci Ăš stata chiusa «la porta in faccia», come si dice, costringendoci ogni volta a ricominciare da capo, fino a obbligarci a desistere. Mi riferisco precisamente: all’estromissione dell’attivitĂ d’indagine del dottor Alberto Di Pisa che, trascinato in uno scandalo da cui solo dopo parecchi mesi sarĂ giudicato del tutto estraneo, fu costretto ad abbandonare l’inchiesta condotta da noi carabinieri su di un comitato d’affari, riconducibile a Vito Ciancimino, che avrebbe dovuto interessare anche l’allora sindaco di Palermo, Leoluca Orlando; al voltafaccia del professor Giuseppe Giaccone, sindaco di Baucina, che, dopo aver rivelato a Giovanni Falcone come veniva alterato il sistema degli appalti in Sicilia, affidato per legge alla protezione dell’Alto commissario antimafia, si pentĂŹ di essersi pentito; alla mancata possibilitĂ di sviluppare a livello regionale e nazionale i contenuti delle nostre informative preliminari del luglio-agosto 1990, riguardanti le attivitĂ di personalitĂ politiche, non essendoci mai state concesse deleghe di indagine al Pag. 8riguardo; alla tragica morte del dottor Paolo Borsellino che, oltre alla sua vita e a quella della scorta, stroncĂČ anche le possibilitĂ di collegare la nostra inchiesta a quella milanese «Mani pulite», possibilitĂ che avrebbe potuto segnare, all’esito, non solo un fondamentale momento di contrasto a un sistema illecito che drenava rilevanti risorse pubbliche, ma anche una rigenerazione dell’intero sistema economico nazionale; all’archiviazione di una parte significativa della nostra indagine, a 25 giorni dalla morte di Paolo Borsellino, che la stava sostenendo, decisa dal GIP Sergio La Commare, dando anche l’impressione di essere stata non casualmente depositata il 14 agosto 1992, in un periodo cioĂš di scontato disinteresse per qualsiasi attivitĂ che non fosse quella dello svago e del riposo, cosĂŹ da farla passare, come avvenne, sotto un pressochĂ© tombale silenzio; alla decisione tranciante, assunta dal dottor Gabriele Alicata, Procuratore della Repubblica di Catania, a cui si deve la disarticolazione dell’inchiesta che il dottor Felice Lima e il capitano De Donno avevano impostato sulle dichiarazioni del geometra Li Pera, depotenziando e alla fine rendendola carente sotto l’aspetto del reato associativo con il suo smembramento tra le procure di Caltanissetta, Catania e Palermo; all’omesso collegamento di tale inchiesta di Massa Carrara con la nostra su mafia-appalti che avrebbe imposto di dare comunque una dimensione nazionale all’azione di contrasto al fenomeno dell’illecito nella concessione degli appalti pubblici; all’impedita possibilitĂ per i carabinieri del ROS di potere partecipare alle indagini connesse alla formale collaborazione di Angelo Siino, malgrado le iniziali e lunghe indagini svolte dal Reparto sull’imprenditore; al rifiuto opposto a Vito Calogero Ciancimino di esporre la sua versione sul condizionamento degli appalti pubblici, fornito cioĂš da chi quel sistema, che coinvolgeva anche Pag. 9politica e imprenditoria, aveva gestito in prima persona e per lungo tempo.
ââIn questo contesto poi si Ăš verificato addirittura l’impensabile, cioĂš che l’annotazione del ROS, depositata nel febbraio 1991, quasi nell’immediatezza, e prima ancora delle conclusioni delle attivitĂ proprie della polizia giudiziaria, secondo le dichiarazioni di alcuni pentiti mai smentite, era stata consegnata a Cosa nostra dal titolare dell’indagine, cioĂš il Procuratore della Repubblica di Palermo in carica, tramite due personalitĂ politiche, gli onorevoli Mario d’Acquisto, giĂ vicepresidente della Camera dei deputati e presidente della Regione Siciliana, e Salvo Lima, parlamentare nazionale poi europeo. In tal modo, giĂ nella primavera del 1991, Cosa nostra poteva definire le sue contromisure: valgano soprattutto, ma non solo, le stragi di Capaci e di via d’Amelio. Gli atti attribuiti in particolare a Pietro Giammanco, se posti in essere da un qualsiasi cittadino italiano, appena conosciuti, avrebbero comportato l’immediata emissione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per concorso aggravato in associazione per delinquere di tipo mafioso. Invece, nessun ufficio requirente o singolo magistrato ha sentito all’epoca obbligo morale, prima che professionale, di denunciare pubblicamente i fatti, cosĂŹ da chiarire in particolare gli aspetti che investivano il mondo politico e giudiziario e che, se adeguatamente sviluppati, avrebbero forse potuto dare una piĂč ampia portata alle indagini sulle vicende connesse alle stragi del 1992-1993 che ancora oggi presentano vuoti conoscitivi.
ââRespinti in Sicilia, riproponemmo la stessa tecnica di indagine sul condizionamento degli appalti, in Campania e in Calabria, ottenendo qui significativi risultati, frutto della piena collaborazione con i magistrati delle due procure della Repubblica interessate e malgrado che, anche in queste vicende, oltre che esponenti della criminalitĂ organizzata e dell’imprenditoria,Pag. 10fossero protagonisti personalitĂ politiche. Gli esiti di queste inchieste hanno dimostrato quindi che anche in Sicilia potevano ottenersi risultati migliori se vi fosse stata collaborazione tra magistrati requirenti e investigatori. Si ha un bel dire, come sostengono anche alcuni componenti di questa Commissione, che, successivamente, le vicende a base dell’inchiesta mafia-appalti vennero riprese e trattate. Questo Ăš vero, ma ciĂČ Ăš avvenuto in una fase successiva a quella connotata dalla presenza e dall’attivitĂ di Paolo Borsellino e dell’azione investigativa del ROS, che non fu piĂč sollecitata una volta ripresa l’inchiesta. I detrattori della nostra attivitĂ omettono infatti di precisare che, con il deposito dell’informativa SIRAP del settembre 1992, cessĂČ praticamente il rapporto di collaborazione tra la Procura di Palermo e il ROS, e non per volontĂ dei carabinieri. In tal modo, si evita di dover spiegare le diverse inadeguatezze da noi lamentate che hanno caratterizzato le attivitĂ di alcuni magistrati siciliani nel periodo in cui il ROS era realmente operativo nell’isola. Peraltro, i requirenti palermitani, anche in successione di tempo, hanno agito sempre in modo settoriale e con un approccio angusto rispetto all’indagine, perdendo di vista quella strategia complessiva che l’indirizzo prefigurato da Giovanni Falcone e le iniziative di Paolo Borsellino â volte a rivitalizzare mafia-appalti e a stabilire intese con Antonio Di Pietro, che conduceva «Mani pulite» â uniti ai primi esiti di altre inchieste, consentivano. Si sarebbe dovuto considerare infatti nello stesso contesto investigativo la documentazione trasmessa dalla Procura della Repubblica di Massa Carrara e quella sugli appalti nel comune di Pantelleria, inviata proprio dal procuratore Borsellino, che avrebbero dato una dimensione piĂč ampia all’azione di contrasto, ma ciĂČ non Ăš avvenuto. L’impatto sul problema del condizionamento criminale degli appalti Ăš stato inferiore a quanto potenzialmente Pag. 11ottenibile e comunque insufficiente per stroncare il fenomeno. Sempre in merito all’assunto che le vicende alla base dell’inchiesta mafia-appalti vengono riprese e trattate dopo la morte del dottor Borsellino, faccio osservare la circostanza che fu la Procura di Catania a trasmettere a Palermo nell’estate del 1992 una parte della propria indagine sulle dichiarazioni del geometra Li Pera e, come accennato, vi fu l’accordo per la ripartizione sulle competenze tra la procura di Milano e quella di Palermo. Un fatto Ăš archiviare un’indagine scaturita da un’indagine di polizia giudiziaria, altro Ăš assumere la stessa decisione quando l’indagine Ăš in materia di collegamento con altre autoritĂ giudiziarie.
ââSul finire del secolo scorso le personalitĂ migliori della magistratura requirente nazionale avevano compreso che il fenomeno della criminalitĂ organizzata, per le dimensioni raggiunte e per le sue dirette implicazioni sul sistema economico nazionale, non poteva essere piĂč combattuto con le normali, ma ormai inadeguate prassi giudiziarie applicate sino ad allora, bensĂŹ con un salto di qualitĂ che ne considerasse la piĂč ampia dimensione raggiunta. Si puĂČ ritenere che le decisioni assunte nel periodo 1989-1992 in Sicilia, siano state il frutto di un approccio che prescindeva dalla volontĂ di favorire l’organizzazione mafiosa, ma le azioni del Procuratore Giammanco e di qualche altro magistrato diede allora a noi carabinieri l’impressione che dietro la loro decisione ci fosse un disegno preciso, almeno quello cioĂš di tutelare ambiente e persone collocati in posizione di alto prestigio politico e sociale, perchĂ©, in quell’ambito, le indagini non vengono certamente condotte con la dovuta determinazione. Al riguardo faccio due nomi a puro titolo esemplificativo. Filippo Salamone, parente di un magistrato in servizio in Sicilia, e Pietro Catti De Gasperi, parente di un uomo politico che ha connotato un periodo della Pag. 12nostra storia. In quella fase, era proprio l’estensione dell’indagine che si voleva evitare. CosĂŹ la pensava peraltro, come giĂ ricordato, anche Giovanni Falcone. Si vedano al proposito i suoi appunti, i cosiddetti diari, e contro questa soluzione si stava adoperando con tutte le sue forze, Paolo Borsellino. L’incomprensibile e ingiustificabile dimenticanza, malgrado l’ampio margine di tempo disponibile, di interrogare sui fatti connessi alla morte di Paolo Borsellino il dottor Pietro Giammanco, l’uomo che aveva consegnato l’annotazione di base del ROS a Cosa nostra, pesa poi su queste vicende come un macigno che nessuno dei vari magistrati, coinvolti in quel complesso di indagini, a tutt’oggi ha voluto affrontare e spiegare in maniera adeguata. E non si venga a dire che il documento degli otto magistrati che, dopo la strage di via d’Amelio a minacciare le dimissioni, fu una prestigiosa denuncia contro l’operato del Procuratore, perchĂ©, in quella circostanza, costoro trattarono quasi esclusivamente problemi di sicurezza, limitandosi a chiedere l’invio in Procura di una personalitĂ piĂč forte, senza mettere perĂČ mai in dubbio la correttezza professionale o evidenziare gli ostacoli posti all’attivitĂ di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, ma anche di noi carabinieri, da parte di Pietro Giammanco. I malintesi e gli attriti sorti in quella circostanza per un lungo lasso di tempo hanno reso poi difficile, se non del tutto improduttivo, il rapporto tra le Procure siciliane piĂč importanti e il ROS che, al di lĂ dell’essere il Reparto a cui l’Arma affidava la competenza investigativa nazionale nel settore della criminalitĂ organizzata, aveva svolto le indagini e redatto le prime informative sul condizionamento degli appalti pubblici, rappresentando giĂ all’epoca, per i risultati conseguiti sul terreno, se non la migliore, certo una delle piĂč efficaci espressione operative dello Stato nell’azione di contrasto alle forme criminali piĂč evolute. Il danno alla complessiva azione Pag. 13repressiva portata avanti dalle istituzioni veniva accentuato anche, nella fase piĂč grave dell’attacco mafioso allo Stato, dalle prese di posizione di alcuni magistrati, esplicitata con atteggiamenti emotivamente ben sopra le righe, se Ăš vero che, nell’immediatezza della strage di via d’Amelio, dalla scalinata del tribunale di Palermo, uno dei piĂč noti tra loro, il sostituto procuratore Vittorio Teresi, a nome dei colleghi e ripreso dalla stampa nazionale e dalle televisioni, aveva addirittura proposto pubblicamente di chiudere il tribunale per cinque anni â affermazione che oggettivamente costitutiva una chiara resa a Cosa nostra. Un magistrato, se consapevole delle sue attribuzioni e del ruolo ricoperto, non poteva dare un esempio cosĂŹ platealmente negativo non solo a chi nelle istituzioni continuava a operare con impegno e senza tentennamenti, ma soprattutto alla pubblica opinione, giĂ di per sĂ© intimorita e preoccupata, com’era in quei giorni quella dell’intera Nazione e della Sicilia in particolare. Anche il dottor Caponnetto, uscendo dalla camera ardente di Paolo Borsellino, esclamĂČ Â«Ă finita!», volendo significare che, con quella morte, il contrasto a Cosa nostra subiva a suo parere un colpo decisivo, ma successivamente, con parole umanissime, se ne scusĂČ, definendo quell’espressione un cedimento momentaneo, frutto del fortissimo dolore provato dalla circostanza. Altri invece non hanno ritenuto di dover fornire qualche spiegazione alle loro esternazioni.
ââCon la nostra assistenza professionale abbiamo suscitato la disapprovazione di alcuni magistrati di Palermo che hanno ritenuto, testuale, «ipertrofica» la nostra attivitĂ di polizia giudiziaria. Anche la Corte d’assise d’appello di Palermo, pur assolvendoci, ha giudicato improvvida per alcuni aspetti la nostra azione investigativa. Qualche altro magistrato palermitano, infine, con un’espressione che ne denota solo la personale meschinitĂ , considerando la mia complessiva vicenda professionale,Pag. 14mi ha attribuito una matrice genetica «strana» â beato lui! Quindi, secondo questa valutazione, a fronte di una Procura della Repubblica che si mostrava decisamente attendista, se non addirittura remissiva verso Cosa nostra e comunque contraria anche alle iniziative dei suoi uomini migliori â vedasi il contrasto all’azione prima di Giovanni Falcone e poi di Paolo Borsellino â avremmo dovuto operare con maggiore prudenza, adeguandoci cioĂš a quei rituali investigativi legati a tanti lutti e a tanti insuccessi. Noi, invece, come il dovere ci imponeva, tentammo di fare qualcosa che migliorasse l’efficienza della nostra azione, avvertendo peraltro, delle attivitĂ messe in atto, ben individuate personalitĂ istituzionali e cioĂš: Liliana Ferraro, direttore dell’Ufficio affari penali del ministero della Giustizia, Fernanda Contri, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, e Luciano Violante, presidente della Commissione parlamentare antimafia, oltre ovviamente ai nostri superiori gerarchici. Tutti costoro se avessero ritenuto che fossimo stati partecipi di chissĂ quale progetto illecito ovvero portatori di un messaggio indebito, avrebbero avuto la possibilitĂ , anzi il dovere, di fermarci e di denunciarci, ma ciĂČ non Ăš avvenuto e tuttavia nessuno li ha chiamati a rispondere insieme a noi. Invece, nella mia competenza di responsabile di un Reparto di polizia giudiziaria, mi astenni di proposito dall’informare la Procura di Palermo sino a quando, nel gennaio 1993, non venne cambiata la direzione dell’ufficio e questo perchĂ© diffidavo del Procuratore Giammanco e di qualche altro magistrato.
ââIn conseguenza della mia azione di comando, sono stato sottoposto a tre procedimenti penali. Imputato, in separati giudizi, con il mio superiore gerarchico e con tre diversi ufficiali dipendenti, chiamati in causa per vicende giudiziarie tra loro artificiosamente divise, fatti cioĂš oggetto di accuse formalmente distinte, ma sostanzialmente tutte riconducibili allo stesso contestoPag. 15operativo, se Ăš vero che, oltre ai nostri difensori, anche illustri giuristi, quali Giovanni Fiandaca e Tullio Padovani, hanno sostenuto la tesi che, nella successione dei processi, fosse stato violato il principio rappresentato dal ne bis in idem, a significare cioĂš che i procedimenti erano legati non solo da un filo investigativo unico, ma anche da una precisa correlazione giuridica. Appare comprensibile che indagini di grande impegno, sia pure condotte da investigatori e magistrati professionalmente preparati, possano presentare aspetti che a una disamina accurata, fatta perĂČ con conoscenza ottenuta a posteriori, evidenziano qualche lacuna o superficialitĂ . A noi, dagli esponenti della Procura della Repubblica di Palermo dell’epoca e da qualche giudice di quel tribunale, non ne Ăš stata perdonata nemmeno una. Ad altri, loro colleghi compresi, molte. Il piĂč emblematico dei processi subiti Ăš il procedimento giornalisticamente denominato «Trattativa Stato-mafia», quello cioĂš che Antonio Subranni, Giuseppe De Donno e io abbiamo affrontato con l’accusa di avere minacciato il Governo della Nazione, noi che, come ufficiali dell’Arma dei carabinieri, avevamo il preciso dovere di tutelare e, a favore di non si sa chi, lo avremmo fatto d’intesa con Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, contro i quali abbiamo condotto una parte significativa della nostra vita professionale. Il procedimento, iniziato il 7 marzo 2013, con rinvio a giudizio per violenza aggravata a corpo politico, amministrativo e giudiziario, cioĂš, nella fattispecie, al Governo nazionale, Ăš terminato dieci anni dopo, il 27 aprile 2023, con la nostra assoluzione per non aver commesso il fatto. L’esito dei processi, perĂČ, non ha ancora convinto in tutti i nostri instancabili critici, a cominciare dal dottor Antonino Di Matteo che, malgrado sia in atto componente della Procura nazionale antimafia e giĂ rappresentante dell’accusa nel processo sulla cosiddetta «Trattativa Pag. 16Stato-mafia», ha scritto un libro, intitolato «Il colpo di spugna», per criticare, a mio avviso ben al di lĂ del limite consentito alla deontologia di un magistrato in servizio, non tanto le nostre azioni, quanto e soprattutto, la decisione presa dalla Corte di cassazione. Il supremo organismo giudiziario viene accusato in pratica di aver obbedito all’ordine di assolverci perchĂ© il Paese non era ancora in grado di conoscere l’effettiva veritĂ . In base alla tesi sostenuta dal dottor Di Matteo, vi sarebbe l’esigenza di procedere contro gli esecutori di questa serie di gravi reati da lui individuati. Tuttavia il magistrato non ha ancora indicato agli organi competenti nĂ© di quali elementi eventualmente disponga, nĂ© i nomi dei responsabili del condizionamento dei giudici della Corte di cassazione ai quali comunque sarebbe giĂ attribuibile, allo stato, il grave illecito di essersi fatti condizionare indebitamente. Il tutto, almeno a mia conoscenza, senza che il Consiglio superiore della magistratura abbia sin qui ritenuto di prendere decisioni in merito.
ââLa conferma di una critica incondizionata, costantemente espressa in certi ambienti, rivolta piĂč che alle nostre persone, a un indirizzo professionale che prescinde da costruzioni o ricostruzioni imposte da una linea di condotta predefinita, Ăš costituita da molti esempi. Per brevitĂ , qui tratterĂČ solo, fra le tante accuse ricevute, le opinioni sostenute dall’avvocato Fabio Repici, perchĂ© espresse anche in sede di questa Commissione. Il legale dell’ingegner Salvatore Borsellino, quindi un professionista qualificato, ha esposto le sue tesi che, per quanto attiene ai fatti che hanno riguardato me e il dottor Giuseppe De Donno, alla luce degli esiti giĂ processualmente definiti, sono del tutto prive di fondamento. Egli sostiene che la morte di Paolo Borsellino non derivi dal suo interesse per mafia-appalti, giudicato un falso scopo inventato da noi per coprire le nostre responsabilitĂ . Infatti, citando il tenente colonnello Carmelo Pag. 17Canale, Repici afferma che, nel colloquio del 25 giugno 1992 tra noi e Paolo Borsellino, non si parlĂČ dell’indagine del ROS bensĂŹ di un anonimo di cui il magistrato sospettava che il capitano De Donno fosse l’autore. Premesso che la sentenza del Borsellino quater, quindi non noi carabinieri, ha attribuito la causa piĂč attendibile della morte del magistrato al suo manifesto interesse per l’inchiesta del ROS, osserva che Carmelo Canale ha sempre sostenuto che il tema dell’incontro alla caserma Carini era relativo al dossier mafia-appalti. L’ufficiale, davanti a questa Commissione, ha riferito che il dottor Borsellino era a conoscenza di voci, pervenutegli da alcuni colleghi, che indicavano il capitale De Donno, quale possibile autore dell’anonimo inviato al sostituto procuratore di Catania, Felice Lima, per togliere la competenza dell’indagine mafia-appalti alla procura di Palermo. Infatti quel pomeriggio, appena il magistrato Borsellino vide l’ufficiale, esclamĂČ, testuale: «Ho sentito parlare molto male di lei, ma se si fidava Falcone, mi posso fidare anch’io». Subito dopo, ottenuta la nostra disponibilitĂ a proseguire l’indagine mafia-appalti, ne concordĂČ con noi i tempi e le modalitĂ di sviluppo. D’altro canto, non si capirebbe perchĂ©, avendo dei sospetti, il dottor Borsellino â quindi non uno sprovveduto uditore giudiziario â invece di convocare formalmente il capitano De Donno nel suo ufficio, decise di recarsi in tutta riservatezza in una caserma dei carabinieri, senza redigere un atto formale che facesse poi fede della sua iniziativa. L’avvocato Repici riprende poi precise e ripetute accuse che alcuni magistrati ci rivolgono per l’addebito nei nostri confronti di un atteggiamento omertoso per l’ingiustificabile e sospetto ritardo con cui avremmo parlato dell’incontro con il dottor Paolo Borsellino. In tutte le vicende che hanno riguardato i censori del nostro operato, nelle ricostruzioni dei fatti, quando non conviene, costoro tralasciano quei singoli aspetti contrastantiPag. 18con le versioni da loro sostenute che, senza qualche omissione o qualche invenzione, non starebbero in piedi. Nella fattispecie, l’avvocato Repici, che pure ha partecipato con incarichi professionali alla serie dei processi relativi alla strage di via d’Amelio, dimostra di ignorare il verbale di sommarie informazioni testimoniali rese nel dicembre del 1992 dall’allora capitano Giuseppe De Donno nel quadro delle indagini svolte in merito dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta. L’ufficiale, in quella circostanza, riferĂŹ ai magistrati requirenti sui contenuti dell’incontro che il precedente il 25 giugno 1992, insieme a me, aveva avuto con il dottor Paolo Borsellino. Anche e soprattutto quei magistrati che si sono distinti per le accuse rivolteci sul nostro ingiustificabile ritardo nel riferire, non hanno mai citato questo episodio che pure, stante il loro andirivieni professionale tra gli uffici giudiziari di Palermo e di Caltanissetta che ne ha contraddistinto le loro splendide carriere, non sarebbe dovuto sfuggire loro. Altri invece sono coloro che hanno parlato a distanza di troppo tempo dei loro contatti con Paolo Borsellino: i magistrati Alessandra Camassa e Massimo Russo erano sostituti procuratori della Repubblica in servizio alla Procura della Repubblica di Marsala quando il dottor Borsellino riferĂŹ loro â siamo nella metĂ di giugno del 1992 â che un amico lo aveva tradito e che la Procura di Palermo era un nido di vipere. E questa sĂŹ, a tutti gli effetti, dopo la tragica e quasi immediata morte di chi aveva pronunciato quelle parole, era una vera e propria notitia criminis che doveva essere portata subito a conoscenza degli inquirenti. Ebbene, i due magistrati, cioĂš non due persone giuridicamente digiune, almeno per quanto mi consta, tardarono sino al 14 e 15 luglio 2009, cioĂš 17 anni, a riferire formalmente ai pubblici ministeri di Caltanissetta e solo nell’anno 2012 lo fecero in sede di testimonianza processuale. Nessuno, in questo lungo periodo Pag. 19di tempo, a cominciare dall’avvocato Repici e dai loro celebrati colleghi, li ha mai accusati, a mia conoscenza, di ritardi ingiustificati o addirittura omertosi, forse perchĂ©, in questo caso, indagare sul nido di vipere insediato nella Procura di Palermo sarebbe risultato oltremodo scomodo per molti.
ââDi questi giorni Ăš la sentenza della Cassazione che manda assolto il noto mafioso Antonino Madonia dall’accusa di essere l’autore dell’omicidio dell’appartenente alla polizia di Stato Antonino Agostino e della sua moglie. Il Madonia, malgrado il parere contrario della stessa procura di Palermo, che non aveva ravvisato nei fatti acquisiti elementi sufficienti per sostenere l’accusa, era stato rinviato a giudizio su iniziativa del Procuratore generale, Roberto Scarpinato, che aveva riaperto il caso sulla base di un esposto presentato proprio dall’avvocato Repici. In merito, la motivazione della sentenza di archiviazione da parte della Cassazione appare emblematica, sostenendo che la tenuta logica di una decisione non dipende dalla capacitĂ di costruire una narrazione suggestiva, ma dalla corretta applicazione delle regole processuali.
ââIn definitiva, in tutta la complessa vicenda che ci ha riguardato, se una critica istituzionalmente Ăš stata fatta, questa Ăš stata rivolta ai pubblici ministeri e ai giudici di primo e secondo grado nel nostro processo a cui la sentenza della VI sezione penale della Corte di cassazione ha attribuito un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico. Il processo penale non Ăš un laboratorio per l’esposizione di ardita ricostruzione di storicistiche o personali visioni del mondo, mentre le argomentazioni accusatorie che avevano condannato in primo grado me e i miei colleghi nel procedimento della cosiddetta trattativa non prospettavano nulla che si riferisse a un puntuale accertamento processuale, ma erano state assunte e sviluppate Pag. 20da alcuni magistrati essenzialmente sulla base di esclusive interpretazioni di natura non giuridica, bensĂŹ ideologica. Una posizione questa che, nell’elaborazione del recente anno, giudiziario, il dottor Luigi Salvato, Procuratore generale della Cassazione, ha riassunto nella definizione di populismo giudiziario.
ââA questo punto, seguendo una diffusa tendenza nazionale, dovrei lamentarmi per la lunga azione persecutoria rivolta contro di me, ma io rifiuto questa rappresentazione vittimistica. In questi anni, con il sostegno della mia difesa e l’appoggio di alcuni colleghi, ho inteso replicare in tutte le sedi consentite e con tutti i mezzi leciti di cui potevo disporre alle accuse rivoltemi dai depositari di un modo di fare politica, giustizia e informazione che ritengo arrogante e iniquo perchĂ© arbitrario e in piĂč circostanze ho espresso loro apertamente la mia totale disistima che anche oggi, in questa sede, ribadisco. L’ho inteso fare anche per i tanti che non avevano il vissuto professionale, le possibilitĂ economiche, la documentazione, il tempo e l’ampio sostegno di cui invece io ho goduto e che quindi hanno dovuto subire, senza potere replicare, come minimo una forte e immeritata esposizione mediatica, se non, ed Ăš peggio, gravi danni morali e materiali, uniti anche a un ingiusto discredito pubblico esteso anche ai propri familiari. Proprio da appartenente alle istituzioni dello Stato, se ritengo doveroso che verso ogni cittadino, anzi, a maggior ragione, per gli operatori in campo giudiziario, siano eseguiti i piĂč ampi accertamenti per fatti conseguenti alla loro attivitĂ professionale, a questo punto chiedo che, per le vicende qui descritte, questo tipo di approccio sia riservato veramente a tutti coloro che hanno avuto parte. Nell’istituzione a cui ho appartenuto, per ogni dipendente oggetto di un procedimento giudiziario, al di lĂ del relativo esito, fa seguito invariabilmente una valutazione di tipo disciplinarePag. 21volta a stabilire se, oltre a eventuali illeciti penali nell’attivitĂ svolta, emergano mancanze di natura etica o di condotta. Come Ăš avvenuto da parte dell’Arma dei carabinieri, per tutti gli ufficiali coinvolti in queste vicende, ritengo che analogamente il Consiglio superiore della magistratura e l’Ordine nazionale dei giornalisti per queste vicende dovrebbero considerare il comportamento di alcuni dei loro appartenenti o ex appartenenti. Il mondo politico, se non altro, questo esame lo affronta periodicamente attraverso l’andamento del consenso popolare e infatti il suo ricambio si Ăš realizzato nel tempo non solo per ragioni di etĂ .
ââQuesta valutazione sarebbe auspicabile in particolare per alcuni tra politici, magistrati, personalitĂ della cultura e giornalisti, protagonisti ovvero testimoni delle tragiche vicende connesse ai fatti di Sicilia qui esaminati che oggi vanno sostenendo la loro piena conoscenza dei rapporti malati fra politica e Istituzioni di quell’epoca, analizzando criticamente insufficienze, errori e conseguenti colpe. Si veda per ultima la serie RAI, intitolata «La linea della palma» che ne ha rappresentato una significativa selezione. Bene, in buona parte si puĂČ concordare con le censure espresse, ma questi severi critici, nelle analisi di quel contesto, si ricordano solo ora di indicare alcune situazioni negative e determinati personaggi da condannare. Dico allora che costoro oggi sono del tutto fuori tempo e mi permetto di sostenere che alcuni di loro sono in malafede perchĂ©, in quei momenti, ufficialmente non hanno mosso un dito o alzato una parola o una voce per contrastare e denunciare efficacemente quelle azioni criminali di cui adesso trattano con distacco e presunzione, fino a stabilire condanne e a elaborare teorie buttate lĂŹ, senza prove, e che in alcuni casi appaiono addirittura prospettazioni farsesche. Forse in quel modo alcuni cercano di scalzare qualche responsabilitĂ personale,Pag. 22altri invece tentano di conseguire nuovi utili professionali. CosĂŹ agendo, potranno convincere qualche ascoltatore distratto o compiacente, ma non eviteranno la disistima di chi in quei giorni era presente e quindi conosce i fatti nei loro rispettivi sviluppi.
ââIn conclusione, se il progressivo allontanarsi degli avvenimenti rende per queste vicende sempre piĂč difficile l’accertamento della veritĂ sul piano giudiziario, auspico almeno che questa ricerca venga condotta sotto l’aspetto di una coerente ricostruzione dei fatti, con una serena e distaccata disamina delle responsabilitĂ . Questo lo si deve al concetto di Stato di diritto, a coloro che hanno pagato con la vita il proprio impegno nelle Istituzioni, ai loro familiari che pretendono giustamente una spiegazione accettabile dei fatti, ma anche chi, sopravvissuto, merita che si giunga a una veritĂ almeno logica su una pagina tragica della nostra storia nazionale. Grazie.
ââPRESIDENTE. Grazie mille, generale Mori. La parola al senatore Nave.
ââLUIGI NAVE. La ringrazio presidente. Ho chiesto di intervenire perchĂ© in realtĂ noi come gruppo del Movimento 5 Stelle, avendo letto la relazione rilasciata dal generale Mori e dal colonnello De Donno, abbiamo riscontrato delle inesattezze e falsitĂ e quindi con atti alla mano e documenti alla mano abbiamo deciso…la prego, presidente, mi faccia completare poi ognuno farĂ le sue affermazioni.
ââPRESIDENTE. Fate concludere il collega.
ââLUIGI NAVE. Per questione di tempo questa mattina abbiamo consegnato una relazione che punto per punto, con documenti alla mano, certifica la falsitĂ e addirittura la mistificazione di alcune affermazioni. Ritengo presidente â la prego Pag. 23di farmi completare â che queste affermazioni sono gravi perchĂ© non fanno altro che aumentare la densitĂ , quella coltre di fumo che giĂ di per sĂ© avvolge le stragi di via d’Amelio e quelle del 1993-1994. Mi ritengo oggi oltremodo indignato per quanto Ăš stato detto. Ritengo che i colleghi possano prendere atto e formulare domande sulla base di una formulazione piĂč corretta e sana, ma questo ritengo sia a beneficio di tutti, nessuno ha detto che si tratti di veritĂ infusa, si puĂČ leggere e confutare cosĂŹ come abbiamo fatto noi. Chiedo, presidente, che la seduta venga sospesa prima delle domande e rimandarla anche a questa sera o a domani, cosĂŹ come chiedo che il generale Mori e il colonnello De Donno vengano auditi successivamente perchĂ© devono rispondere delle affermazioni fatte, proprio in virtĂč della documentazione che Ăš stata presentata. Grazie, presidente.
ââPRESIDENTE. Senatore Nave, rispondo molto volentieri sia nel merito sia nel metodo. O meglio, nel merito mi sarebbe piaciuto rispondere potendo leggere quello che voi avete prodotto alle 10,05 di questa mattina e quindi non permettendo a nessuno di averne accesso. Mi faccia finire, senatore Nave, mi pare di non averla interrotta, anzi le ho permesso di parlare, quindi mi fa finire. Nel merito quindi non posso sapere che cosa avete prodotto anche se le posso dire che ho visto l’elenco degli allegati e sono tutti ampiamente presenti nell’archivio della Commissione antimafia, quindi non c’era bisogno di riprodurli. Per quanto riguarda lo scritto di ben 86 pagine che avete presentato questa mattina alle 10,05, primo: non Ăš previsto da nessun regolamento della Commissione, vi invito a studiarli, che si presenti una relazione su cui ci si esprima come gruppo parlamentare perchĂ© le relazioni in un organo democratico si presentano e si votano, e questo non Ăš avvenuto. Fermo restando che l’avete potuta depositare in archivio. Ă depositata Pag. 24in archivio come documento libero quindi chiunque vuole la puĂČ andare a leggere. Non intendo invece per nessun motivo, nel metodo, assecondare alla sua richiesta perchĂ© l’audizione e la consegna della relazione degli auditi Ăš avvenuta il 16 aprile. Non devo ricordare a nessuno che giorno Ăš oggi e non devo ricordare a nessuno che c’Ăš stato un Ufficio di presidenza la settimana scorsa dove in effetti, se avevate una documentazione cosĂŹ importante la potevate presentare in quella sede e quindi permettere a tutti di avere il tempo di leggerla. Evidentemente, avete preferito farlo in questo modo e in questo tempo. Le segnalo perĂČ che, se ha delle questioni da porre, questa Ăš la sede dove porle, sempre che ci si riesca, ovviamente, perchĂ© qui si fanno le domande e si chiede agli auditi di rispondere a eventuali dubbi.
ââQuesta Ăš la modalitĂ in cui lavora una Commissione d’inchiesta e questo Ăš il modo in cui io intendo far lavorare la Commissione d’inchiesta. Iniziamo con gli iscritti a parlare, non intendo aprire la discussione su questo punto. Senatore, non Ăš la prima volta che vediamo queste scene. Passiamo alle domande, ho giĂ risposto sia nel merito sia nel metodo e non ci sono appigli per continuare questa discussione. La relazione Ăš in archivio, chi vuole puĂČ accedervi.
ââWALTER VERINI. Non Ăš la padrona della Commissione, Ăš la garante delle regole.
ââPRESIDENTE. Nemmeno lei Ăš il padrone della Commissione. Ho risposto e appunto sono garante delle regole, che valgono per tutti, senatore Verini. Prego, senatore Gasparri.
ââMAURIZIO GASPARRI. Vado direttamente alle domande perchĂ© il momento Ăš importante. Sono un pragmatico. Nonostante questo tentativo di impedire questa attivitĂ della Commissione,Pag. 25essa perĂČ procederĂ . Molte cose sono state giĂ dette e quindi voglio che ci focalizziamo su alcuni aspetti perchĂ© il documento Ăš ampio, la materia, ahimĂš, Ăš storica e da decenni caratterizza il dibattito. L’archiviazione di una parte del dossier mafia-appalti avviene nel luglio del 1992. Secondo voi poteva essere evitata o era un atto necessario in quel momento? Seconda domanda e concludo. Secondo le motivazioni del processo cosiddetto Borsellino quater e anche secondo quanto avete esposto lei e il colonnello De Donno, la causa principale della morte del dottor Borsellino va ricercata nell’interesse del magistrato per l’inchiesta mafia-appalti. Come mai in Sicilia Ăš necessario uccidere due magistrati â quei magistrati â con le loro scorte e sviluppare un attacco frontale alle istituzioni statali, mentre nel resto d’Italia le indagini del filone «Mani pulite» â anche oggi lei ha ricordato Carrara e altre vicende relative al cemento â si sono potute sviluppare con conseguenze eclatanti e lĂŹ invece questa situazione non potrĂ avere lo sviluppo? Molte risposte ce le ha ricordate anche oggi, ma vorrei cominciare dal focalizzare l’archiviazione e l’impedimento a questa attivitĂ investigativa, di cui chiaramente si parlĂČ anche nella caserma di via Carini perchĂ© Borsellino voleva andare lui dai carabinieri perchĂ© non si fidava della Procura. Questo Ăš un fatto ormai storicamente assodato.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Se il presidente permette, potrei rispondere io alla prima domanda del senatore Gasparri.
ââPRESIDENTE. Prego, colonnello.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Ritengo, ma Ăš un mio parere, che l’archiviazione del luglio 1992 poteva essere tranquillamente evitata per vari Pag. 26motivi. Innanzitutto occorre ricordare una cosa fondamentale. L’informativa che presentiamo nel febbraio del 1991 non era esaustiva delle indagini svolte: il dottor Falcone ci chiese di averla a tutti i costi prima della sua partenza verso il Ministero della giustizia. Ci fu anche una discussione perchĂ© io non volevo consegnare l’informativa, sapendo che avevamo raccolto un materiale enorme che andava ancora in alcune parti sviluppato, perĂČ lo facemmo perchĂ© questa fu l’intesa con il dottor Falcone. L’informativa, oltre ad avere giĂ chiare una serie di tante responsabilitĂ , alla fine si concludeva con la redazione di circa 44 schede su quelli che ritenevamo i personaggi sui quali erano giĂ stati raccolti elementi molto significativi. In piĂč, l’archiviazione secondo me non andava fatta per un motivo molto semplice, perchĂ© l’informativa conteneva una serie di spunti investigativi che andavano sviluppati. Ă vero che alcune parti che furono archiviate non erano sufficienti per andare, diciamo cosĂŹ, in dibattimento o per ottenere delle misure, ma Ăš anche vero che su queste parti, che erano comunque inserite in un contesto conoscitivo enorme, non ci Ăš stata concessa nessuna delega. Quello che ho sempre lamentato â chiaramente l’archiviazione Ăš una decisione dei magistrati della Procura, ci mancherebbe altro â Ăš che perĂČ in quel contesto, in quel momento, sapendo ampiamente quello che avevamo fatto e quello che era successo, con la strage di via d’Amelio, sapendo l’interesse del dottor Borsellino per questa indagine, nulla vietava che ci fosse, come ne avevamo fatte tante in precedenza, una riunione in Procura per concordare come procedere. Si potevano delegare altre attivitĂ , potevamo fare altre intercettazioni telefoniche, potevamo sviluppare tutti quegli elementi che nell’informativa si diceva sarebbero stati sviluppati. A ragione di questo faccio un solo esempio. Questo diverso approccio rispetto al non prendere in considerazione quello che Pag. 27puĂČ portare a ulteriori conseguenze, chi invece lo prende in considerazione Ăš il dottor Borsellino con l’attivitĂ che svolse a Marsala. Partendo da alcune nostre indicazioni sugli appalti di Pantelleria, la Procura di Marsala del dottor Borsellino sviluppĂČ adeguatamente ancora le indagini che avevamo fatto e arrestĂČ, credo, una ventina di persone solamente per alcuni appalti a Pantelleria. Allora questo metodo poteva essere usato anche con questa archiviazione, ma le dirĂČ di piĂč. Molto spesso siamo stati accusati del fatto che l’archiviazione fosse conseguente al fatto che la Procura non conoscesse alcuni nostri atti e che non conoscesse soprattutto l’esistenza di una serie di attivitĂ che riguardavano uomini politici o altro. Questo Ăš stato piĂč volte detto ed Ăš smentito non solo dall’ordinanza della dottoressa Lo Forte a Caltanissetta, ma, siccome avevamo giĂ eseguito le intercettazioni sulla SIRAP, il famoso consorzio della Regione Siciliana che gestiva i mille miliardi per le venti aree attrezzate nella Sicilia, Ăš smentita anche dal fatto che, alla luce delle risultanze delle indagini, avevamo chiesto alla Procura l’autorizzazione al riascolto di quei nastri. Ascolto che facemmo e ci portĂČ a realizzare ulteriori attivitĂ , ulteriori emergenze, tanto Ăš vero che il 30 giugno 1992 inviammo, ben prima della richiesta di archiviazione â l’autorizzazione era stata ottenuta alcuni mesi prima â in cui notificavamo alla procura di Palermo il fatto che avevamo trascritto ulteriori telefonate, che avevamo raccolto ulteriori elementi di indagine utili. Nella nostra nota dicevamo testualmente che: «Abbiamo trascritto intercettazioni telefoniche i cui relativi verbali, salvo diverso avviso della S.V., saranno inviati successivamente e contestualmente alla nota informativa concernente le illecite attivitĂ nel campo degli appalti pubblici». La nota Ăš del 30 giugno 1992, con protocollo n. 5434/59. Per cui noi notiziammo la procura di Palermo che c’erano altre attivitĂ e altre emergenze processuali e dicemmo Pag. 28tra l’altro: «salvo diverso avviso» e quindi se avessero ritenuto diversamente le avremmo depositate venendo a discutere. La Procura non ci ha chiesto niente e ha archiviato comunque. Ritengo che, in risposta alla sua domanda, tranquillamente si poteva evitare l’archiviazione. Tra l’altro, non c’era nessuna fretta di archiviare e potevamo tranquillamente continuare a lavorare e sviluppare queste attivitĂ , cosa che in realtĂ non avvenne.
ââPRESIDENTE. Prego generale.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Per quanto riguarda l’altra domanda, inizialmente le inchieste «Mani pulite» e «mafia-appalti» procedettero in maniera separata, anzi ci fu prima mafia-appalti e successivamente Mani pulite, condotte ovviamente dalle due procure. Dopo la strage di Capaci, Borsellino ritenne che la causa dell’attentato a Giovanni Falcone poteva essere individuato nella sua attivitĂ di contrasto all’illecito negli appalti e quindi riprese in mano l’indagine mafia-appalti che praticamente era stata, non dico archiviata, ma messa da parte dalla Procura. Qual Ăš la differenza tra le due indagini? Nelle indagini milanesi c’erano due protagonisti negativi, cioĂš l’imprenditoria e la politica. Nelle indagini in Sicilia, oltre a imprenditori e politici, c’era la terza componente, che era la mafia. Quando Borsellino si rese conto dell’attivitĂ che stava sviluppando a Milano, prese ripetutamente contatti con Di Pietro e gli chiese di unire le due indagini sulla base del fatto che c’erano alcune personalitĂ vicine ad ambienti mafiosi che erano presenti nelle due indagini, sia in quella di Milano sia in quella di Palermo. L’intesa poi non ebbe seguito per la morte di Paolo Borsellino. PerchĂ© si Ăš stati costretti a uccidere due magistrati in Sicilia? PerchĂ© proprio la presenza mafiosa con il condizionamento rappresentato dall’intimidazionePag. 29costante, che in quegli anni era veramente opprimente a Palermo, aveva imposto un’altra delle nostre indagini, attraverso l’illecita diffusione della nostra indagine di base, la frammentazione della inchiesta, divisa tra piĂč uffici giudiziari, e gli ostacoli posti ai magistrati, in particolare a Paolo Borsellino e a Giovanni Falcone, ma, oltre a loro, anche a Felice Lima e ad Augusto Lama di Massa Carrara. Questi ultimi due, Lima e Lama, furono bloccati con artifici procedurali, gli altri due Falcone e Borsellino sono stati abbattuti dalla mafia. Questa Ăš la differenza.
ââPRESIDENTE. Grazie mille. Ă iscritto a parlare l’onorevole Maiorano.
ââGIOVANNI MAIORANO. SĂŹ, grazie, presidente. Ho una domanda per il colonnello De Donno. Alla pagina 14 del libro «L’altra verità », dopo la strage di Capaci, riflettendo sulle menti raffinatissime richiamate da Falcone dopo l’attentato all’Addaura del 1989, lei dice di avere un’idea su chi potrebbero essere le menti acute, i doppiogiochisti, quelli che sventolano la bandiera antimafia mentre flirtano con un sistema infetto. La semplice domanda Ăš: chi sono?
ââPRESIDENTE. Prego, colonnello.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Il libro fa essenzialmente riferimento al nostro rapporto con Vito Calogero Ciancimino e il collegamento che facciamo â mi permetta questa piccola digressione â Ăš esattamente tra le parole che Falcone pronunciĂČ in un’intervista a Saverio Lodato pochi giorni dopo il fallito attentato all’Addaura e alcune affermazioni che faceva Vito Calogero Ciancimino. Entrambi, chiaramente in maniera diversa e tenuto conto dell’abisso che intercorreva tra i due personaggi, sostenevano, Pag. 30probabilmente con forme, con idee, con prove diverse, che, oltre alla mafia, esistessero collegamenti, delle menti, delle persone che, per altri fini, condizionassero le attivitĂ di Cosa nostra. Questa tesi, per caritĂ poi tutta da dimostrare e da verificare, stranamente perĂČ trovĂČ una coincidenza tra il pensiero di Giovanni Falcone e il pensiero di Vito Calogero Ciancimino che, ricordo, proprio con il dottor Falcone, arrestammo due volte. Nel libro, ripercorrendo quel passaggio, quelle affermazioni e quella storia, qualche idea posso averla avuta, posso averla, perĂČ chiaramente, essendo indicazioni completamente prive di un riscontro probatorio, di un riscontro documentale, di un riscontro investigativo che tra l’altro all’epoca non furono fatti e che adesso non posso piĂč fare. Ă chiaro che non mi sono addentrato in indicazioni di nomi e cognomi perchĂ© lei sa bene che questo, a parte che sarebbe totalmente arbitrario e illecito, mi esporrebbe a una serie di attivitĂ giudiziarie non potendo dimostrare le mie idee. Quello che posso dirle, se mi consente, Ăš che in realtĂ dall’esperienza che abbiamo maturato, sono assolutamente convinto di quello che diceva il dottor Falcone, cioĂš che non esisteva e probabilmente non esiste un terzo livello, intendendo un livello politico o di altro genere sovraordinato gerarchicamente a Cosa nostra. Questo non lo credo e non credo che esista perchĂ© sono mondi completamente diversi e distanti. Esistono perĂČ una serie di convergenze di interessi ed esistono sicuramente una serie di situazioni, tra cui gli appalti pubblici, in cui, difendendo le attivitĂ di uno, automaticamente si difendono gli interessi degli altri perchĂ© il sistema Ăš interconnesso â come dicevamo â tra Cosa nostra, imprenditoria e politica. Tra l’altro in varie affermazioni, Ciancimino sosteneva esattamente questo e lo fece in molti verbali alla Procura di Palermo, cioĂš che secondo lui, dietro alcuni omicidi eccellenti â dove probabilmente dietro qualcuno c’era Pag. 31anche lui stesso â esistevano decisioni prese altrove dalla Sicilia e che per una serie di convenienze venivano fatti eseguire poi a Palermo e quindi diventavano delitti di mafia. Tutto questo Ăš quello che poi in realtĂ in parte nel libro un po’ lamentiamo, cioĂš il fatto che questa ipotesi investigativa, chiamiamola cosĂŹ, non fu adeguatamente sviluppata e approfondita e rimane quindi a tutt’oggi qualcosa di non dimostrato.
ââPRESIDENTE. Grazie mille. Prego, senatore Verini.
ââWALTER VERINI. Grazie, presidente. Se avessi avuto la parola, avrei richiesto semplicemente un’ora di tempo per poter leggere perchĂ© bisogna andare avanti. Non c’era nessuna volontĂ ostruzionistica. Chiusa questa parentesi, credo â e prego di essere creduto â di avere qui davanti due persone che hanno servito lo Stato e che per il loro servizio sono stati anche accusati politicamente, ma anche sul piano giudiziario, di aver commesso errori. Sul piano penale, il vostro percorso, e il suo in particolare, generale, Ăš uscito indenne. CiĂČ non toglie che ci sono state negli anni molte questioni che â io dico purtroppo, dal mio modestissimo punto di vista â hanno diviso un mondo fatto da autoritĂ giudiziaria, fatto da magistratura che entrambe dovevano stare, debbono stare in generale, dalla stessa parte, quella della lotta contro la criminalitĂ organizzata, per la legalitĂ . Quindi io ho queste persone davanti. CiĂČ non toglie che, avendo queste persone davanti, e lei in particolare, vorrei farle brevemente qualche domanda, anche di contesto. Lo dico sinceramente e anche con una certa umiltĂ : non ho tutti gli elementi che possono avere â e credo anche diversi altri membri della Commissione â tutti gli elementi che hanno persone che per tutta la vita si sono esclusivamente occupate di queste indagini, di questo contrasto, di tutte queste attivitĂ . Alcune domande mi sono venute, perchĂ© ho letto anch’io libri, Pag. 32interviste e altre cose. Dopo le stragi e dopo gli omicidi, quando arrivĂČ a Palermo il magistrato Giancarlo Caselli, lei, come del resto ha fatto anche il magistrato Di Pietro in audizione, ebbe a dire che quello fu un fatto positivo. Del resto Giancarlo Caselli veniva da un’esperienza di lotta al terrorismo per la quale tutti dobbiamo semplicemente metterci sull’attenti. Della rilevanza che attribuivate al tema mafia-appalti, come elemento, come motore acceleratore dell’assassinio di Borsellino e della strage di via d’Amelio, avete subito informato il magistrato Caselli? Se questo non Ăš avvenuto, ma se foste tornati, come risulta, a parlare di mafia-appalti soltanto nel 1997, raccontando solo qualche anno dopo del famoso incontro alla caserma Carini, questo perchĂ©, se Ăš cosĂŹ, Ăš avvenuto cosĂŹ? Seconda domanda. Avete lavorato e avete anche arrestato, lo ha ricordato prima il dottor De Donno, Ciancimino. Tuttavia, avevate informato Paolo Borsellino delle vostre «interlocuzioni» con Vito Ciancimino? PerchĂ© mentre, a soli due giorni dall’incontro alla caserma Carini, non risulta abbiate informato il magistrato, perĂČ il colonnello De Donno parlĂČ con la dottoressa Ferraro, persona che ho conosciuto personalmente e che stimo. Ho anche lavorato con lei, in altri ruoli naturalmente, Ăš stata assessore alla sicurezza al comune di Roma. PerchĂ© avete avvertito il livello politico e non avete ritenuto invece di interloquire con il livello giudiziario? Un’altra domanda, questa sĂŹ, generale, «politica» nei suoi confronti. Nella sua carriera ha svolto due ruoli fondamentali, uno quello di ufficiale dei servizi e l’altro quello di ufficiale dei carabinieri. Siccome Ăš noto che la lotta alla mafia, secondo scuole di pensiero e di azione, puĂČ avvenire sia su un piano immediatamente di contrasto e quindi con sole interlocuzioni con la magistratura requirente, come dovrebbe fare un ufficiale dei carabinieri in generale, il fatto che voi informavate, a volte, piĂč il livello politico, vuol dire che prevaleva,Pag. 33in certe occasioni, e in certi casi ha prevalso in voi, essere stato ufficiale dei servizi, quindi direttamente interlocutore del Governo, del ruolo politico? Gestire politicamente il tramonto della mafia â e lei sa a chi alludo con questa frase â oppure perchĂ© non immediatamente, e contestualmente almeno, informare l’autoritĂ giudiziaria?
ââFinisco con un’ultima questione, anche questa per me molto importante e di contesto. Lei Ăš stato direttore del SISDE, Ăš stato capo del ROS. Davvero ha avuto non solo un ruolo fondamentale nel contrasto alle mafie, ma punti di osservazione assolutamente privilegiati, e meritoriamente privilegiati. La domanda Ăš questa: il tema mafia-appalti certamente Ăš stato tra le cause che hanno prodotto quegli anni, ma in quei momenti, mentre si svolgevano le questioni legate a mafia-appalti, generale, accadevano in Sicilia e nel Paese dei fatti. Lei che opinione si fece, se se ne Ăš fatta qualcuna, in quegli anni, di alcuni omicidi importanti che ci sono stati in quegli anni in Sicilia, omicidi politici, da Salvo Lima in poi? Che impressione si Ăš fatto del ruolo svolto a cavallo tra Mani pulite e la fine della cosiddetta Prima Repubblica, che poi non Ăš mai finita per la veritĂ , ma in ogni caso che idea si Ăš fatta di quello che accadde sul piano politico in quegli anni, per esempio del ruolo svolto da Marcello dell’Utri in Sicilia e nel Paese se lei Ăš a conoscenza di qualche ruolo? Che idea si Ăš fatto delle stragi di via dei Georgofili, dell’attentato al Velabro, dei fatti di Milano? Pensa davvero che non ci sia connessione tra quella stagione di attentati, omicidi, dell’assassinio di Falcone e Borsellino con un contesto che aveva anche queste cose? Davvero non Ăš una domanda polemica, ma da uno come lei mi aspetterei, se possibile, qualche valutazione. Davvero l’ultima domanda: parlo di storia, non parlo di polemica politica. In un certo periodo capitĂČ che c’era un signore â ribadisco il ruolo di Marcello dell’Utri â un Pag. 34signore che si chiamava D’AlĂŹ, che faceva il sottosegretario all’interno, mentre lei era ai servizi, c’era Tinebra, insomma protagonisti â non parlo di lei â non particolarmente brillanti del contrasto alle mafie. Lei, avendo vissuto quella stagione da protagonista in ruoli di grande osservazione, non ha avuto sentore che nel nostro Paese, quindi anche in Sicilia e quindi anche legati alle stragi Falcone e Borsellino, si muovessero interessi non soltanto legati a mafia-appalti, ma anche legati alla volontĂ di cambiare il sistema politico e di cambiare dopo la fine della Prima Repubblica qualche esito? Le elezioni del 1987 in Sicilia furono un primo segnale. Grazie, generale.
ââPRESIDENTE. Prego, generale.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Giancarlo Caselli a Palermo arrivĂČ il giorno dell’arresto TotĂČ Riina e lo conoscevo dal periodo del terrorismo, avendo lavorato con lui. Lo avevo anzitempo contattato su sua richiesta e, mi sembra l’8 o il 9 gennaio, andai da lui a Torino per fare un inquadramento sulla situazione palermitana visto che dopo pochi giorni doveva assumere la direzione della Procura. Gli fu fatto un quadro dove cercai di spiegare la nostra attivitĂ . Immediatamente, se lei noterĂ le date, il 15 gennaio viene arrestato Salvatore Riina, dopo pochi giorni che era stato arrestato, Ciancimino ci chiede di parlare in carcere, andiamo noi due con l’autorizzazione di Caselli, preavvertito. Convinciamo Ciancimino che non era piĂč il caso di fare un rapporto tra polizia giudiziaria e lui, ma tra lui e la Procura di Palermo e lui accettĂČ di parlare con Caselli. Siamo quindi a gennaio del 1993. Noi ci aspettavamo, quando iniziarono gli interrogatori di Ciancimino da parte della Procura, che a sentire il Ciancimino, che era l’autore del sacco di Palermo, quindi un personaggio che nel campo del condizionamento degli appalti era veramente Pag. 35il numero 1 in negativo, fossero chiamati quei magistrati che negli anni precedenti e tuttora, svolgevano indagini sugli appalti, quindi Pignatone, Lo Forte, Sciacchitano e, se non loro, AliquĂČ, Scarpinato, De Francisci e Teresi. Invece, si presentarono a interrogare per un anno circa Vito Ciancimino, Giancarlo Caselli, che conoscevo e stimavo moltissimo come magistrato, ma che non sapeva nulla di attivitĂ antimafia â me lo consentirĂ â e due ragazzi, Ingroia e Patronaggio, i quali, rispetto a quegli altri che prima ho citato, non sapevano nulla. Questo mi fece capire che ancora una volta c’era da parte della Procura di Palermo l’idea di non approfondire il problema degli appalti. Recentemente in una presentazione di un nostro libro c’era presente anche Antonio Ingroia, al quale chiesi: «Ma perchĂ© lei e Patronaggio e non Lo Forte e Pignatone?» e quello sa cosa mi rispose all’aula Koch del Senato, quindi un luogo pubblico? «SĂŹ, ma loro non volevano e siamo venuti noi». Caselli fu informato quando Ăš iniziata la nostra attivitĂ . Anche noi abbiamo cercato di ricostruire, ma loro hanno proceduto e non hanno rilevato. Sono problemi di loro valutazione. Non entro nella valutazione di Caselli, Ingroia e Patronaggio sul merito di quello che poteva dire e non dire Ciancimino. Faccio solo un’osservazione: Ăš stata consentita la possibilitĂ di parlare e sono stati concessi forti sconti di pena a personaggi come Pasquale Galasso, presenti noi, che non si ricordava il numero di omicidi che aveva fatto, come Giovanni Brusca che, oltre ad aver fatto una strage e una serie di omicidi, aveva dato l’ordine di mettere nell’acido un bambino, Santino Di Matteo, reo solo di essere il figlio di un pentito. A loro Ăš stata data la parola e sono stati dati ampi sconti di pena. PerchĂ© non abbiamo voluto sentire Vito Ciancimino? Come ha detto giustamente Giuseppe De Donno, Ciancimino era un criminale, che aveva commesso una serie infinita di reati e altri piĂč gravi li aveva commissionati Pag. 36ai suoi compaesani â Provenzano e Riina â ma questo non cambiava la situazione. Se si voleva affrontare il problema degli appalti lo si doveva far parlare. Al termine, fatta una valutazione su quanto aveva detto, pro e contro, si dava eventualmente qualche vantaggio. Questo non l’hanno fatto e hanno lasciato quindi il dubbio che non si volesse approfondire l’argomento.
ââSono stato un ufficiale dei Carabinieri che ha svolto varie attivitĂ , ma sempre ben distinte e separate. Sono stato da giovane ufficiale operativo del servizio, ma non operativo da burletta, come nei film, ho fatto l’operativo all’estero, quindi so il mestiere. Poi sono diventato un ufficiale di polizia giudiziaria, ho fatto l’attivitĂ col Nucleo speciale di polizia giudiziaria del generale Dalla Chiesa, quindi penso che del settore della criminalitĂ organizzata mi intendo. Successivamente sono stato nominato direttore del Servizio, sa quando? Qualche giorno dopo l’attacco alle Torri gemelle perchĂ© in quei giorni lĂŹ eravamo solo tre o quattro che potevano fare quel mestiere: hanno scelto me, potevano sciogliere altri. Nel fare questo mestiere ho sempre capito la differenza che c’era tra l’ufficiale di polizia giudiziaria Mori e l’operativo del servizio Mori: sono due mondi che, come diceva un certo politico, sono due linee parallele che non si incontrano mai e io l’ho avuto sempre presente. Circa il rapporto con i magistrati, ho avuto sempre un grande rispetto per la loro funzione, ma non ho mai consentito che mi si dicesse cosa dovevo fare una volta che mi era stata data la delega, perchĂ© una volta che mi dai la delega da quel momento lavoro io, poi ti riferisco e tu mi dici se ho fatto bene o male, questo deve essere chiaro. L’ho sempre fatto e questo mi ha portato anche qualche problema con alcuni magistrati, ma era lo stesso stile di Carlo Alberto Dalla Chiesa, che ci ha insegnato questo sistema e che, viva Dio, ha funzionato. ChiedevaPag. 37come ho potuto valutare queste situazioni che avvenivano mentre ero a Palermo nella veste di responsabile del ROS. Guardi Ăš facile parlare, anche per me Ăš facile parlare nel 2025. Una volta con espressione direi volgare, in un Comitato nazionale, attaccai il Procuratore della Repubblica di Palermo Paino, dicendo che lui giudicava stando con il «sedere al caldo», mentre noi eravamo fuori a lavorare. Quindi so bene come si lavorava e come si cercava di fare qualche cosa. Pensavamo di essere sostenuti in maniera totale, come era avvenuto per il terrorismo e Caselli ne era un esempio. Ho lavorato con Vigna, ho lavorato con Spataro, ho lavorato con Boccassini: erano sempre dalla parte nostra, nei limiti rispettivi della procedura ovviamente. A Palermo, ma non solo a Palermo, anche a Catania, ci siamo trovati con un approccio da parte della magistratura che era di distacco, eravamo anche noi sotto inchiesta e questo io non lo tolleravo, l’ho sempre detto a tutti. Se tu mi dai una delega Ăš segno che mi stimi, quindi mi deve far lavorare e non sospettare su tutto. Questo approccio di sospetto fu tipico di tale procura in quel contesto di pochi anni.
ââWALTER VERINI. PerchĂ© generale?
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Questo non glielo so dire. Qualcuno parlava del Palazzo dei veleni. Ă difficile poterlo dire e valutare adesso i fatti dell’epoca, forse la situazione la conosce il dottor Cafiero De Raho, perĂČ quella napoletana era un’altra realtĂ , era tutta diversa da Palermo, mancava quella sintonia che nel terrorismo abbiamo avuto, forse per cultura diversa, per impostazioni diverse, per sospetti che c’erano, diversi. All’epoca avevamo tanto da fare, non pensavamo alle sottigliezze, riscontravano questa situazione e ne prendevamo atto, fino a un certo punto, ma nel frattempo si sommavano una serie di vicende che ci facevano Pag. 38sempre piĂč tenere il distacco da questa gente. Non ho capito perchĂ© Giammanco ha fatto tutto quello che ha fatto, personalmente. Le posso dire che Giammanco non era un criminale, era una persona inserita in quel contesto sociale, aveva le sue relazioni con il mondo imprenditoriale e delle professioni, e con il mondo della politica. Soprattutto, c’era un gruppo di persone che riteneva in quel momento, e anche successivamente, di poter fare quello che voleva, entro certi limiti, perchĂ© la legge per loro non era la stessa, la legge per il cittadino Mario Mori a Palermo, non era la stessa del dottor Pietro Giammanco, questo Ăš pacifico, da qui tutto il resto. Mi ha parlato di Dell’Utri e di D’AlĂŹ, certo che li ho conosciuti. Come ha detto lei, ho affrontato parecchi momenti della vita in cui ho dovuto parlare con il mondo politico. Mi sono formato dal punto di vista professionale nell’attivitĂ investigativa in cui bisogna fare come faceva san Tommaso: tocco, quindi credo, non tocco, non credo. Ci siamo sempre comportati cosĂŹ perchĂ© cosĂŹ era anche il concetto di azione del Nucleo speciale di polizia giudiziaria di Dalla Chiesa: constati i fatti e riferisci. Non avevamo il tempo allora di fare valutazioni. Lei mi chiede se le posso fare adesso. Adesso le posso fare, ma non contano, le mie valutazioni in questo momento non contano, contano quelle che facevo all’epoca. Sono stato un operativo, ho fatto dei fatti, questi fatti li ho notificati, ho pagato per qualche fatto perchĂ© qualcuno li ha giudicati non corretti, la magistratura mi ha dato ragione, quindi non mi esprimo su vicende politiche che sono fuori dal mio contesto, quindi non posso rispondere.
ââLe posso dire una cosa. Mi ha chiesto perchĂ© non abbiamo informato Borsellino dei contatti con Ciancimino: molto semplice. Incontro Borsellino il 25 giugno del 1992. I contatti con Ciancimino erano appena iniziati e li teneva solo Giuseppe De Donno. Ciancimino per noi, allora, e successivamente, Ăš sempre Pag. 39stato una fonte informativa regolata dall’articolo 203 del codice di procedura penale per cui quello che diceva andava valutato e poi si riferiva al magistrato. All’epoca, il 25 di giugno, Borsellino non aveva ancora detto che voleva collaborare con noi, per cui non avevo motivo di parlare con lui perchĂ© se a Borsellino avessi dovuto raccontare tutto quello che facevamo in quei giorni non 25 minuti â quant’Ăš stato grosso modo il nostro incontro â ma sarebbero servite delle ore. Non parlammo quindi di Ciancimino, ci ripromettemmo di farlo successivamente. Quando? Quando ci rendemmo conto che c’erano delle ostilitĂ da parte della Procura nei nostri confronti, mettemmo le mani avanti, come si dice. Ha chiesto del perchĂ© solo al potere politico. Liliana Ferraro non era il potere politico, era l’amica e la collega piĂč vicina a Giovanni Falcone. Parlare adesso di queste cose Ăš difficile. Il rapporto tra me, la Ferraro, l’avvocato Contri, Luciano Violante, Caselli, non era il rapporto con il signor ministro o il dottor Violante, era un rapporto di gente che combatteva dalla stessa parte nella stessa battaglia. Andai da Contri a questo titolo e addirittura mi chiese se volevo parlare con Giuliano Amato. Le ho risposto di averlo detto a lei e che ci pensasse lei a parlargli. Erano rapporti del tutto diversi in quel momento. Giuseppe De Donno, che frequentava continuamente Giovanni Falcone, anche a Roma, incontrandosi con la Ferraro, parlĂČ del tentativo, su mia autorizzazione, sia chiaro, perchĂ© io comandavo, io non dirigevo, io comandavo, e quindi prima di fare qualsiasi atto i miei ufficiali chiedevano la mia autorizzazione. Autorizzai io De Donno, che aveva arrestato due volte Vito Ciancimino, di fare il tentativo di portarlo dalla nostra parte. Non so come ha vissuto quel periodo, ma in quei giorni lo Stato era in ginocchio, se se lo ricorda. Caponnetto diceva che era finita. Qualcuno si nascondeva da qualche parte o comunque non faceva dichiarazioni. Qualche mio Pag. 40collega a Palermo non usciva piĂč, preferiva il lavoro d’ufficio. Questa Ăš la realtĂ che forse molti di voi non sanno neanche che cosa sia. In questo contesto ce ne siamo altamente fregati del potere politico. Facevamo delle indagini, volevamo dei risultati e in parte li abbiamo ottenuti. Tutti i discorsi di altra natura non mi competono, non li voglio fare perchĂ© non li so nemmeno fare.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Presidente, posso aggiungere un paio di cose?
ââPRESIDENTE. Prego, colonnello.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Solo per chiarire alcune situazioni. Riguardo al discorso del Procuratore Caselli. Per tutta la vicenda Ciancimino, appena Caselli diventa Procuratore a Palermo, siamo noi che avvisiamo la Procura di Palermo dei rapporti che avevamo instaurato con Ciancimino. Questa Ăš un’altra cosa che nel tempo Ăš stata un po’ confusa: non Ăš la Procura che scopre questa teorica, come Ăš stato soprannominata, «trattativa», ma siamo noi che avvisiamo Caselli perchĂ© con Caselli possiamo parlare, tanto Ăš vero che, come diceva il signor generale, andiamo in carcere a convincerlo, su autorizzazione della Procura di Caselli. Gli abbiamo parlato di mafia-appalti? Certo che ne abbiamo parlato, ma poi i rapporti anche lĂŹ sono cambiati perchĂ©, a parte la circostanza che in Procura, come accennavo prima, quando il dottor Caselli disse che il ROS era disponibile e aveva convinto Vito Calogero Ciancimino, alcuni magistrati dissero che non bisognava neanche andarlo a sentire e Ingroia nella conferenza ha fatto i nomi, erano il dottor Pignatone e il dottor Lo Forte. Nel maggio 1993 la Procura di Palermo ci concede 33 ordinanze di custodia cautelare â Riina Pag. 41Salvatore piĂč 32 â perchĂ© era arrivato il fascicolo che la Procura di Catania aveva instaurato con il dottor Lima e aveva trasmesso a Palermo per competenza. Si trattava di tutta la parte SIRAP. Con il dottor Caselli facciamo questa attivitĂ , ma anche lĂŹ succede poi qualcosa di inspiegabile. Ă la prima volta in cui mettiamo le mani sui Buscemi, riusciamo ad arrestare alcune persone, anche se tutta la parte sviluppata a Catania viene stravolta. Anche lĂŹ succede il fatto che non riceviamo deleghe, non viene ampliata l’indagine, ma soprattutto il dottor Caselli fa addirittura una relazione in cui mi accusa, insieme con altri magistrati della Procura di Palermo, della teorica idea della doppia informativa. Vengo sottoposto a un procedimento disciplinare dal Procuratore generale della Cassazione qui a Roma dal quale vengo assolto perchĂ© non ho commesso nessun illecito perchĂ© non esisteva nessuna doppia informativa, vicenda questa acclarata anche dal procedimento a Caltanissetta quando faccio le dichiarazioni sulle rivelazioni di Angelo Siino e quindi sull’indagine a carico di alcuni magistrati. Il clima, giĂ a maggio 1993, dopo alcuni mesi, diventa praticamente irrespirabile. Dopo quegli arresti, che furono obbligati a essere eseguiti perchĂ© da Catania arrivĂČ l’indagine, non potemmo piĂč parlare, la Procura non ci diede piĂč nessuna delega e praticamente non ci autorizzĂČ a fare piĂč nulla.
ââSu Catania le racconto solo un episodio che Ăš agli atti perchĂ© siamo stati citati addirittura al CSM. Chiariamo subito il dubbio sulla teoria dell’anonimo che avrei scritto per spostare la competenza da Palermo a Catania. Anche questo Ăš un falso storico, giĂ acclarato in sede giudiziaria. Falso storico perchĂ© a un certo punto arriva un esposto anonimo in cui si dice che a Catania stanno facendo dei lavori SIRAP. Il dottor Lima fa delle indagini, bisogna ascoltare Li Pera che sa un sacco di cose. Questo anonimo diede inizio all’indagine di Catania e all’epoca Pag. 42qualcuno disse che l’avesse scritto il ROS e il capitano De Donno per spostare l’indagine da Palermo a Catania. Questo Ăš falso per un motivo molto semplice: se avessi scritto questo anonimo per portare Li Pera a Catania, l’avrei portato e avremmo iniziato. Prima di andare a Catania, chiesi l’autorizzazione per iscritto â c’Ăš il foglio documentato con firma â ai dottori Pignatone e Lo Forte e questo mi assolve. Questa accusa me l’hanno rifatta anche quando il dottor Lo Forte mi fece la querela per diffamazione a Caltanissetta e io mi salvai da questa accusa perchĂ© non portai arbitrariamente Li Pera a Catania, chiesi il permesso della Procura di Palermo di portarlo a a Catania a farlo sentire da quei magistrati e la Procura di Palermo mi autorizzĂČ per iscritto. Se avessi scritto l’anonimo non avrei chiesto l’autorizzazione, scrivo un anonimo per sottrarre l’indagine, non chiedevo l’autorizzazione alla procura di Palermo per andarci. Quando andiamo lĂŹ e facciamo l’indagine, il dottor Lima redige una misura cautelare nei confronti di una quarantina di persone, il dottor Alicata, al momento della firma, si inalbera gli toglie la competenza, dice che il fascicolo non Ăš competenza di Catania â era tutto Catania, non c’era neanche l’associazione mafiosa â stralcia una serie di parti mandandole a varie procure e manda tutto alla Procura di Palermo. Trattiene a Catania un episodio relativo all’ospedale Cannizzaro, se non sbaglio, dove era coinvolta la famiglia Costanzo. Noi seguiamo questo spezzone che resta a Catania, la procura ci delega l’intercettazione telefonica, perchĂ© era stata richiesta una misura dell’ordinanza cautelare nei confronti dei Costanzo piĂč altri funzionari pubblici e imprenditori, una mattina vado in Procura e la segreteria del Procuratore Alicata mi chiama dicendo che il procuratore mi vuole parlare. Vado dal procuratore che mi disse: «Capitano, mi dicono che lei Ăš venuto a chiedere notizie sulla emissione di alcune ordinanze di Pag. 43custodia cautelare». Rispondo affermativamente. Con fare severo mi chiese: «A che titolo lei viene a chiedere queste informazioni?». Pensavo si fosse confuso. Rispondo: «Procuratore, sto facendo intercettazioni telefoniche, li stiamo seguendo, li pediniamo per evitare che scappino. Ci sono le intercettazioni telefoniche, Ăš normale che vengo a chiedere quando saranno emesse le misure per prepararci per l’attività ». Lui mi disse: «Ma chi ha detto che io delego voi per gli arresti?». A quel punto non le ripeto per decenza tutta la frase che dissi. «Procuratore, lei sta scherzando o sta parlando seriamente?». «Sto parlando molto seriamente». Allora gli dissi: «Per quanto mi riguarda, lei puĂČ delegare anche la forestale â all’epoca la forestale non era ancora nei carabinieri â in questo momento rientro in caserma, rimetto la delega, stacco i telefoni e non mi interesso piĂč. Se vuole parlare con me, da questo momento in poi Ăš lei che viene in caserma». Chiudemmo i rapporti con Catania, non ci delegĂČ le indagini, non ci delegĂČ gli arresti e non ci diede nessun’altra delega. Questi erano i rapporti che avevamo con alcuni magistrati. Ultime due annotazioni. Viene ripetuto ancora una volta â forse Ăš un suo lapsus: io non ho riferito dell’incontro del 25 luglio nel 1997, lo abbiamo riferito nel 1992 quando la procura di Caltanissetta ci ha chiamato e ci ha chiesto queste cose, ci sono gli atti processuali, quindi anche questa teoria che abbiamo raccontato dell’incontro del 25 luglio anni dopo la strage, Ăš falsa. Circa la dottoressa Ferraro, la conoscevo perchĂ© me l’aveva presentata il dottor Falcone dato che, come lei sa, si occupĂČ della costruzione dell’aula bunker a Palermo per il maxiprocesso. Era una persona con cui avevamo creato un certo rapporto e quindi c’era una certa sintonia ed era una delle persone a cui Falcone era piĂč legato, quindi Ăš normale che dopo la strage ci fossero questi contatti. Andai da lei al Ministero, dove aveva preso il Pag. 44posto del dottor Falcone, e le parlai di questa cosa. Lei mi disse che ne avrebbe anche riferito al dottor Borsellino tant’Ăš vero che â anche su questo c’Ăš documentazione processuale â lei ne parlĂČ a Borsellino in un incontro all’aeroporto credo di Roma Ciampino, non so dove si incontrarono, e la dottoressa riferisce che Borsellino non dimostrĂČ molto interesse per questa cosa e anzi, in quella circostanza, si mise a parlare di mafia-appalti. Tra l’altro, e chiudo, il 25 giugno l’incontro fu molto stringato. Borsellino mi disse di preparare tutto quello che serviva e di fare un piano per riprendere le indagini e poi quando sarebbe tornato dalla rogatoria in Germania ne avremmo riparlato. Non abbiamo piĂč fatto un altro incontro. Tutto qui.
ââPRESIDENTE. Propongo che la Commissione prosegua i lavori in seduta segreta per poter esaminare un documento riservato.
ââ(La Commissione concorda. I lavori proseguono in seduta segreta, indi riprendono in seduta pubblica).
ââPRESIDENTE. La parola al senatore Cantalamessa.
ââGIANLUCA CANTALAMESSA. Grazie presidente. Generale, per me e per il nostro gruppo della Lega Ăš un onore averla conosciuta. La sua presenza ha un peso, una storia e una dignitĂ che meritano attenzione e rispetto. Lei merita per lo meno attenzione e riconoscimenti, se non anche risarcimenti, non solo presso l’opinione pubblica attraverso i media, ma anche da parte dei partiti politici e da parte dello Stato italiano. Come «ringraziamento» per il suo coraggio, la sua lealtĂ e i suoi eccellenti risultati investigativi, ha dovuto subire da parte di una parte dello Stato tre processi per ipotesi di reato che la Corte d’appello ha giudicato infondati. Non da ultimo nel maggio del 2024 â credo fosse il giorno del suo ottantacinquesimoPag. 45compleanno â ha ricevuto un avviso di garanzia dalla Procura di Firenze in relazione alle stragi del 1993-1994 per reati di strage, associazione mafiosa, associazione con finalitĂ di terrorismo internazionale e di eversione dell’ordine democratico. Credo che questo tutti i presenti lo sappiano, ma credo che sia necessario ripeterlo. Condivido l’auspicio e il pensiero del collega Verini, ma trovo che sia paradossale che Ăš stato oggi indagato per non aver fatto nulla per impedire le stragi dopo essere stato processato per aver trattato per fermarle: Ăš un evidente paradosso.
ââPasso alle domande. Se Ăš possibile volevo avere qualche informazione in piĂč sull’informativa cui prima si Ăš fatto riferimento, quella del 16 febbraio del 1991 â lei vi ha fatto cenno. Di fatto, voi commettete un errore non riconoscendo in un’intercettazione telefonica in cui si discuteva di un personaggio a capo dell’organizzazione di gestione illecita degli appalti l’imprenditore Filippo Salamone, indicando invece che ci si stesse riferendo ad Angelo Siino. Questa circostanza Ăš l’unica in cui si faceva riferimento all’imprenditore Salomone o ce ne sono state altre? Nella sua relazione ha fatto riferimento all’indagine svolta con la Procura della Repubblica di Napoli sempre sul sistema illecito di gestione di appalti pubblici, indagine che, se non erro, Ăš stata anche oggetto di studio da parte dell’UniversitĂ Federico II. Potrebbe riassumere brevemente il contesto di quell’indagine, illustrarci che tipo di rapporto instaurasse con quella magistratura e spiegarci perchĂ© quell’indagine poi Ăš risultata cosĂŹ importante per la comprensione del sistema illecito di gestione degli appalti pubblici in Italia?
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Penso che debba rispondere De Donno che ha svolto materialmente le indagini.
ââPRESIDENTE. Prego colonnello.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Per quanto riguarda la vicenda Salamone â Ăš giĂ stato detto l’altra volta â fu un mio errore. Avevamo posto sotto controllo il consorzio CEMPES di Palermo, composto da una serie di aziende nazionali, tra cui la Tor di Valle, e si creĂČ un problema perchĂ© la Tor di Valle non aveva vinto un appalto e si era diffusa la notizia che stesse preparando ricorso. I responsabili locali, se non ricordo male c’era l’ingegner Zito, vennero contattati affinchĂ© la Tor di Valle recedesse da questo intento. Lui fece fortunatamente una serie di telefonate con Roma e parlĂČ con il dottor Catti De Gasperi, spiegando questa situazione e in quella telefonata gli spiegĂČ quello che era successo dicendo che se non avessero dato fastidio, non avessero rotto il meccanismo senza fare ricorso, sarebbero stati ricompensati perchĂ© c’era una torta da mille miliardi da suddividere, che erano i mille miliardi del consorzio SIRAP. Il dottor Catti anzichĂ© dire, come si sarebbe dovuto aspettare, di andare dai carabinieri e sporgere denuncia, disse che gli stava bene, ma che con la garanzia di quello che conta, quello che inizia con la «S», facendo una serie di riferimenti. In quella circostanza, sbagliai â perchĂ© gli errori si fanno â l’individuazione e ritenni, poichĂ© noi eravamo concentrati su Angelo Siino che ci appariva in quel momento il personaggio dominus dell’indagine, individuai nell’informativa, e lo scrissi, che il personaggio che contava, quello che inizia con la «S», era Angelo Siino. Invece in quella circostanza il riferimento era a Filippo Salamone, cosa che noi avremmo capito dopo nelle indagini successive. Questo poteva essere un accertamento molto importante perchĂ© probabilmente ci avrebbe consentito di fare delle valutazioni diverse. Sta di fatto che comunque Salamone era abbastanza noto nell’informativa, l’avevamo giĂ indicato. Adesso non le cito tutte le telefonate e tutte le Pag. 47questioni, di cui ho gli appunti, ma giĂ nel nostro dossier lui viene citato abbondantemente a pagina 201. A pagina 280 ci sono delle intercettazioni telefoniche. Tra l’altro l’avevamo indicato in rapporto con Spezia, che era un imprenditore che risulta poi interessato a tutta la vicenda degli appalti di Pantelleria e a tutte le altre questioni. Questa storia, siccome Ăš stata riportata ed Ăš stata strumentalmente usata anche per attaccarmi piĂč volte, entra anche nelle indagini di Caltanissetta. Anche la dottoressa Loforti cita nella sua informativa il fatto che, sebbene avessimo commesso questo errore, perĂČ la figura di Salamone della ditta Impresem di Agrigento fosse ampiamente nota, ampiamente riconducibile ed era ampiamente dimostrato quale fosse il suo ruolo. Per esempio la dottoressa Loforti disse: «Senza dire che il ruolo del Salamone era emerso nella sua pienezza nell’ambito della manipolazione di appalti pubblici indetti da SIRAP e che su tale gara, alla pagina 203 della informativa, si affermava che si tornerĂ in un altro elaborato, cosĂŹ come a pagina 225 della medesima informativa si dava atto che erano stati sottoposti a intercettazioni telefoniche altre utenze riconducibili alla questione». Poi c’Ăš tutta un’altra serie di attivitĂ e di questioni. Per cui, sĂŹ, effettivamente l’errore l’ho fatto, ma questo incise in una valutazione iniziale, ma Salamone era giĂ noto e conosciuto e poi ritorna ampiamente, tanto Ăš vero che viene arrestato successivamente.
ââPer quanto riguarda l’inchiesta di Napoli, l’onorevole Cafiero la conosce benissimo. Provo a riassumerla, ma per quanto cercherĂČ di essere sintetico, si tratta di una cosa abbastanza complessa. Con la Procura della Repubblica di Napoli credo che abbiamo forse condotto l’unica indagine di questo tipo che mai sia stata fatta in Italia, un prototipo e un laboratorio di attivitĂ che non erano state mai tentate prima e mai sono state ripetute dopo. Siamo nel 1996 e iniziavano i cantieri per la costruzione Pag. 48dell’Alta velocitĂ Roma-Napoli. In alcuni cantieri gestiti dalla Calcestruzzi S.p.A., erede dell’impero Gardini, si presentarono alcuni malavitosi chiedendo il pagamento della tangente. L’amministratore delegato dell’epoca, che era una persona assolutamente perbene e coraggiosa, il dottor Parrello, si presentĂČ in Procura dal dottor Paolo Mancuso e sporse denuncia. Il dottor Mancuso mi chiamĂČ e mi affidĂČ le indagini. Era una classica estorsione, di quelle che avvenivano nei cantieri. Dissi che ci avremmo lavorato. Tornando in ufficio mi chiesi perchĂ© ci avremmo dovuto lavorare come in una classica estorsione dove alla fine avremmo preso tre persone senza comprendere quale fosse il quadro complessivo. Per cui tornai in Procura ed esposi una tesi abbastanza ardita che il dottor Mancuso, persona di assoluta intelligenza e di grande acume, accolse immediatamente nonostante sul momento sembrasse folle. Sostanzialmente, proposi alla Procura di Napoli di accettare l’estorsione, sostituendo i funzionari dell’azienda Calcestruzzi con un nostro ufficiale di polizia giudiziaria, di dichiararci disponibili a pagare l’estorsione per cercare di risalire a monte il canale di gestione delle attivitĂ e quindi cercare di arrivare veramente a chi gestiva tutta la cosa. Il Procuratore della Repubblica, il dottor Agostino Cordova, accettĂČ questa impostazione. Scegliemmo un ufficiale del ROS â all’epoca era il tenente colonnello Paticchio che comandava la sezione anticrimine di Bologna â che trasformammo nell’ingegner Varricchio. Il colonnello Paticchio ha sbagliato mestiere, non doveva fare l’ufficiale dei carabinieri, in un’altra vita deve fare o il truffatore o l’attore. A Hollywood â lo dico sempre â avrebbe vinto il premio Oscar. EntrĂČ immediatamente nella parte con tutta una serie molto complessa di azioni, che l’onorevole Cafiero conosce benissimo perchĂ© abbiamo lavorato a lungo anche con lui. La Procura di Napoli predispose una serie di provvedimenti non semplici, Pag. 49perchĂ© si autorizzĂČ un documento di copertura e altre attivitĂ molto complesse. Nel frattempo avevamo arruolato un geometra di Acerra, che aveva presentato una denuncia contro il comune. Casualmente la Procura ci passĂČ questo atto â ecco quando c’Ăš il colloquio immediato tra Procura e investigatori â ci parlĂČ di questa indagine, ci passĂČ questa denuncia che sembrava irrisoria, noi capimmo il personaggio, lo contattammo e lo convincemmo a lavorare per noi per cui divenne il tramite con la famiglia di Acerra, perchĂ© l’estorsione era stata fatta ad Acerra. Chiedemmo un incontro al responsabile della famiglia camorristica di Acerra dove facemmo andare l’ingegner Varricchio il quale espose questa tesi: «I lavori dell’Alta velocitĂ sono lavori complessi, si allargano per centinaia di chilometri, sono molto lunghi. Non Ăš una cosa che possiamo risolvere con un pagamento, ci sono tante ditte coinvolte. Io sono il responsabile del consorzio, parlate con me, noi siamo disposti a pagare, l’importante Ăš che non succeda nulla». Quando il nostro interlocutore sentĂŹ questo discorso, disse che occorreva fermarsi perchĂ© la cosa era complicata e bisognasse andare dai Casalesi, da Michele Zagaria. Quindi passammo ai Casalesi. Riuscimmo a interloquire con i Casalesi piĂč volte e proponemmo alla camorra questo schema di lavoro. «Siamo disposti a lavorare, vogliamo fare l’opera, l’opera Ăš importante, non diamoci fastidio, troviamo un modo per risolvere la questione». Ci chiesero il 3 per cento dell’importo degli appalti, parliamo di migliaia di miliardi. Gli feci questa proposta. Io dirigevo tutto il lavoro. Il colonnello Paticchio stava fuori sede, ogni tanto veniva, io lo istruivo su quello che facevamo perchĂ© nel frattempo avevamo microfonato mezza Campania, avevamo preso il controllo del parcheggio dell’hotel vicino alla Procura, portavamo tutti lĂŹ a cena e mentre cenavano microfonavamo le macchine per cui ascoltavamo praticamente tutti. Sapevo quello Pag. 50che succedeva e preparavo Paticchio alle interlocuzioni del giorno successivo. Ci chiesero il 3 per cento degli importi, rispondemmo che il 3 per cento non era possibile perchĂ© si parlava di cifre enormi e fare tutto questo «nero» non era possibile. Il successivo passaggio fu un meccanismo al contrario. «Dateci le ditte, noi suddividiamo i lavori tra le vostre ditte, affidiamo loro i lavori e ogni ditta vi storna il suo 3 per cento, cosĂŹ lo diluiamo». Durante questa interlocuzione c’era tutto un altro gruppo di persone che ci giravano intorno. Ci fecero presente che c’era anche un problema politico, perchĂ© non si trattava solamente di camorra, dovevamo parlare con i politici. «Siamo qua, non c’Ăš problema» e ci portarono alla regione Campania dal vicepresidente della giunta che ci ricevette. Tutto quello che vi sto dicendo per la prima volta Ăš stato foto-video documentato. Avevamo videocamere â la tecnologia era diversa â dovunque, nelle macchine, anche una valigetta Ăš entrata nella regione Campania a documentare l’incontro. Il vicepresidente della giunta ci disse che era tutto perfetto, solo che c’erano i partiti perchĂ© il tracciato passava per tanti comuni e bastava che un sindaco si opponesse e si bloccavano i lavori. Che dobbiamo fare? 3 per cento, tutto documentato. Era sempre Paticchio che parlava per il tramite del lavoro che facevamo. Ci garantĂŹ che tutti i partiti avrebbero preso il 3 per cento tranne Rifondazione Comunista e la Lega perchĂ© allora non erano nella regione Campania. «Nessun problema» si rispose «perĂČ perchĂ© non facciamo un incontro con ognuno dei vari responsabili giusto per essere sicuri che siamo d’accordo?». Chiaramente il nostro intento era avere la certezza che non fossero millanterie. «Si puĂČ fare». Mentre trattavamo con la camorra, quindi, iniziammo a trattare con tutti i partiti e incontrammo tutti i responsabili dei vari partiti chi a Roma chi a Napoli, tutto video-audio documentato. A loro facemmo lo stesso discorso e Pag. 51gli dicemmo: «Guardate, non vi possiamo pagare questa cifra enorme di denaro in nero. Dateci le vostre ditte, noi diamo loro i subappalti e ognuno vi storna il 3 per cento». «Perfetto, nessun problema» e cominciano ad arrivare gli elenchi. La parte politica fu molto piĂč facile da convincere. I Casalesi invece si fecero delle domande perchĂ© tra di loro c’era il braccio destro di Michele Zagaria che aveva il dubbio che questa cosa filasse troppo liscia, fosse troppo tranquilla. Una sera fecero una riunione in un appartamento a Caserta â all’epoca c’era Tele+ ed eravamo riusciti a inserire una telecamera con microfono dentro il decoder di Tele+ per poter riprendere in diretta. Stavano sul divano e fecero tutta una discussione, perchĂ© soprattutto quello che si chiamava lo sceriffo â l’onorevole lo ricorderĂ â diceva che nel caso fossero stati carabinieri, se avessero dato i nomi delle ditte sarebbero stati completamente «fottuti». Allora uno sul divano tra quelli piĂč propensi â tant’Ăš vero che estrapolai questo spezzone e lo portai al signor generale â disse di aver conosciuto qualche generale dei carabinieri, ma che non gli sembravano capaci di fare una cosa simile. Al che chiamarono un avvocato e gli chiesero consiglio. Questo avvocato disse: «Chiedetegli dei soldi perchĂ© loro possono procurarsi il denaro ma non possono consegnarvelo. Quando lo consegnano e vi arrestano, al massimo si tratta di estorsione, ne arrestano due, perĂČ salvate tutto l’impianto». All’epoca ci chiesero 200 milioni di lire in contanti, richiesta che trasmisi al mio comandante. A me sono arrivati 200 milioni di lire in contanti â faccio riferimento all’onorevole Cafiero perchĂ© l’abbiamo vissuta insieme. La Procura di Napoli per la prima volta fece un provvedimento molto articolato perchĂ©, grazie, devo dire la veritĂ , al dottor Parrella della Calcestruzzi, quest’ultima, senza andare in consiglio di amministrazione perchĂ© altrimenti avremmo disvelato tutto, accettĂČ Pag. 52di versare 200 milioni su un conto corrente della Procura della Repubblica. La Procura sequestrĂČ quei 200 milioni e autorizzĂČ la interposizione di altra somma. Usammo il denaro e organizzammo un incontro a Caserta dove loro si presentarono â noi ascoltavamo tutto per fortuna â con sei macchine e due moto, perchĂ© sicuri che eravamo carabinieri. Riuscimmo a pedinarli nonostante fossero con otto mezzi fino a che a mezzanotte non entrarono a Caserta vecchia e cominciarono a correre per le strade. A quel punto chiaramente non potevamo piĂč seguirli. Paticchio era con loro, mi ricordo che quella sera via radio dissi di sospendere il servizio e un mio sottufficiale quando mi chiese: «E Moro?» â era il suo nome di battaglia â risposi: «Al massimo lo vendichiamo domani mattina». Vanno in un appartamento, si guardano, Paticchio tira fuori 200 milioni in contanti, tutti pronti per l’irruzione dei carabinieri. Dopo dieci minuti Paticchio propone di andare a dormire. Questi prendono i soldi e se ne vanno. La mattina dopo Zagaria chiama e dice: «Ingegnere, siete una persona seria, a mezzogiorno al Nuovo Hotel di Caserta Sud vi diamo l’elenco delle ditte» e ci spara tutto l’elenco delle ditte della camorra. Ancora 2-3 minuti prima di concludere per arrivare al perchĂ© fu importante. Non contenti di questo proposi un altro meccanismo â questa cosa la facemmo anche con i politici â cioĂš di chiedere l’autorizzazione a incontrare le singole ditte perchĂ© â mi ponevo il problema processuale â un domani la ditta avrebbe potuto dire di stare in un elenco senza sapere niente. Nessun problema. Prendemmo una bellissima suite all’Hotel Terminus a Napoli che riempimmo di microspie e telecamere e convocammo tutti gli imprenditori, quelli segnalati dai politici e quelli segnalati dalla camorra. Nel frattempo facemmo entrare un secondo agente sotto copertura, che era un maresciallo bravissimo, perchĂ© bisognava entrare nel tecnicismo degli appalti,Pag. 53al secolo geometra Del Vecchio che a mano a mano che arrivavano chiedeva a ognuno chi lo mandava â Zagaria o un politico. «Che deve fare?» «Mi hanno detto che devo fare il nero», «Come lo fa?» «CosĂŹ e cosÏ». Uno dei piĂč grandi costruttori napoletani, settantenne, uscendo dalla stanza si rivolse al mio maresciallo e gli disse che ci doveva dare la mano perchĂ© finalmente avevano fatto una cosa come Cristo comanda con un meccanismo perfetto! Incontriamo tutti, tutto questo nell’arco di sei mesi, non di piĂč.
ââPRESIDENTE. Colonnello, che anno era?
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. 1996. A un certo punto succede un imprevisto perchĂ©, dall’altra parte, il mondo politico che ci aveva segnalato le aziende aveva saputo che avevamo pagato qualcosa e volevano qualcosa, in particolare un personaggio che ci portava in giro. La storia sarebbe lunga. Il problema era che i Casalesi, visto che la cosa funzionava, perchĂ© gli avevamo dato 200 milioni a fondo perduto e chiaramente li avevamo persi, ce ne chiesero altri 200. Non ebbi il coraggio di rifare la richiesta al generale. Rispondemmo che glieli avremmo consegnati il giorno dopo al casello di Cassino sud. Loro vennero e chiaramente l’ingegner Varricchio non si presentĂČ e facemmo telefonare loro dicendo che l’ingegner Varricchio aveva avuto un incidente, che era ricoverato in ospedale e quindi non sarebbe potuto venire. Per fortuna la Golf Gti in cui si trovavano l’avevamo microfonata perchĂ© alcuni di loro, gente «seria» del settore, dubitarono di questa cosa e dissero che sarebbero andati a trovarlo in ospedale. Quindi si misero in macchina e partirono per Bologna. Chiamarono la segretaria per sapere in quale clinica fosse ricoverato e noi nel frattempo ricoverammo l’ingegner Varricchio. Abbiamo ricoverato il colonnello Paticchio, gli abbiamo Pag. 54anche fatto una dose di anestetico per evitare che potesse essere colto da qualche crisi di riso, lo fasciammo e ingessammo â ci sono le foto, Ăš tutto documentato â e questi arrivarono in ospedale trovando Varrichio, e quindi era «vero». In questo frangente arrivĂČ un maresciallo dei carabinieri in divisa chiedendo loro se fossero stati parenti. SpiegĂČ loro che era una cosa strana in quanto l’ingegnere viaggiava su una macchina molto potente, un’Audi A 6 â che loro conoscevano perchĂ© l’avevamo mostrata loro piĂč volte â in cui c’era una valigetta piena di soldi. «Siamo noi, noi siamo i collaboratori». «Andiamo in caserma». Loro si aspettavano che consegnassimo loro i soldi che non avevamo e facemmo un verbale dicendo che perĂČ non potevamo consegnare i soldi perchĂ© erano stati sequestrati all’autoritĂ giudiziaria a seguito dell’incidente. Questa storia finisce che, non potendo portarla avanti oltre, a un certo punto con la Procura si decise di intervenire, quindi arrestammo un sacco di persone, questa cosa venne rivelata. Finisce che tutta la parte camorristica venne condannata, tutta la parte politica no, perchĂ©, nonostante la Procura abbia fatto vari ricorsi, la Cassazione ritenne che mentre l’associazione camorristica preesistesse al nostro arrivo â considerĂČ la presenza piĂč che di un infiltrato di un agente provocatore, se non ricordo male. La Cassazione ritenne che invece la parte politica si fosse organizzata nel momento in cui noi eravamo arrivati, e che su questo presupposto non fossero punibili. Inoltre ritenne che, essendo noi carabinieri e non potendo pagare tangenti, il reato fosse impossibile per cui ci fu tutta una complessa discussione giuridica per cui la parte politica fu assolta. Tutto il resto Ăš stato documentato. La FacoltĂ di Economia dell’UniversitĂ Federico II ha inserito questa indagine nel percorso di studio per vari anni. Recentemente Ăš stato piĂč volte citato sia dall’AutoritĂ anticorruzione sia da alcuni magistrati come uno strumento â Pag. 55quello dell’agente infiltrato non provocatore â che la magistratura dovrebbe avere quindi per scoprire questo tipo di reati. Ă importante perchĂ© Ăš stata l’unica indagine di questo tipo che Ăš stata fatta in Italia a mia memoria, ed Ăš stata un’indagine che, al di lĂ degli esiti giudiziari, ha documentato dal vivo â sono depositate agli atti centinaia di ore di video-registrazione â come si comportano la camorra, e la famiglia dei Casalesi ne era la parte piĂč importante, e la politica cattiva nella gestione degli appalti pubblici. Credo che da questo punto di vista sia stato un esempio unico di questa attivitĂ .
ââPRESIDENTE. Indagini molto accurate e geniali sotto un certo punto di vista. Ă iscritto l’onorevole De Corato.
ââRICCARDO DE CORATO. Volevo intanto ringraziare sia il generale Mori sia il colonnello De Donno per quello che ci hanno raccontato qui in Commissione, ma soprattutto per aver svolto un ruolo importante nella vicenda di mafia-appalti. Quindi grazie generale e grazie colonnello. Voglio anche ringraziare il generale, avendo seguito «Mani pulite» nel consiglio comunale di Milano in quegli anni, ricordo che il generale Mori, almeno da parte mia, era uno dei piĂč ascoltati perchĂ© che ci fosse qualche connessione tra le due vicende ci appariva giĂ chiaro allora. Siccome il generale ha fatto riferimento ad alcune interconnessioni che ci sono state tra l’indagine che faceva il dottor Di Pietro a Milano e quella che veniva fatta a Palermo e in Sicilia da Falcone e Borsellino, volevo chiedere innanzitutto se questi nomi li ricorda e ci puĂČ essere da parte sua un riferimento circa questa connessione? A parte Gardini che ovviamente nelle due vicende era abbastanza coinvolto, credo che ci fosse qualcun altro. Siccome ne ha fatto riferimento in un passaggio veloce, ma che io ho colto, non so se lei ne abbia conoscenza, magari anche in seduta segreta, a discrezione del presidente.Pag. 56
ââVolevo fare altre due domande al generale Mori che riguardano il libro, che Ăš stato citato da un mio collega prima, «L’altra verità », dove, a pagina 252, viene posta una questione che ritengo cruciale da parte degli autori. Dicono gli autori: «Cosa c’Ăš stato dietro il tentativo di squalificare e criminalizzare Mori, De Donno e Subranni con il processo Trattativa?». La domanda Ăš questa generale. Adesso che la vicenda processuale si Ăš conclusa con la sentenza della Cassazione, pensa che ci sia una connessione con l’indagine che vi vedeva impegnati in mafia-appalti? Altra domanda, generale, sempre facendo riferimento al libro «L’altra verità », a pagina 253, alla fine del capitolo 20, ponete forse quella che ritengo la questione piĂč importante di questo libro, e cioĂš la trattativa Stato-mafia non Ăš quella oggetto del famoso processo annullato in Cassazione. Forse c’Ăš stata un’altra trattativa interna, tutta interna, alle dinamiche politiche nel passaggio alla seconda Repubblica, per garantire la continuitĂ del potere con uno o piĂč architetti, che sarebbe emerso se l’indagine mafia-appalti non fosse stata depotenziata. Sempre a pagina 269 del libro, poi dite: «Abbiamo maturato una precisa idea della vera identitĂ dell’architetto». Domanda: ci puĂČ dire almeno a quale mondo questo architetto appartiene o fa riferimento? Preciso che non avete prove per la sua personale individuazione, ma potremmo magari capire dalle sue parole qualcosa di piĂč. Grazie generale.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. La connessione tra l’indagine milanese «Mani pulite» e quella di mafia-appalti nascono dal fatto che le due inchieste presentavano dei personaggi in comune. Chi erano? Erano personaggi che secondo noi venivano dal Nord. Personaggio-chiave era chiaramente Gardini. Con lui c’era Panzavolta che era l’amministratore delegato di Calcestruzzi e poi c’era quel mondo mafioso che si era inserito nella Calcestruzzi e quindi stabilire Pag. 57il legame preciso tra imprenditoria del Nord e mafia appalti e quindi Cosa nostra. Di Pietro lo ha ammesso anche di recente: non capĂŹ inizialmente questo legame. Glielo descrisse per la prima volta Paolo Borsellino durante il funerale di Giovanni Falcone e decisero quindi di proseguire insieme. Chiaramente la morte di Paolo Borsellino ha fatto sĂŹ che ciĂČ non avvenisse. Successivamente Di Pietro, sollecitato da Giuseppe De Donno, andĂČ a sentire sia Vito Ciancimino sia soprattutto il geometra Li Pera, il quale gli spiegĂČ come si sviluppava il condizionamento degli appalti. L’intendimento di Di Pietro Ăš noto â lei ha seguito questa indagine â era quello di costringere Raul Gardini ad ammettere che in pratica la provvista della tangente Enimont, che lui aveva creato, provenisse in parte, se non tutta, dalle rimesse mafiose e probabilmente secondo Di Pietro avrebbe ammesso qualcosa. Quella mattina in cui lo doveva sentire, si suicidĂČ. A questo punto si possono fare tutte le ipotesi, ma ripeto quello che ho detto prima al senatore Verini, a me non piacciono le ipotesi perchĂ© ho fatto un altro mestiere. Sono veramente come San Tommaso: intanto dico qualche cosa perchĂ© l’ho documentato. Anche Di Pietro si fermĂČ di fronte al fatto che Gardini quel giorno non parlĂČ. Dare giudizi ulteriori soprattutto dal punto di vista politico, non mi compete.
ââPer quanto riguarda le affermazioni che abbiamo illustrato ed espresso nel libro «L’altra verità », anche lĂŹ quello che abbiamo dichiarato Ăš scritto e documentato, nessuno ci puĂČ contestare quanto abbiamo scritto in questo libro, ma nulla di piĂč di quello che Ăš scritto vogliamo dire perchĂ© sarebbe delazione e non sarebbe corretto. Mi limito a questo, non so se De Donno vuole aggiungere qualche cosa.
ââCirca l’architetto, secondo Vito Ciancimino non Ăš di cosa Nostra, secondo Vito Ciancimino era un politico. Se vuole il mio parere, io mi sono fatto l’idea, ma non gliela dico perchĂ© non Pag. 58ho documenti per fare un nome. Ciancimino questo nome ce l’ha fatto, ma siccome non ci sono prove e siccome Ciancimino era un criminale, non possiamo dirlo.
ââPRESIDENTE. Colleghi, sull’ordine dei lavori. L’Assemblea della Camera vota alle 14 ma ci sono ancora 8 iscritti a parlare. O ammetto un ultimo intervento oppure aggiorniamo immediatamente i lavori, si tratta di mezz’ora di differenza.
ââSarete costretti a tornare perchĂ© ci sono ancora molte domande.
âGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Nessun problema.
ââPRESIDENTE. Va bene. Consento un ultimo intervento. La parola all’onorevole Provenzano.
ââGIUSEPPE PROVENZANO. Grazie presidente. Condivido anche le premesse dell’intervento che ha fatto prima il senatore Verini e mi scuso se torno su alcuni aspetti, generale. Aggiungo una premessa, presidente. Credo che chiunque di noi non abbia vissuto da protagonista quella stagione debba avere un profondo rispetto per tutti i protagonisti. Tra le manifestazioni di questo rispetto credo che non rientrino, presidente, le tifoserie da stadio a cui abbiamo assistito in questa Commissione perchĂ© rischiano di produrre una strumentalizzazione politica che non sono convinto possa portare particolari benefici non solo ai lavori di questa Commissione, ma anche agli autori stessi di questa strumentalizzazione.
ââGenerale, se non sbaglio, sia lei sia il dottor De Donno avete in qualche modo giustificato il silenzio tra il 1993 e il 1997 sull’indagine mafia-appalti, con, se capisco bene, un deterioramento delle relazioni politiche ambientali con le Procure di Palermo e di Catania. Se perĂČ era forte in voi, scusate se ci Pag. 59torno, il convincimento che questa fosse la causale che spiegava la strage, come mai in quegli anni â sono stati quattro anni tra il gennaio del 1993 quando sono iniziati gli interrogatori di Ciancimino, che voi stessi avete sollecitato con la Procura, e il pentimento di Siino â non vi siete attivati, non dal punto di vista della polizia giudiziaria, su cui posso capire che vi fossero quei problemi ambientali che avete ricostruito, ma con altri canali, come avevate fatto per esempio nel caso della Ferraro, cioĂš con gli uomini con cui avevate combattuto dalla stessa parte o addirittura in maniera formale con esposti, eccetera? Questa Ăš la prima domanda sulla quale vorrei tornasse.
ââNon penso che in questa Commissione dobbiamo rifare i processi che vi hanno visto imputati e che hanno visto un esito molto chiaro e non penso nemmeno che perĂČ in questa Commissione occorra fare la storia investigativa o la storia giudiziaria di una singola Procura, anche perchĂ© Ăš difficile non inserire la strage di via d’Amelio in una sequenza di avvenimenti tragici che hanno segnato la storia d’Italia e la storia della nostra democrazia. Il compito di questa Commissione, io credo, dovrebbe essere quella di ricostruire il contesto storico-politico in cui maturano le scelte o le mancate scelte delle istituzioni nel contrasto alla criminalitĂ mafiosa e che possono illuminare ancora oggi la nostra strategia di contrasto alla mafia. Alla luce degli elementi di continuitĂ profondi che lo specifico fenomeno criminale mafioso porta dalle sue origini a oggi, tra questi c’Ăš una indefettibile connessione tra la mafia e la politica. Come diceva Pio La Torre, la mafia Ăš un fenomeno di classi dirigenti e quindi bisogna discutere di classi dirigenti. Come diceva Paolo Borsellino, che abbiamo ripetutamente richiamato qui oggi, mafia e politica sono due poteri che insistono sullo stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo. E allora, generale, io le chiedo di tornare, insisto, su alcune domande che Pag. 60le ha posto il senatore Verini alle quali lei si Ăš sottratto dicendo che dal suo punto di vista non Ăš rilevante quello che pensa lei, ma lo lasci dire a questa Commissione se Ăš rilevante o no. Innanzitutto, mi lasci dire, non siamo dei magistrati e la regola di san Tommaso qui non vale, ma, anche a far valere la regola di san Tommaso, Ăš difficile immaginare che dal suo osservatorio lei non vedesse cosa Ăš accaduto nelle elezioni del 1987, che giudizio ha dato su quella stagione a Palermo, che significato ha avuto in una transizione politica profonda nel nostro Paese l’omicidio di Salvo Lima, quali erano gli interlocutori e i riferimenti che in quella fase si stavano attivando a Palermo. Lei era lĂŹ, non si puĂČ dire che non vedesse dall’osservatorio in cui Ăš stato, a meno che, ma farei un torto alla sua intelligenza e alla sua conoscenza del fenomeno mafioso, lei non pensasse che il ruolo che la politica ha nel rapporto con la mafia sia esclusivamente quello di erogatrice di appalti, ma credo che cosĂŹ non sia. Da questo punto di vista, allora, le chiedo, soprattutto, quale legame a suo avviso rimarrebbe tra la strage di Capaci e quella di via d’Amelio, tra la strategia terroristico-mafiosa e le stragi di via dei Georgofili, via Palestro, gli attentati a Roma. Anche qui â non se la prenda se anticipo la sua risposta â difficilmente puĂČ essere mafia-appalti. L’ultimissima cosa, a proposito delle stragi, le chiedo se anche in altre funzioni, non quelle di polizia giudiziaria, non quelle del ROS, ma per esempio al SISDE, lei ha avuto modo di entrare in contatto con i fratelli Graviano direttamente o indirettamente.
ââPRESIDENTE. Onorevole Provenzano, fermo restando che tutte le domande sono legittime, lei non puĂČ dire al generale come deve rispondere, se lui non vuole dare un suo punto di vista.
ââGIUSEPPE PROVENZANO. Non ho detto come deve rispondere, ha chiesto di rispondere e di valutare noi.
ââPRESIDENTE. Onorevole, lei ha questo vizio che quando io parlo, mi parla sopra. Deve imparare che chi presiede non interrompe e non vuole essere interrotto. Quando ha imparato questo, poi mi risponde se mi vuole rispondere. Siccome questa audizione fin qui Ăš sempre stata corretta, le dico intanto che i qui presenti non sono sottoposti a nessun interrogatorio, quindi Ăš loro libertĂ decidere se rispondere o meno; secondo, che non Ăš carino imboccare gli auditi con delle risposte, fermo restando che loro sono qui per indicare quale fosse il motivo per cui Borsellino indicĂČ la Procura di Palermo come «nido di vipere» e non per fare suggestioni sull’allora situazione politica. Quindi, ferma restando la liceitĂ di tutte le domande, la prego di avere rispetto delle risposte che vogliono o non vogliono dare. CiĂČ vuol dire che Ăš mio dovere, come ho fatto in altre occasioni, mantenere il motivo dell’audizione. Prego, generale Mori.
ââGIUSEPPE PROVENZANO. Mi lasci dire.
ââPRESIDENTE. Sempre io la do la parola perĂČ, onorevole Provenzano, lei me la chiede e io gliela do, non se la prende da sĂ©, perchĂ© funziona cosĂŹ.
ââGIUSEPPE PROVENZANO. Presidente, credo o di essermi spiegato male o lei non ha ascoltato perchĂ© io ho precisato non il modo in cui doveva rispondere il generale. Mi sono limitato a chiedere di non sottrarsi a una valutazione che ritengo possa essere rilevante per questa Commissione, cosĂŹ come ho specificato che noi non siamo magistrati.
ââPRESIDENTE. Facciamo che ho capito male io, preferisco aver capito male io, fermo restando che loro sono liberi di rispondere come credono.
ââGIUSEPPE PROVENZANO. Mi atterrĂČ a ciĂČ che lei ritiene carino nell’andamento dei lavori di questa Commissione. Non credo che lo siano il tifo e gli applausi.
ââPRESIDENTE. Ancora? Mi sono pentita di aver voluto prolungare questa audizione perchĂ© dimostrate ancora una volta di non voler un clima teso a raggiungere la veritĂ . Non mi fa ridere senatore Verini! Prego generale. Rispondete come credete ovviamente. Ora basta, grazie. La parola al generale Mori.
ââMARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Delle due domande, rispondo a quella di carattere politico perchĂ© sulla parte tecnica potrĂ rispondere meglio e piĂč di me Giuseppe De Donno. Lei ha detto che, rispondendo al senatore Verini, non ho risposto. In effetti Ăš vero e le dico anche perchĂ©. PerchĂ© su queste vicende siamo ancora molto indietro rispetto alla veritĂ , tant’Ăš vero che c’Ăš ancora la Commissione antimafia. Ma perchĂ© devo fare io una valutazione politica a lei che Ăš un politico su problemi che non mi riguardano? Io faccio l’operativo e il mio l’ho fatto, e l’ho fatto bene, molto bene, quindi mi faccia tutte le domande sulle attivitĂ che ho svolto, le risponderĂČ. Sulla parte politica non le rispondo perchĂ© non mi compete e la domanda Ăš provocatoria.
ââGIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Onorevole, brevissimamente. Lei chiedeva che cosa abbiamo fatto dal 1993 al 1997. Intanto a Catania il Procuratore della Repubblica ci ha tolto le deleghe e quindi le indagini non le potevamo piĂč fare. Anche in una recente intervista del senatore Scarpinato, fatta in un programma che citava prima il generale, il parlamentare diceva che la polizia giudiziaria fa le intercettazioni, il PM non legge i brogliacci e si limita a leggere quello che gli manda la polizia giudiziaria e quindi se non gli manda le cose, Ăš colpa della polizia giudiziaria. Non mi pare che il codice di procedura penale dica questo. Ă sempre facile scaricare sulla polizia giudiziaria. Ci dimentichiamo di una Pag. 63cosa: che il dominus delle indagini dalla riforma del 1989 Ăš il pubblico ministero. Se il Procuratore della Repubblica di Catania mi toglie la delega io che devo fare? Quando a Palermo dopo gli arresti del 1993 abbiamo fatto delle altre attivitĂ e la procura di Palermo non mi delegĂČ le indagini, io che cosa dovevo fare? Cosa ho fatto? Io l’ho fatto: ho avuto il coraggio di andare alla Procura della Repubblica di Caltanissetta e scrivere 50 pagine di verbale. Ho denunciato i magistrati di Palermo, l’ho messo per iscritto assumendo le mie responsabilitĂ . Penso che nessun ufficiale di polizia giudiziaria in Italia abbia fatto quello che ho fatto io. Sono andato in Procura a Caltanissetta e ho messo a verbale quello che pensavo. L’ho fatto. C’Ăš stato un processo: giustamente il GIP di Caltanissetta ha assolto tutti quanti, perchĂ© tra l’altro alcuni magistrati della Procura di Palermo mi hanno querelato per diffamazione. PiĂč che denunciarlo a un’autoritĂ giudiziaria, che dovevo fare? Quando abbiamo capito che non c’era possibilitĂ di fare nient’altro, perchĂ© oltre questo non vedo che cosa potevamo fare, ci siamo trasferiti, ma non Ăš che ce ne siamo andati in vacanza, siamo andati a Napoli, dove la procura di Napoli ci ha accolto. Quello che ho raccontato poco fa Ăš stata una delle attivitĂ che abbiamo fatto, tra l’altro con l’onorevole presente qui in aula. Non Ăš che noi ce ne siamo andati, non mi hanno messo in condizione di lavorare.
ââ1997. Si pente Siino, la Procura di Palermo non mi chiama, delega le indagini alla Guardia di finanza, Ăš un suo diritto. L’onorevole Cafiero penso che possa confermare che, quando si prende un arrestato in un’operazione, in genere viene dato alla forza di polizia che ha proceduto, ma non per un piacere, ma perchĂ© si presume che la forza di polizia che lo ha indagato e lo ha arrestato ne sappia molto piĂč di tutti quanti gli altri, e Siino non ce l’hanno fatto toccare. Una regola non scritta, per Pag. 64caritĂ , la Procura puĂČ delegare chi vuole, ci mancherebbe altro, ma quando il generale chiama il Procuratore Caselli e gli dice che De Donno aveva parlato con Siino e che c’erano le relazioni di servizio. «Le vuoi?». Caselli dice no. Ci convoca a Torino e ci prende a verbale in due stanze separate con quattro magistrati, ma che dovevamo fare piĂč di questo? Tutte le altre deleghe, le stragi: lo chieda ai magistrati di Caltanissetta. PerchĂ© nel gruppo di indagine sulle stragi il ROS Ăš stato delegato solamente in parte? Non ci hanno chiamato, non ci hanno fatto indagare, hanno delegato il gruppo di indagine Falcone-Borsellino. Benissimo, Ăš stata una scelta loro. Penso che da parte nostra piĂč di questo non potevamo fare.
ââPRESIDENTE. Grazie mille. Il seguito dell’audizione Ăš rinviato a una prossima seduta.
ââLa seduta termina alle 13.
Audizione di Mario Mori, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo, e di Giuseppe De Donno, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo, nell’ambito del filone di inchiesta sulla strage di via D’Amelio.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’audizione di Mario Mori, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo, e di Giuseppe De Donno, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo, nell’ambito del filone di inchiesta sulla strage di via d’Amelio.
Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell’audizione libera ed Ăš aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione, e che i lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta dell’audito o dei colleghi. In tal caso, non sarĂ piĂč consentita la partecipazione da remoto e verrĂ interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
Prima di dare la parola agli auditi, comunico a tutti che, come da intesa raggiunta nell’ufficio di presidenza, nella seduta di oggi procederemo alla sola audizione degli auditi, anche perchĂ© consegneranno della documentazione e quindi le domande saranno rivolte in un’altra seduta.
Nel dare direttamente la parola al generale Mori, voglio prima ringraziarlo per la sua cortesia e per la sua disponibilitĂ ad essere qui.
MARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Saluto tutti e ringrazio per l’opportunitĂ che ci viene concessa.
La relazione verterĂ sulla nostra attivitĂ svolta in Sicilia nei confronti dell’organizzazione criminale di cosa nostra. Questo intervento, con l’autorizzazione della Commissione, si articolerĂ come segue: farĂČ una breve premessa, poi cederei la parola a Giuseppe De Donno, che Ăš colui che materialmente ha fatto le indagini, e poi vorrei concludere io con delle considerazioni su quanto avrĂ detto il dottor De Donno.
PRESIDENTE. Va bene.
MARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Dati i tempi molto ristretti, noi abbiamo preparato un documento completo che, se la Commissione vuole, possiamo consegnare.
PRESIDENTE. Il regime Ăš libero?
MARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Libero.
PRESIDENTE. Prego, generale.
MARIO MORI, generale dell’Arma dei carabinieri in congedo. Ho assunto il comando del gruppo di Palermo il 22 settembre 1986. Non avevo mai svolto servizio in Sicilia. Provenivo da un incarico nello Stato maggiore dell’Arma, mi ero formato sul piano operativo e avevo anche fatto parte del Nucleo speciale di polizia giudiziaria del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. In quel tipo di reparto si era capito che per il contrasto alla criminalitĂ organizzata doveva essere fatta una strategia generale, con linee ben precise di intervento, e quindi nulla veniva lasciato al caso.
ââArrivato a Palermo, mi trovai di fronte a una situazione dove, invece, tutti gli organi di polizia giudiziaria vivevano alla giornata, senza avere delle linee strategiche e operative ben definite. Si puntava al risultato immediato, certamente piĂč facile da ottenere, ma senza alcuna prospettiva in seguito. Ebbi la conferma di questo difetto di impostazione quando dopo pochi mesi â chi Ăš stato a Palermo lo sa â realizzammo un’ottima operazione dei servizi e arrestammo i Madonia, Francesco Madonia con i suoi figli Giuseppe e Nino. Tutti e tre latitanti, tutti e tre poi colpiti da una serie di ergastoli perchĂ© responsabili di una serie di omicidi, tra cui quelli cosiddetti «eccellenti», dal consigliere Rocco Chinnici al capitano Basile, al generale dalla Chiesa, al dottor Ninni CassarĂ .
Dopo quattro mesi da questa operazione, facendo i conti, eravamo al punto di partenza. Non eravamo riusciti cioĂš a entrare nel sistema e dovevamo ricominciare da capo. Ci rendemmo conto che il metodo era sbagliato e bisognava colpire nell’essenza cosa nostra.
Individuai quest’essenza non tanto nel pizzo, che provocava introiti molto modesti, tutto sommato, ma nel condizionamento degli appalti lo strumento con cui si poteva attaccare cosa nostra, la quale temeva non tanto la cattura anche di un Madonia, che era comunque vicinissimo a TotĂČ Riina, ma che fossero scoperti i collegamenti esterni tra cosa nostra e il mondo, la societĂ , e soprattutto che venisse attaccato il sistema economico di cosa nostra.
Questo tipo di attacco, tra l’altro, per noi era piĂč agevole, perchĂ© normalmente cosa nostra opera in maniera indipendente e senza relazioni con l’esterno, ma nel condizionamento degli appalti per forza di cose doveva rapportarsi con una serie di persone che erano fuori dal suo mondo, quindi era piĂč facile per noi intervenire. Su queste basi decisi di costituire un reparto che non era previsto nell’ordinamento del mio comando, ma lo creai con lo scopo preciso di realizzare questo attacco alle strutture economiche di cosa nostra. Individuai poi non nei vecchi ufficiali, delusi e poco reattivi, ma nei giovani la possibilitĂ di sviluppare questo tipo di reparto. Individuai cosĂŹ in Giuseppe De Donno chi doveva fare questo tipo di indagine.
Lascio quindi la parola a Giuseppe De Donno per quanto riguarda lo sviluppo dell’indagine che poi giornalisticamente prenderĂ il nome di «Mafia e appalti».
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Signor presidente, grazie e grazie a tutti i commissari.
Io arrivo a Palermo nel settembre del 1986, dopo il transito dalla Scuola ufficiali carabinieri.
Nel 1987 l’allora colonnello Mori mi chiese di transitare al gruppo Palermo 1, e venni trasferito al Nucleo operativo della compagnia di Bagheria, e l’anno successivo al Nucleo operativo del Reparto operativo del comando carabinieri Palermo 1, alla Sezione omicidi. In questo frangente iniziai la collaborazione col dottor Falcone, perchĂ© con lui eravamo giĂ stati una volta in Spagna a seguito dell’arresto di un latitante mafioso, tale Ribaudo Gioacchino, che era considerata una delle persone di fiducia di Michele Greco detto «il Papa».
Con il dottor Falcone poi ho svolto una serie di missioni all’estero. Sono stato con lui in Argentina, in Australia, in Germania, in Messico e in altri Paesi. Il 3 dicembre 1990, quando venne costituito il ROS, io sono transitato al ROS fino al 2001, poi, con un intermezzo di una permanenza in Cile, sono andato al SISDE, l’attuale AISI, quale capo ufficio segreteria del generale Mori.
Nel marzo 1989 il sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, Alberto Di Pisa, aveva in corso un’inchiesta relativa a un comitato di affari volto alla gestione di appalti diretto da politici della Democrazia cristiana, Vito Calogero Ciancimino e Salvo Lima, d’intesa con l’imprenditore tale Francesco Vassallo. Sulla base di queste indagini che io svolsi il magistrato dispose la perquisizione degli uffici del comune di Palermo.
Ero stato destinato al Nucleo operativo di Palermo per mettere in pratica il progetto mirato voluto dal generale Mori di contrastare l’illecito negli appalti pubblici. Perquisizione durante, nella cassaforte del dottor Leoluca Orlando, all’epoca sindaco di Palermo, venne rinvenuta, da lui vistata, una lettera dell’Alto commissario antimafia, il prefetto Riccardo Boccia, regolarmente protocollata, nella quale lo si informava del fatto che dietro alle imprese COSI e SICO â erano due aziende romane, la Cozzani e Silvestri e Silvestri e Cozzani, due raggruppamenti temporanei di impresa â che risultavano aggiudicatarie di appalti per la manutenzione delle strade e degli edifici pubblici della cittĂ di Palermo vi era il sospetto della presenza di Vito Calogero Ciancimino.
Interrogato su queste concessioni da lui rilasciate, il sindaco Orlando non fornĂŹ alcuna giustificazione e venne in quella sede indagato. Incidentalmente rilevo come l’inchiesta del dottor Di Pisa fosse ampiamente nota a Palermo.
In merito, il dottor Falcone ne tratterĂ al Consiglio superiore della magistratura il 15 ottobre 1991, quando venne chiamato a difendersi proprio dalle accuse di tenere nei cassetti le carte degli appalti, accuse che gli mosse il sindaco Orlando. In quel contesto, il dottor Falcone cosĂŹ si espresse: «Nonostante la presenza di un sindaco come Orlando, la situazione degli appalti continuava ad essere la stessa e Ciancimino continuava ad imperare sottobanco in queste vicende. Difatti, sono stati arrestati non solo Ciancimino, Pag. 7ma anche Romolo Vaselli e Domenico Vaselli. Vaselli Ăš il factotum a Palermo di Vito Ciancimino per quanto attiene alle attivitĂ imprenditoriali. Devo dire che probabilmente Orlando e i suoi amici hanno preso come un inammissibile affronto alla gestione dell’attivitĂ amministrativa del comune un mandato di cattura che in realtĂ si riferiva ad una vicenda che riguardava episodi di corruzione molto seri, molto gravi, riguardanti la gestione del comune di Palermo». Il provvedimento a cui faceva riferimento il dottor Falcone era quello da lui emesso nei confronti di Vito Ciancimino.
Noi arrestiamo due volte Vito Ciancimino e una serie di funzionari, insieme col dottor Falcone. Il 26 maggio 1989, in San Nicola l’Arena, personale della Polizia di Stato arresta due esponenti mafiosi, Salvatore Contorno e Gaetano Grado. All’epoca ai due, facenti parte della fazione perdente nella seconda guerra di mafia, verranno successivamente attribuiti una serie di omicidi verificatisi in quei mesi in danno di appartenenti al gruppo vincente dei corleonesi.
Subito sorsero delle polemiche perché il Contorno, nella sua veste riconosciuta di collaboratore di giustizia, si sarebbe dovuto trovare sotto protezione negli Stati Uniti.
Nei primi giorni del successivo mese di giugno, giunsero a varie autorità palermitane una serie di lettere anonime, giornalisticamente definite le «lettere del Corvo», nelle quali si accusavano i magistrati Giovanni Falcone e Giuseppe Ayala, oltre al dirigente della Polizia di Stato Gianni De Gennaro, di avere organizzato il rientro del Contorno in Sicilia, consentendogli di compiere le sue vendette in cambio di notizie sui latitanti di spicco di cosa nostra.
Le indagini svolte dalla procura della Repubblica di Caltanissetta, sulla base di un prelievo di impronte digitali acquisite senza le previste garanzie procedurali da personale del SISMI, all’epoca servizio segreto militare, attivato dall’Alto commissario antimafia pro tempore prefetto Domenico Sica, attribuirono la responsabilitĂ degli anonimi al dottor Di Pisa, che venne indagato.
La notizia creĂČ un caso di rilevanza nazionale e conseguentemente al magistrato vennero sottratte tutte le indagini che stava svolgendo a Palermo, compresa quella connessa con gli appalti del comune di Palermo. Condannato in primo grado nel 1992, il dottor Di Pisa venne poi assolto per non aver commesso il fatto nel 1993.
In sostanza, perĂČ, il caso delle lettere del Corvo determinĂČ la mancata prosecuzione delle indagini sul sindaco Orlando, posto che, per quanto mi Ăš ancora noto a tutt’oggi, da allora l’inchiesta che lo riguardava non ha avuto nessuno sviluppo. Noi non ottenemmo nessun’altra delega nĂ© siamo stati capaci di capire quel fascicolo, dopo l’uscita di scena del dottor Di Pisa, dove andĂČ a finire.
Il 13 giugno 1989 venne ucciso a Ventimiglia di Sicilia un indiziato mafioso, La Barbera Barbaro. Le indagini che io condussi dal Nucleo operativo di Bagheria indirizzavano l’inchiesta nell’area di Baucina, altro comune della provincia di Palermo. Emergeva che La Barbera, in contrasto con Giuseppe Pinello, capomafia del luogo, in quanto entrambi interessati dall’illecita gestione degli appalti, erano tutti e due indirizzati alla gestione dei comuni di quella zona.
Apparve chiaro, quindi, che quella famiglia mafiosa, in relazione all’assegnazione degli appalti, condizionava l’attivitĂ del professor Giuseppe Giaccone, un docente di biologia marina dell’UniversitĂ di Catania divenuto sindaco del comune di Baucina.
Il 28 giugno 1989 il dottor Falcone venne nominato procuratore aggiunto della Repubblica a Palermo, dopo una serie di attriti con il dottor Meli sulla modalitĂ di azione del pool antimafia.
Nel successivo mese di agosto 1989 il magistrato incriminĂČ il mafioso catanese Giuseppe Pellegriti e l’estremista di destra Angelo Izzo per le accuse allora rivolte al senatore Giulio Andreotti e a Salvo Lima.
La decisione, tecnicamente obbligata, provocĂČ perĂČ le critiche di esponenti politici e giornalistici quali Leoluca Orlando, Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e Nando dalla Chiesa. In particolar modo, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando attribuiva al magistrato la volontĂ di insabbiare queste indagini e il coinvolgimento dei politici nei delitti eccellenti dell’epoca. Per queste accuse, formulate attraverso un esposto, il 15 ottobre 1991 il dottor Falcone sarĂ costretto, come abbiamo detto, a difendersi davanti al CSM. Nel frattempo, i contrasti sorti col dottor Giammanco dopo la nomina di quest’ultimo nel giugno 1990 a procuratore della Repubblica di Palermo, indussero il dottor Falcone ad accettare, nel febbraio 1991, la nomina a direttore dell’Ufficio Affari penali al Ministero di giustizia propostagli all’epoca dal Ministro Claudio Martelli. Â
L’11 luglio 1989 noi consegnammo al sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, dottor Giuseppe Ayala, il rapporto di denuncia per Giuseppe Pinello + 49, con le accuse di associazione a delinquere di tipo mafioso, turbativa d’asta, estorsioni ed altro. Nello sviluppo delle indagini, emersero i contatti della mafia di Baucina con quella palermitana e nella fattispecie con Cataldo Farinella, imprenditore legato a cosa nostra in diretti rapporti con il senatore Salvo Lima.
Contestualmente, dalle prime intercettazioni telefoniche effettuate, emerse la figura di Angelo Siino, che si connotava immediatamente come uno degli elementi di raccordo tra mafia e imprenditoria, in contatto con ambienti politici ed imprese nazionali e locali.Pag. 10
Il 15 settembre viene ucciso a Baucina l’imprenditore Giuseppe Taibbi.
Il successivo 19 settembre 1989 il sindaco di Baucina Giuseppe Giaccone, temendo per la sua vita, inizia la collaborazione con noi carabinieri, venendo successivamente inteso dal dottor Falcone, a cui spiega i motivi dell’omicidio Taibbi, da lui collegato alla illecita gestione degli appalti pubblici, spiegandone le modalitĂ di gestione a livello regionale.
Risultava la singolare associazione, per lavori di scarsa rilevanza tecnica ed economica, tra la modesta impresa del Taibbi e un colosso nazionale nel settore delle costruzioni, la societĂ romana Tor di Valle di Piero Catti De Gasperi, genero di Alcide De Gasperi.
Giuseppe Giaccone, che, come previsto dalle disposizioni normative dell’epoca, era stato affidato alla protezione dell’Ufficio dell’Alto Commissario per la lotta alla mafia, appena giunto a Roma ritrattĂČ tutte le dichiarazioni fatte agli investigatori palermitani e al dottor Falcone e denunciĂČ, per essere stato costretto a mentire, oltre che me anche il dottor Falcone e il suo avvocato, il senatore Pietro Milio.
Per le accuse formulate noi chiaramente fummo assolti e il dottor Giaccone riceverĂ una condanna a un anno e sei mesi per calunnia.
Il 6 ottobre 1989 il giudice istruttore di Palermo, dottor Leonardo Guarnotta, nel prosieguo delle indagini autorizza l’intercettazione dell’utenza telefonica intestata al Consorzio CEMPES, acronimo che stava per Collettore emissario della cittĂ di Palermo zona est, e del quale facevano parte, oltre alla Tor di Valle, la Fortunato-Federici di Roma e la CISA di Udine. Fra i soci di quest’ultima vi erano gli imprenditori Antonino Buscemi, che troveremo poi dopo, e Cataldo Farinella.
Con questo atto inizia formalmente quella che viene chiamata indagine «Mafia e appalti».
Il 5 giugno 1990, a conclusione di altre indagini da me condotte, coordinate dal dottor Falcone, vennero tratti in arresto Vito Ciancimino, suo genero Loris Ercoli, il costruttore romano Romolo Vaselli, socio occulto del sindaco, ed altri funzionari accusati di associazione a delinquere, abuso d’ufficio, turbativa d’asta per alcuni appalti dell’azienda municipalizzata del comune di Palermo.
Il 19 giugno 1990 il dottor Giammanco diviene procuratore capo della Repubblica di Palermo.
Il 22 maggio 1990, nel corso di un’audizione in Commissione parlamentare antimafia, mentre tutti gli altri magistrati del distretto palermitano rivolgono la loro attenzione alla descrizione delle indagini in corso su cosa nostra, illustrando gli sforzi nella ricerca dei latitanti, il dottor Falcone indirizza specificatamente la sua relazione sulla problematica degli appalti pubblici affermando: «Sono vicende che stanno venendo a maturazione adesso per effetto di indagini che sta conducendo l’Arma dei carabinieri; indagini complesse che richiedono una serie di esami della documentazione contabile estremamente ardui. Abbiamo la conferma di un sistema mafioso che, per quanto concerne i grandi appalti anche nei piccoli centri per tutti gli appalti, ne gestisce in pieno l’esecuzione». Disse ancora: «Possiamo ritenere abbastanza fondato che c’Ăš, almeno nella Sicilia occidentale, una centrale unica di natura sicuramente mafiosa che dirige l’assegnazione degli appalti e soprattutto l’esecuzione degli appalti medesimi con l’inevitabile coinvolgimento delle amministrazioni locali sia a livello burocratico che a livello di alcuni amministratori».
Il 3 dicembre 1990 nasce il Raggruppamento operativo speciale e il generale Antonio Subranni diventa comandante.
Il 20 febbraio 1991 io consegno al dottor Falcone, quale procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo, un’annotazione a firma del colonnello Mario Mori datata 16 febbraio 1991, conosciuta poi come «Mafia e appalti», composta da 877 pagine, 483 allegati e 44 schede relative a persone coinvolte nelle indagini. Il documento costituiva il compendio di tutta l’attivitĂ investigativa eseguita su questo settore fino a quel momento. Il magistrato che ne aveva sollecitato il deposito prima del suo incarico al Ministero di grazia e giustizia rimetteva personalmente l’annotazione al procuratore Giammanco.
In precedenza, poichĂ© siamo stati piĂč volte accusati di aver omesso nell’informativa del febbraio 1991 tutta la parte politica che era venuta fuori, parecchie persone che ancora sostengono questo dimenticano che nel quadro di queste indagini io avevo consegnato al dottor Falcone e ai dottori Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, co-assegnatari dell’indagine Mafia e appalti, una serie di annotazioni preliminari, in due delle quali, quelle del 2 luglio e del 5 agosto 1990, si delineavano i rapporti relativi a responsabilitĂ di personalitĂ politiche nazionali e regionali in merito alle quali noi richiedevamo la necessitĂ di svolgere piĂč approfonditi accertamenti. Ă il motivo per cui nell’informativa del 16 febbraio non sono citate le parti politiche.
Tengo a dire che su questo aspetto specifico, che noi ritenevamo fosse il centro di questa indagine, non riceveremo mai una delega di indagine da parte della procura della Repubblica di Palermo. L’11 marzo il colonnello Mori e io incontriamo il dottor Falcone in preparazione di un intervento a un convegno organizzato dall’Alto Commissario per la lotta alla mafia che si doveva svolgere a Palermo. Il magistrato in questa circostanza chiese al colonnello Mori di andare a incontrare il senatore Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione parlamentare antimafia, a cui aveva accennato le finalitĂ delle nostre Pag. 13indagini per spiegargli genesi, sviluppo e prospettiva dell’inchiesta.
Il 14 marzo, a circa un mese dalla consegna dell’informativa al dottor Giovanni Falcone, questi, intervenuto a un convegno a Castello Utveggio a Palermo sul tema «Infiltrazione della criminalitĂ organizzata negli appalti pubblici», afferma che il condizionamento mafioso negli appalti si realizzava sia al momento della scelta delle imprese che nella fase esecutiva, con caratteristiche totalizzanti, cioĂš senza escludere nessuna impresa, neanche quelle del continente.
Il magistrato, in una successiva circostanza pubblica, pronuncerĂ la frase «la mafia Ăš entrata in Borsa», volendo significare che l’organizzazione mafiosa in campo economico era passata da una funzione esclusivamente parassitaria all’assunzione di iniziative anche dirette rapportandosi con il mondo politico e gli ambienti imprenditoriali.
A tale riguardo il dottor Falcone aggiungeva che, viste le dimensioni, le indagini andavano svolte a livello nazionale. Non va dimenticato un dato fondamentale, che nell’informativa del 16 febbraio 1991 noi rassegniamo alla procura di Palermo la prova che la famiglia Buscemi di Passo di Rigano era diventata socia della Calcestruzzi Spa.
La Calcestruzzi Spa era praticamente l’impero Ferruzzi di Raul Gardini. Noi, quindi, troviamo la prova che la mafia corleonese era entrata nel gruppo Ferruzzi. Questo Ăš il motivo per cui il dottor Falcone indica l’entrata in borsa di cosa nostra. Questa affermazione troverĂ successiva conferma poi nelle dichiarazioni di Angelo Siino, quando l’11 luglio 1997, dopo aver deciso di collaborare, di fronte alla corte d’assise di Caltanissetta, sosterrĂ che negli anni Ottanta la mafia diventa imprenditrice perchĂ© comincia a gestire direttamente l’aggiudicazione degli appalti ad imprese a lei vicine e poi a tappeto Pag. 14comincia a gestire lavori conto terzi, subappalti e praticamente mette il pizzo sul pizzo: lo 0,80 per cento a discapito della tangente politica.
Il 22 marzo il colonnello Mori incontra a Roma il senatore Chiaromonte e nelle linee generali gli descrive l’indagine gestita dal dottor Falcone.
Il 4 aprile 1991 il generale Subranni e il colonnello Mori svolgono un incontro con il procuratore della Repubblica Pietro Giammanco e con i sostituti Lo Forte, Pignatone, Giusto Sciacchitano, assegnatari dell’inchiesta Mafia e Appalti.
Nella circostanza gli ufficiali del ROS sollecitarono iniziative in merito a quell’indagine per la quale, a piĂč di quaranta giorni dal deposito dell’annotazione, non erano state ancora concesse deleghe, mentre alcuni giornali inopinatamente giĂ parlavano del contenuto dell’operazione svolta, ipotizzando divergenze tra la procura e i carabinieri del ROS.
Il 13 aprile nasce il settimo Governo Andreotti con Vincenzo Scotti Ministro dell’interno, Claudio Martelli Ministro della giustizia e Calogero Mannino destinatario per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno.
Il 2 luglio 1991 io consegno alla procura di Palermo una prima annotazione sulle attivitĂ della societĂ SIRAP, acronimo che stava per Siciliana incentivazioni reali per attivitĂ produttive, ente costituito dalla Regione Siciliana per lo sviluppo economico e industriale dell’isola. Ad iniziare dal successivo 26 luglio la procura di Palermo mi conferirĂ alcune deleghe di indagine su questa attivitĂ . Gli accertamenti produrranno una ulteriore informativa, su cui torneremo tra poco, che noi consegneremo il 5 settembre 1992.
Il 9 luglio 1991 la procura di Palermo, senza preavviso, come sarebbe stata prassi costante, senza quindi preavvisare l’organo di polizia giudiziaria precedente, cioĂš il ROS, che nella sua Pag. 15annotazione del 16 febbraio aveva evidenziato, come giĂ ricordato, quarantaquattro posizioni ritenute penalmente rilevanti, chiede ed ottiene dal GIP cinque ordinanze di custodia cautelare in carcere per altrettante persone coinvolte nell’indagine Mafia e appalti.
Gli arrestati sono Angelo Siino, indicato come uomo di collegamento e successivamente soprannominato «il Ministro dei lavori pubblici di cosa nostra», gli imprenditori siciliani Alfredo Falletta, Cataldo Farinella e Serafino Morici, oltre al geometra Giuseppe Li Pera, capoarea della Sicilia per l’impresa di costruzione Rizzani De Eccher di Udine. Il successivo maggio 1992 verrĂ disposto per loro il rinvio a giudizio per 416-bis ed altro. Nella stessa giornata del 9 luglio si svolge un’ulteriore riunione tra gli ufficiali del ROS e i magistrati. Al termine di questa riunione la procura della Repubblica emette addirittura un comunicato stampa nel quale si afferma che nell’incontro sono stati esaminati gli importanti risultati giĂ acquisiti nelle indagini in corso, specie in ordine all’infiltrazione mafiosa nel settore degli appalti, anche al fine di ulteriori iniziative da assumere. Tuttavia, in realtĂ , i contrasti evidenziati nella precedente riunione del 4 aprile risultavano maggiormente cresciuti.
Noi investigatori dell’Arma, infatti, ritenevamo che sulla base dei dati ottenuti altri soggetti, in particolare alcuni dirigenti delle grandi imprese nazionali, fossero da ritenere coinvolti a pieno titolo nelle vicende connesse al condizionamento illecito degli appalti in Sicilia e quindi, come quelli siciliani, meritevoli di analoghi provvedimenti restrittivi.
Dopo gli arresti del 9 luglio e alla scontata illecita richiesta della difesa degli arrestati, invece di depositare, come Ăš prassi, il testo dell’annotazione del ROS con i relativi omissis per i numerosi aspetti che avrebbero dovuto o potuto avere successivi Pag. 16sviluppi investigativi, la procura di Palermo consegna ai difensori l’intero documento. Quindi, dopo solo cinque giorni tutta Palermo, cosa nostra compresa, sapeva dove eravamo giunti, da dove eravamo partiti, ma soprattutto dove potevamo andare.
Il 12 luglio 1991 la procura di Palermo assume un’altra decisione che noi contrastiamo, ma sulla quale chiaramente non abbiamo nessun potere, perchĂ© a firma del dottor Giammanco si smembra l’indagine Mafia e appalti e invia alle procure di Agrigento, Caltanissetta, Marsala e Trapani stralci dell’annotazione del 16 febbraio 1991.
L’iniziativa, oltre a frammentare l’inchiesta suddividendola tra vari uffici giudiziari diversi, ne rifiuta l’impostazione unitaria e quindi sottende giĂ l’evidente intenzione di chiudere il procedimento.
Il 15 gennaio 2021 nel processo intestato a Mario Bo + 2, noto come il famoso depistaggio delle indagini di via d’Amelio relative alle attivitĂ compiute dal gruppo Falcone e Borsellino, il teste Antonino Ingroia ha riferito che Paolo Borsellino, a proposito del frazionamento nella annotazione del ROS, riteneva che l’iniziativa della procura di Palermo fosse propedeutica al suo insabbiamento.
Il 18 e il 26 luglio, contestualmente ad alcune notizie giornalistiche che descrivono i contrasti tra noi del ROS e la procura di Palermo, il procuratore Giammanco ci concede alcune deleghe di indagine connesse all’informativa del 16 febbraio. A queste prime indagini, che peraltro non coinvolgono gli aspetti e i personaggi chiave delle indagini, non ne seguiranno altre. Non conosco l’esito dei procedimenti a cui giunsero sulle vicende segnalate le altre procure che furono interessate dalla procura di Palermo.
In quel contesto, tra l’altro, il dottor Giovanni Falcone nel corso di un colloquio con la giornalista Liana Milella, che ne Pag. 17riferirĂ successivamente in sede processuale, le consegna alcuni appunti relativi alle vicende palermitane. In uno di questi, pubblicato il 24 giugno 1992 sul quotidiano Il Sole 24 Ore, conosciuto come i «Diari di Falcone», il magistrato giudica la decisione della procura di Palermo relativa alla annotazione Mafia e appalti del ROS testualmente dicendo: «à una scelta riduttiva per evitare il coinvolgimento di personaggi politici». Dopo la morte, nel computer del magistrato verrĂ trovata la seguente nota riferita al procuratore Giammanco: «Ha sollecitato la definizione delle indagini riguardanti la Regione Siciliana al capitano De Donno, assumendo che altrimenti avrebbe perso alcuni finanziamenti. Ovviamente, qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed Ăš altrettanto ovvio che egli prevede un’archiviazione e solleciti l’ufficiale De Donno in tale previsione».
L’appunto Ăš del 10 novembre 1990. Il fatto Ăš vero perchĂ© il dottor Giammarco me lo chiese personalmente.
A questo punto, per una migliore comprensione, va fatta una piccola digressione relativa ad Angelo Siino. Angelo Siino era titolare di un’impresa, Litomix, a Palermo di cui erano soci occulti Bernardo Brusca, capo del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, e il figlio, l’altro esponente di cosa nostra, Giovanni Brusca. Iscritto a una loggia massonica di Santa Margherita Ligure, giĂ consigliere comunale della Democrazia Cristiana a San Giuseppe Jato, titolare a Palermo di un avviato autosalone e corridore automobilistico a livello nazionale noto con lo pseudonimo «Bronson», Siino era un’espressione emblematica di una parte della borghesia siciliana di quell’epoca. Siino Ăš stato oggetto di un’indagine da me condotta, iniziata nel 1989 e conclusasi in una prima fase con il suo arresto il 9 luglio 1991.
Dopo l’arresto iniziai, formalmente autorizzato, una serie di prese di contatti con il Siino. Accertata la volontĂ di realizzare Pag. 18un’interlocuzione con noi, il detenuto venne incontrato nel carcere di Carinola dal colonnello Mori e da me il 25 giugno, il 24 agosto e il 18 ottobre 1993, ma pur dichiarandosi pronto a collaborare sul piano confidenziale non si dimostrava disposto a passare a un rapporto di tipo formale, asseritamente per timore di essere ucciso per i danni di natura economica che una simile decisione avrebbe causato all’attivitĂ della moglie, titolare di una nota distilleria a Palermo.
Di conseguenza gli incontri ebbero un’interruzione.
Il 10 gennaio 1995 al Policlinico Umberto I di Roma, dove era temporaneamente ricoverato, Siino, su iniziativa del suo difensore, l’avvocato NicolĂČ Amato, giĂ magistrato e giĂ responsabile del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, svolge un ulteriore colloquio investigativo con me e con il colonnello Mori, senza perĂČ determinarsi, anche questa volta, a una collaborazione.
In quella sede, lui, pur senza determinarsi a questa scelta, aggiunse che aveva conosciuto subito, attraverso l’onorevole Lima, il contenuto dell’annotazione, mettendone immediatamente al corrente il geometra Giuseppe Li Pera, capoarea della Rizzani De Eccher in Sicilia. Nei giorni immediatamente successivi al deposito dell’annotazione Mafia e appalti il documento era stato consegnato dal procuratore Giammanco, tramite l’onorevole Mario D’Acquisto, all’onorevole Salvo Lima e da questi a Giuseppe Lipari, commercialista palermitano legato a Salvatore Riina e a Bernardo Provenzano.
Il 24 gennaio 1995, in un successivo colloquio svolto unicamente da me, Siino, che giĂ in precedenza aveva espresso generici dubbi negativi sul comportamento di alcuni magistrati alla procura di Palermo, formulĂČ critiche dirette di corruzione nei confronti del dottor Pietro Giammanco e dei sostitutiPag. 19procuratori Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Ignazio De Francisci.
A fronte della ribadita volontĂ del Siino di non voler passare a una formale collaborazione, i dati da lui forniti a titolo confidenziale â tutti, peraltro, da valutare alla luce della personalitĂ del soggetto e dei suoi ammessi legami con ambienti e uomini di cosa nostra â non presentavano una adeguata possibilitĂ di sviluppo.
Il 9 luglio 1997 Angelo Siino viene nuovamente arrestato su ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla procura della Repubblica di Palermo, aprendosi â questa volta sĂŹ â alla piena collaborazione con i magistrati di quell’ufficio, che delegavano per le indagini personale della Guardia di finanza. Sorpreso per non essere stato in qualche modo coinvolto negli accertamenti su di un soggetto per il quale era solo arrestato e avevamo a lungo investigato con il nostro reparto, per telefono il colonnello Mori segnalĂČ al procuratore della Repubblica di Palermo pro tempore, dottor Gian Carlo Caselli, che poteva mettere a disposizione del suo ufficio un’ampia documentazione al riguardo, oltre che per le attivitĂ giĂ svolte, anche alla luce dei contatti confidenziali che erano intercorsi tra il Siino e gli ufficiali del ROS. Il procuratore declinĂČ l’offerta, non volle.
Il 13 ottobre 1997 stranamente il tenente colonnello Mori e io venimmo convocati a Torino dai magistrati della procura della Repubblica di Palermo, dottor Gian Carlo Caselli, Maurizio De Lucia e Michele Prestipino, che ci interrogarono sui rapporti avuti con Angelo Siino, ritenuto dagli inquirenti un collaboratore affidabile. In particolare, vennero a me rivolte formali contestazioni in merito a difformitĂ tra le dichiarazioni del Siino e quanto lui in quel momento aveva affermato circa i nostri contatti.
A fronte del rifiuto espresso dal dottor Caselli di consentirmi una complessiva ricostruzione dei fatti relativi al rapporto con il Siino perchĂ© â testualmente, Ăš riportato nel verbale di assunzione di informazioni testimoniali â l’argomento esulava dai temi dell’atto istruttorio, ritenendo di dover tutelare la mia posizione sotto l’aspetto penale, nei giorni successivi rilasciavo sommarie informazioni testimoniali ai magistrati della procura della Repubblica di Caltanissetta competenti, per quanto attivati su aspetti che potevano coinvolgere le responsabilitĂ dei magistrati palermitani. In quella sede, infatti, ricapitolavo tutte le vicende direttamente e indirettamente connesse alle indagini da me svolte sul Siino, comprensive anche di quelle confidenze e delle specifiche accuse verso i magistrati palermitani a suo tempo fattemi da lui, consegnando le bobine di quei colloqui â non tutti â che avevo potuto registrare.
ââGli aspetti della vicenda vennero alla luce in breve tempo, creando una fortissima polemica stampa. In conseguenza delle querele proposte dai magistrati interessati, la procura di Caltanissetta apriva due fascicoli: per calunnia nei miei confronti e di Angelo Siino e per corruzione nei confronti di alcuni magistrati palermitani.
Il 15 marzo 2000 il GIP del tribunale di Caltanissetta, dottoressa Gilda Loforti, con l’ordinanza 210897, archiviĂČ entrambi i procedimenti.
Il 24 luglio 1991 il colonnello Mori incontra nuovamente il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Gerardo Chiaromonte, al quale spiega tutto il disagio creatosi nei confronti della procura della Repubblica di Palermo e le determinazioni assunte dal precedente luglio 1991 riguardo al dossier Mafia e appalti. In quello stesso mese di luglio il dottor Giammanco, con un atto illecito, trasmetteva al Ministro di grazia e giustizia una copia dell’informativa Mafia e appalti, sostenendo che i suoi contenuti, che in quel momento erano coperti da segreto istruttorio, avevano soprattutto una valenza politica piuttosto che una valenza investigativa.
Il 7 agosto 1991 il Ministro Martelli, su consiglio di Giovanni Falcone, senza prenderne visione, restituĂŹ gli atti alla procura di Palermo, sottolineando l’esclusiva rilevanza giuridica, che escludeva, quindi, l’esame da parte di un organo non competente come un Ministero. Dell’iniziativa del dottor Giammanco, il Guardasigilli informĂČ, per le valutazioni, il CSM. Non so il CSM che determinazioni assunse nei confronti del procuratore di Palermo.
Il 26 agosto 1991, invece, il dottor Lama, sostituto procuratore della Repubblica di Massa-Carrara, trasmise per competenza a quella di Palermo una parte della sua inchiesta sulle ditte I.M.E.G. e S.A.M., concessionarie dello sfruttamento del 50 per cento dei terreni marmiferi dell’area delle Alpi Apuane. Le due societĂ vengono indicate come riconducibili all’imprenditore siciliano Antonino Buscemi, che le stava gestendo tramite un proprio cognato, il geometra Cimino.
Buscemi, con il fratello Salvatore e un altro imprenditore, Francesco Bonura, tutti noti per connessioni con ambienti mafiosi, era tra i soci di una societĂ operante nel settore edilizio estrattivo posseduta al 50 per cento dalla Calcestruzzi Spa, societĂ che a sua volta aveva Lorenzo Panzavolta come amministratore delegato, inserita nel gruppo Ferruzzi diretto da Raul Gardini.
Il 20 febbraio 1991 viene istituita la Direzione nazionale antimafia (DNA). La creazione del nuovo ufficio, proposta sostenuta dal dottor Falcone, fu molto contrastata, provocando anche uno sciopero dell’Associazione nazionale magistrati, in larga parte contraria a questo progetto. A conclusione di questa attivitĂ emergerĂ una formulazione di quell’ufficio estremamente diversa dal progetto originale del dottor Falcone, il quale alcuni giorni prima di essere ucciso aveva convocato al Ministero sia me che il colonnello Mori per chiederci di poter partecipare, quale polizia giudiziaria, nella struttura della Procura nazionale antimafia.
Ricordo che il colonnello gli disse: «Forse ti siamo piĂč utili se restiamo al ROS». Il dottor Falcone disse: «Voi non avete capito nulla, perchĂ© nella Procura nazionale che io dirigerĂČ il Procuratore avrĂ compiti di indagine, ma soprattutto avrĂ la possibilitĂ di acquisire i fascicoli delle procure che lui riterrĂ non essere stati adeguatamente sviluppati». Quindi, sarebbe cambiata completamente la storia investigativa di questo Paese.
Il 30 gennaio 1991 si conclude in Cassazione il maxi maxiprocesso per cosa nostra. In quella circostanza, Salvatore Riina riceve il primo ergastolo. L’11 febbraio 1992 il quotidiano toscano Il Tirrenopubblica un’intervista del dottor Lama, nella quale vengono rivelati i contenuti nella sua inchiesta. Il magistrato, oggetto di un esposto presentato dai legali della societĂ Ferruzzi, Ăš costretto ad astenersi dall’indagine, a cui seguirĂ un’inchiesta disciplinare proposta dal Ministro Martelli.
Il 26 novembre 1993 il Consiglio superiore della magistratura valuta corretta la condotta del dottor Lama. L’indagine del dottor Lama, trasferita al tribunale di Lucca, quindi a Roma, non avrĂ piĂč sviluppi pubblicamente noti e ritengo sia stata archiviata. Della documentazione inviata a Palermo dal dottor Lama nel 1991, cioĂš quando l’indagine Mafia e appalti era in corso e pienamente nota ai magistrati di quella procura, non venne mai data notizia a noi del ROS che, se informati, avremmo facilmente collegato le indagini sulla vicenda delle pregresse connessioni con Antonino Buscemi.
La trattazione di questa documentazione ricevuta da Massa-Carrara fu assegnata a personale della Guardia di finanza e si concluse con una rapida archiviazione.
In una recente intervista, in una inchiesta televisiva della Rai, il dottor Lama ha dichiarato che la procura della Repubblica di Palermo non lo informĂČ dell’esistenza delle indagini del ROS sul condizionamento mafioso negli appalti. La trasmissione di quegli atti dalla procura di Massa-Carrara a quella di Palermo Ăš stata resa nota pubblicamente grazie all’attivitĂ del difensore del colonnello Mori, Basilio Milio, il quale dopo numerosi tentativi per trovare supporto alle nostre tesi difensive solamente nel settembre 2020 ha ottenuto l’accesso al fascicolo inviato dal dottor Lama, fino ad allora archiviato alla procura di Palermo.
Il 17 febbraio 1992 a Milano viene arrestato in flagranza Mario Chiesa e comincia formalmente l’indagine «Mani pulite». Il 1° marzo 1992 il dottor Borsellino, capo della procura della Repubblica di Marsala, assume le funzioni di procuratore aggiunto di Palermo. Tra le perplessitĂ generali, il dottor Giammanco non gli attribuisce la delega alle indagini sulla mafia relative alla provincia di Palermo, bensĂŹ di Agrigento e Trapani, ciĂČ malgrado il magistrato fosse il naturale erede delle attivitĂ del dottor Giovanni Falcone.
Il 12 marzo 1992 viene ucciso l’onorevole Salvo Lima. Giovanni Brusca nella sua successiva collaborazione afferma che Lima era stato ucciso da cosa nostra perchĂ© «ci ha preso in giro, promettendoci nei suoi rapporti con l’organizzazione cose che poi non aveva mantenuto».
Nei giorni immediatamente successivi all’omicidio, Giovanni Falcone in piĂč dichiarazioni pubbliche sostenne che l’episodio segnava un significativo mutamento della strategia mafiosa e affermava testualmente «abbiamo tanti segnali che ci fanno temere che possano accadere cose spiacevoli nel prossimo futuro».
Il 4 aprile 1992 ad Agrigento viene ucciso il maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, investigatore interessato alle indagini sugli appalti pubblici e giĂ dipendente del comandante del ROS, generale Subranni.
Gli accertamenti successivi proveranno dirette, ma vane pressioni esercitata da Angelo Siino sul Guazzelli, da lui precedentemente conosciuto, perchĂ© intervenisse presso il generale Subranni al fine di alleggerire la posizione dell’inchiesta degli appalti condotta dal ROS.
Anche qui devo riferire â ed Ăš processualmente acquisito â che alcuni giorni prima di morire il maresciallo Guazzelli venne a Palermo a cercarmi. Io quel giorno non ero a Palermo. Lui parlĂČ con un mio sottufficiale e gli disse testualmente: «Avvisa il capitano di stare attento alle indagini, perchĂ© lo ammazzano. Appena torna fammi parlare». Io tornai un paio di giorni dopo da Roma, mi fu riferita questa circostanza, ma non ebbi il tempo di incontrare il maresciallo Guazzelli.
Il 25 aprile 1992 si dimette il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
Il 23 maggio 1992 nell’attentato di Capaci muoiono il dottor Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
Il 25 maggio 1992, nel corso dei funerali di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino si intrattiene con il collega Alberto Di Pisa, definendo quella strage una strage «stabilizzante» in quanto piĂč volta a mantenere in piedi un sistema criminale consolidato, aggiunge: «Intendo riaprire le indagini su mafia e appalti». Si veda, a questo proposito, l’audizione del 4 maggio 2021 del dottor Di Pisa nella commissione antimafia regionale siciliana.
I processi conseguenti alla strage di Capaci del 19 maggio 1995 si sono conclusi il 20 maggio 2020, con l’ultima condanna all’ergastolo di Matteo Messina Denaro.
Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sostenute da un imponente complesso investigativo, hanno consentito ai giudici della corte d’assise di Caltanissetta di affermare nella sentenza del 7 aprile 2000 che la causale dell’omicidio del dottor Falcone aveva una finalitĂ preventiva volta a impedire al magistrato di promuovere l’approfondimento delle investigazioni dallo stesso promosse e dirette a individuare l’intreccio esistente tra cosa nostra, alcune frange del Partito Socialista Italiano e il gruppo finanziario Gardini, che aveva come punto di riferimento in Sicilia imprenditori mafiosi, come Antonino Buscemi e suo fratello Salvatore.
Il 25 maggio viene eletto Presidente della Repubblica l’onorevole Scalfaro.
Il 29 maggio, nel corso di una manifestazione pubblica, il Ministro degli interni Vincenzo Scotti afferma che Ăš intenzione sua e del Ministro Claudio Martelli proporre Paolo Borsellino come Procuratore nazionale antimafia. Questa dichiarazione creerĂ una forte contrarietĂ nel magistrato, anche per l’ulteriore esposizione ai fini della sicurezza che questa notizia procura.
In quegli stessi giorni del giugno 1992 venne fatto circolare un documento anonimo a Palermo indirizzato, perĂČ, a 39 personalitĂ , tra cui il Presidente della Repubblica, i Presidenti di Senato e Camera, il Vicepresidente del CSM, il procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco, il dottor Borsellino e diversi rappresentanti politici delle istituzioni, nonchĂ© i direttori di alcune delle piĂč importanti testate giornalistiche. L’anonimo inquadrava gli omicidi del senatore Salvo Lima e del dottor Giovanni Falcone nell’ambito di lotte di potere interne alla Democrazia Cristiana siciliana, facendo riferimento esplicito all’attivitĂ dell’onorevole Calogero Mannino, a cui veniva attribuito l’intento volto a scalzare il potentato politico-elettorale vantato in Sicilia dall’onorevole Giulio Andreotti attraverso Salvo Lima.
In tale contesto veniva messa a fuoco la figura di un commercialista palermitano, tale Pietro Di Miceli, professionista che aveva tutelato gli interessi mafiosi di tutti i piĂč importanti procedimenti fallimentari svoltisi innanzi al tribunale di Palermo, anche grazie agli stessi rapporti intessuti con i magistrati di quella sezione fallimentare. Soprattutto, il Di Miceli venne indicato come l’organizzatore di alcuni incontri tra l’allora Ministro Calogero Mannino e Salvatore Riina, finalizzati a realizzare un nuovo patto politico con cosa nostra che sostituisse gli accordi andreottiani.
Secondo questo anonimo, nel corso di questi incontri sarebbero stati raggiunti accordi che facevano determinare l’assassinio dell’onorevole Lima in successione a quello del dottor Falcone.
Il documento conteneva, tra l’altro, un invito a riconsiderare i contenuti dell’annotazione Mafia e appalti del ROS indicata quale strumento per comprendere gli interessi che legavano gli ambienti economici, politici e mafiosi siciliani.
Sul conto del Di Miceli il ROS svolse articolate indagini da luglio 1993 a ottobre 1994, co-delegata dalla procura di Palermo, dottor Croce e dottor Napoli, e da quella di Caltanissetta, dottoressa Boccassini, dottor Petralia e dottor Saieva, che consentirono di accertare la collocazione del commercialista al centro di un complesso circuito relazionale che comprendeva esponenti della magistratura, il procuratore della Repubblica di Palermo Giammanco, il dottor Giuseppe Ayala, uno dei titolari dell’accusa nel maxiprocesso a cosa nostra e il dottor Vittorio AliquĂČ, procuratore aggiunto di Palermo. Tutto questo fu refertato alla procura di Palermo in numerose informative.
ââTra le persone frequentate da Di Miceli e sospettate di rapporti con ambienti prossimi a cosa nostra, veniva evidenziata la figura di un imprenditore, detto Benedetto «Benny» D’Agostino, rappresentante della SAILEM Spa, societĂ palermitanaPag. 27operante nel settore dei lavori pubblici. D’Agostino sarĂ indicato dal collaboratore di giustizia Marino Mannoia come vicino all’imprenditore Antonino Buscemi e in contatto con Angelo Siino, fatto salvo che tutto questo emergeva giĂ nell’indagine Mafia e appalti.
ââL’inchiesta, nonostante tutti questi elementi, venne archiviata, anche in relazione ai rapporti tra il Di Miceli e Raffaele Ganci, capo della famiglia mafiosa del quartiere palermitano della Noce, su cui riferiranno diversi collaboratori di giustizia e che risulterĂ il gestore per conto di cosa nostra della latitanza di Salvatore Riina.
Il 19 giugno 1992 il GIP del tribunale di Palermo, dottor Renato Grillo, su richiesta formulata il 1° giugno dal dottor Gioacchino Natoli, archivia la parte dell’inchiesta del dottor Lamadella procura di Massa-Carrara relativa ai rapporti tra Antonino Buscemi e il gruppo Ferruzzi. Nella circostanza viene ordinata anche la smagnetizzazione delle bobine delle intercettazioni telefoniche e la distruzione dei brogliacci delle conversazioni relative all’indagine. Su questo aspetto sono in corso indagini della procura della Repubblica di Caltanissetta.
ââLa procura della Repubblica di Caltanissetta, perĂČ, nella sua richiesta di archiviazione del 9 giugno 2003, cosiddetta «Mandanti occulti-bis», a commento di questa decisione del dottor Grillo, afferma testualmente: «La magistratura di Palermo, probabilmente per il limitato bagaglio di conoscenze, non attribuĂŹ soverchia importanza alle connessioni tra il Buscemi e il gruppo Ferruzzi». Ă assolutamente inconcepibile immaginare e scrivere che a giugno 1992 la magistratura palermitana non conoscesse la dimensione imprenditoriale del gruppo Ferruzzi e sottovalutasse la pericolositĂ criminale dell’indiziato mafioso Antonino Buscemi, che aveva in corso un procedimento per il sequestro dei beni e la cui famiglia d’origine Ăš notoriamente legata a Salvatore Riina.
ââAll’epoca, infatti, a Palermo non si poteva ignorare che Antonino Buscemi, cointeressato alla Calcestruzzi Spa, appartenente al gruppo Ferruzzi, era anche il fratello di Salvatore Buscemi, quest’ultimo, alleato dei corleonesi, giĂ indicato da Tommaso Buscetta come capo della famiglia di Passo di Rigano. Salvatore Buscemi, coinvolto nel maxi processo a cosa nostra, riceverĂ una condanna definitiva a otto anni di reclusione.
L’attivitĂ dei Buscemi era stata ampiamente indicata nella nostra informativa del febbraio 1991. Sulle attivitĂ e le relazioni di Buscemi ha riferito anche Giovanni Brusca, altro collaboratore, che nella seconda fase della sua collaborazione, quella sviluppata a partire dal 1998, le piĂč grandi direzioni distrettuali antimafia d’Italia hanno ritenuto assolutamente attendibile.
L’8 settembre 1998, davanti ai sostituti procuratori della Repubblica di Caltanissetta Antonino Di Matteo e Luca Tescaroli, Brusca, in una dichiarazione fonoregistrata, trascritta in 70 pagine, la maggior parte delle quali coperte da omissis, sosteneva: «Salvatore Riina si accorge che i Buscemi hanno un canale privilegiato, ad esempio, ve l’ho giĂ detto, il giudice Pignatone.
Ho dichiarato che era vicino ai Buscemi e questo canale se lo tenevano chiuso. Salvatore Riina, quando ha scoperto di questo canale, Ăš diventato pazzo. CioĂš, dice: come, voi tenete questo canale e non lo dite a noi?». Continua ancora Brusca: «Tanto Ăš vero che piĂč di una volta io vi ho detto che quando spunta… spunta il malloppo mafia e appalti, a un dato punto abbiamo la sensazione che le indagini vengono deviate, buttate su Siino. Uno poteva essere Salamone, cioĂš il giudice Salamone in quanto, per difendere il fratello, ma l’altro riferimento per coprire Gardini, per coprire il suo gruppo politico, cioĂš il suo gruppo di amici, era Pignatone».
Alla domanda del dottor Tescaroli: «cioĂš il canale di fuoriuscita alle notizie concernenti quest’indagine mafia e appalti sarebbe stato veicolato dal dottor Pignatone per il tramite di Buscemi?» Brusca risponde: «e per chi, per me? Questo era il canale e che Salvatore Riina si era incazzato in maniera molto forte».
Il verbale sopracitato Ú stato reso pubblico solo nel 2020, a seguito delle indagini che abbiamo svolto nel nostro processo, in cui eravamo coinvolti, il processo cosiddetto «trattativa Stato-mafia».
PRESIDENTE. Mi perdoni, la data?
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. 2020.
Ă agli atti del nostro processo. Se vuole ne abbiamo copia, presidente.
PRESIDENTE. No, non si era capita la data. Prego.
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. I Buscemi, in particolare Antonino Buscemi, sono emersi nell’indagine Mafia e appalti anche perchĂ© in stretti rapporti economici con il geometra Giuseppe Lipari, considerato l’economo e il consigliere di Bernardo Provenzano. Presso l’ufficio del Lipari, a Palermo, nel corso dei servizi attuati, era stato piĂč volte fotografato e notato Angelo Siino. Quest’ultimo, dal canto suo, risultava in frequenti contatti telefonici con l’ingegner Giovanni Bini, di cui ho detto prima, rappresentante per la Sicilia della Calcestruzzi Spa, societĂ , questa, come giĂ ricordato, che possedeva metĂ del capitale sociale della FINSAVI, di cui era fondatore e azionista Antonino Buscemi.
Nella successiva richiesta di archiviazione del 13 luglio 1992 relativa all’indagine Mafia e appalti del ROS, a firma dei magistrati Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, con riferimento in particolare ad Antonino Buscemi, si afferma testualmente che il predetto «fratello di Buscemi Salvatore, ritenuto capo mandamento di Passo di Rigano, non Ăš risultato coinvolto in alcuno degli episodi costituenti espressione dell’attivitĂ dell’associazione mafiosa sottoposta a indagini nĂ© in altri specifici fatti illeciti».
Sempre in merito alla posizione di Buscemi, Angelo Siino, nell’interrogatorio del 5 maggio 1999, ai magistrati di Caltanissetta sottolineĂČ il trattamento, da lui ritenuto mite, che i requirenti della procura di Palermo avevano riservato al Buscemi, il quale nel luglio 1991 non era stato arrestato, benchĂ© fosse direttamente coinvolto nella gestione degli appalti pubblici.
Quando, poi, venne arrestato da noi, nel 1993, era stato da poco rimesso in libertĂ e gli erano stati addirittura restituiti gli immobili in precedenza posti sotto sequestro.
Per completezza espositiva va detto che anche il pentito Salvatore Cancemi, nel 1994, riferirĂ che in cosa nostra era notorio come il dottor Pignatone fosse nelle mani dell’imprenditore Vincenzo Piazza, uomo d’onore del mandamento di Boccadifalco, Passo di Rigano, di cui Salvatore Buscemi era il capo. Cancemi sosteneva che il Piazza aveva persino donato un appartamento al magistrato.
Gli accertamenti svolti in merito appurarono che l’appartamento era stato venduto nel 1980 alla moglie del dottor Pignatone dalla societĂ immobiliare Raffaello, della quale erano soci gli indiziati mafiosi Vincenzo Piazza, Francesco Bonura, Salvatore Buscemi e il fratello Antonino. La transazione tra la signora Pignatone e l’immobiliarista Raffaello risultĂČ regolare.
Un’altra affermazione di Giovanni Brusca circa l’attenzione che cosa nostra delegava alle indagini sul ROS appare al riguardo molto significativa, cioĂš quella secondo cui l’organizzazione, una volta acquisita tra febbraio e marzo 1991 la relativa annotazione, si rese conto che non erano stati individuati, secondo Brusca volutamente, i suoi referenti principali nel mondo politico e imprenditoriale, cioĂš Filippo Salamone e Giuseppe Pignatone, perchĂ© tutta l’attenzione degli investigatori era stata dirottata sul Siino.
Ignoro se presso il tribunale di Caltanissetta esista o meno un fascicolo che avrebbe dovuto essere stato aperto nei confronti del dottor Pignatone sulle dichiarazioni di Brusca e di Cancemi.
Resta da sottolineare che, cosĂŹ come nel caso delle indagini della procura di Palermo su Angelo Siino, sviluppate dal 1997, anche la parte dell’inchiesta trasmessa dal dottor Lama corroborava inequivocabilmente le risultanze della nostra informativa del 1991. Anche in questa ulteriore circostanza, invece di attivare il ROS, che aveva condotto le indagini in ambito siciliano, la procura della Repubblica di Palermo preferĂŹ interessare un reparto della Guardia di finanza non in possesso del complesso dei dati e dei riferimenti giĂ in precedenza acquisiti e sviluppati da noi carabinieri, che non fummo neppure informati, mai, della documentazione trasmessa dalla procura di Massa-Carrara.
Il 19 giugno 1992 gli ufficiali del ROS, il capitano Del Sole e il capitano Umberto Sinico, informarono per le vie brevi il dottor Borsellino che una fonte, ritenuta molto attendibile, aveva riferito di un prossimo attentato contro la sua persona. Contestualmente il comando del ROS comunicĂČ formalmente la notizia agli organi superiori.
Il 23 giugno 1992 incontro la dottoressa Liliana Ferraro, che aveva assunto la carica di Direttore degli affari penali del Ministro della giustizia dopo la morte del dottor Falcone, e le riferisco del tentativo di contattare Vito Ciancimino per sollecitarne la collaborazione. Il magistrato ne parlerĂ diffusamente in una serie di interrogatori fatti dalla procura di Palermo.
Il 25 giugno 1992 nella caserma Carini dei carabinieri di Palermo il colonello Mori e io incontriamo il dottor Paolo Borsellino, che ci aveva chiesto un colloquio riservato fuori dal tribunale di Palermo. L’argomento era Mafia e appalti, di cui il magistrato aveva giĂ ottenuto da noi copia, su sua richiesta, mentre era procuratore di Marsala. Il dottor Borsellino, che ne aveva parlato diffusamente con Giovanni Falcone, individuava nel lavoro del ROS, oltre che una possibile causale alla morte del collega, anche un nuovo e piĂč efficace strumento investigativo nei confronti di cosa nostra. Si decideva, quindi, di riprendere le indagini sotto la sua specifica ed esclusiva direzione. Il rilevante interesse del dottor Borsellino nell’indagine Mafia e appalti Ăš dimostrato anche dal fatto che lo stesso 25 giugno 1992 nel tardo pomeriggio, quando lui si recĂČ alla biblioteca comunale di Palermo di Casa Professa, riparlĂČ di questo argomento.
Come giĂ ricordato, il giorno precedente, il 24 giugno 1992, il quotidiano ilSole24Ore, a firma della giornalista Liana Milella, pubblicĂČ una serie di appunti del giudice Falcone, scritti al computer, relativi alle sue valutazioni sulle difficoltĂ incontrate nell’ultimo periodo di lavoro alla procura di Palermo diretta da Pietro Giammanco, in cui attribuiva anche la precisa intenzione di ostacolare Mafia e appalti.
Nella recente audizione svolta in questa sede del tenente colonnello Carmelo Canale, l’ufficiale ha riferito che, nella circostanza del convegno di Casa Professa, Leoluca Orlando fece pervenire al dottor Borsellino un biglietto nel quale lo pregava di evitare, nell’intervento, riferimenti ai pregressi, anche quelli ricordati, relativi ai contrasti avuti da lui con il dottor Falcone.
âAggiungo una considerazione a commento dell’ultimo intervento del dottor Borsellino. Il magistrato, nell’evidenziare la sua attivitĂ volta ad assemblare le circostanze utili a individuare le cause della strage di Capaci, sostenendo con forza di essere il testimone dell’autenticitĂ degli appunti redatti dall’amico Falcone, formulĂČ indirettamente ma esplicitamente un atto di accusa contro le persone che riteneva corresponsabili di quella morte. Quelle dichiarazioni, a nostro avviso, probabilmente segnarono definitivamente la fine di Paolo Borsellino, perchĂ© chi stava seguendo e contrastando la sua attivitĂ si sentĂŹ inequivocabilmente indicato.
Il 28 giugno 1991, a seguito delle dimissioni del Governo Andreotti, entra in carica quello formato dall’onorevole Giuliano Amato.
Il 28 giugno Paolo Borsellino incontra all’aeroporto di Roma Fiumicino la dottoressa Ferraro, che gli riferisce del contatto da me avuto e del mio tentativo di avvicinare Vito Ciancimino. Il procuratore Borsellino ne prende atto, ma, a detta del magistrato, ne tratterĂ nelle sue deposizioni senza darne eccessivo peso, mentre chiede una serie di dettagli sull’indagine Mafia e appalti.
Il 29 giugno, in un teso confronto riferito successivamente dalla moglie la signora Agnese Piraino Leto, Paolo Borsellino chiede al procuratore Giammanco perchĂ© non lo aveva informato sulle minacce di morteche lo riguardavano e a lui riferite informalmente anche dal Ministro della difesa, onorevole Salvo AndĂČ. In quello stesso giorno, il 29 giugno 1992, come testimoniato dalla moglie, ma anche dal dottor Ingroia, nella sua abitazione Paolo Borsellino incontra il dottor Fabio Salamone, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Agrigento, e gli consiglia di chiedere il trasferimento ad altra sede fuori dalla Sicilia. L’attivitĂ illecita nella gestione degli appalti condotta da Filippo Salamone, fratello del magistrato, era stata segnalata dal ROS nella sua annotazione del 16 febbraio 1991. Filippo Salamone, con Antonino Buscemi e l’ingegner Bini, tecnico della Calcestruzzi, dallo sviluppo delle indagini risulterĂ coordinare un comitato d’affari, indicato anche come «sistema Salamone-Nicolosi» dove per «Nicolosi» si intende l’onorevole Rosario Rino Nicolosi, presidente della Regione Siciliana, che insieme ad altri analoghi comitati presiedeva all’aggiudicazione e alla spartizione degli appalti tra le tre componenti interessate, il cosiddetto «tavolino», dove sedevano per accordarsi imprenditori, amministratori pubblici e mafiosi.
In tale ambito, ad Angelo Siino residuava il compito di gestire gli appalti di dimensioni medio-piccole. In particolare, Filippo Salamone, oltre che garantire gli accordi, era il materiale portatore delle tangenti ai referenti politici tramite il pentito Siino, secondo cui nel periodo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta ricevette mensilmente da Salamone 200 milioni di lire da distribuire a politici di riferimento.
La posizione di rilievo dell’imprenditore Salamone nel sistema del «tavolino» viene anche evidenziata dall’amministratore delegato della Tor di Valle, Pietro Catti De Gasperi, in una conversazione telefonica con un dipendente, l’ingegner Giuseppe Zito, intercettata da noi il 19 dicembre 1989 e riportata nell’informativa del 16 febbraio 1991.
In quella circostanza Filippo Salamone, indicato con la sola lettera «S», viene descritto come «quello che conta di piĂč» e in particolare la persona che poteva fornire garanzie di futuri vantaggi se fosse stato ritirato un ricorso contro l’aggiudicazione di un appalto da 26 miliardi di lire, per il quale la societĂ romana si riteneva illecitamente esclusa. Inizialmente noi â io in particolar modo â individuammo il personaggio importante indicato da Catti De Gasperi con la lettera «S» in Angelo Siino e solo successivamente,Pag. 35alla luce delle indagini svolte sulla societĂ SIRAP, capimmo correttamente che, invece, trattavasi di Filippo Salamone.
Questa conversazione evidenziava, perĂČ, che anche il dottor Catti De Gasperi, uno degli imprenditori continentali coinvolto nelle indagini del ROS, non solo era del tutto consapevole del sistema in atto per il condizionamento degli appalti pubblici in Sicilia, ma vi aderiva scientemente per conseguire maggiori utili possibili. Piero Catti De Gasperi sarĂ uno di quegli indagati per i quali il 13 luglio 1991 i sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiesero l’archiviazione.
Nel periodo che va da maggio a luglio 1992 nei contatti tra Paolo Borsellino e il dottor Di Pietro, che conduceva le prime fasi dell’indagine «Mani pulite», emergeva come anche nelle indagini della procura della Repubblica di Milano risultassero fatti e persone giĂ messe a fuoco a Palermo. I due magistrati decidevano, quindi, di procedere in maniera coordinata.
La successiva, tragica morte del dottor Borsellino e le successive dimissioni dalla magistratura del dottor Di Pietro impediranno la pratica realizzazione di questo progetto, che, a detta del dottor Di Pietro, si fondava sul presupposto di far parlare gli imprenditori. In merito, con diverse dichiarazioni processuali e anche recentemente, nel corso di interventi pubblici, l’ex magistrato dottor Di Pietro ha confermato questa sua intesa con Paolo Borsellino. Nella sua testimonianza del 3 ottobre 2019, resa nel processo d’appello sulla cosiddetta «trattativa Stato-mafia», Antonio Di Pietro, riepilogando i rapporti di quel periodo tra le procure della Repubblica di Milano e Palermo, spiegĂČ l’intesa sulle modalitĂ di coordinamento tra i due uffici, raggiunta non senza contrasti nel corso del mese di giugno 1993, sulla base di una intuizione del dottor Piercamillo Davigo fondata sulle connessioni tra le rispettive inchieste, che potevano essere definite deboli o forti, a seconda dell’eventuale presenza di aspetti di criminalitĂ mafiosa.
In pratica, Milano avrebbe operato a tutto campo sugli imprenditori, quindi a livello nazionale, interessando di volta in volta i requirenti palermitani per gli spunti che fossero eventualmente messi in relazione a problematiche mafiose. L’accordo raggiunto si fondava sulla constatazione, ricavata tra l’altro dall’amministrazione del manager della Calcestruzzi, Panzavolta, il quale aveva dichiarato al dottor Di Pietro che sino al Rubicone, per salvarsi, ammetteva tutto e sotto il Rubicone preferiva la galera, evidenziando il timore diffuso, nell’imprenditoria nazionale, per la variabile della presenza della criminalitĂ mafiosa.
Nella sua deposizione Antonio Di Pietro ricordĂČ anche le ripetute sollecitazioni ricevute da parte mia perchĂ© si interessasse all’inchiesta Mafia e appalti. Infatti, proprio in base a questa mia iniziativa, il 12 novembre 1992 il magistrato potĂ© interrogare il geometra Giuseppe Li Pera, in carcere a Roma, venendo a compiuta conoscenza delle relazioni tra mafia, politica e imprenditoria e delle indagini che il ROS aveva condotto al riguardo.
Nel corso del processo di primo grado sulla trattativa Stato-mafia, al termine del quale sono stato condannato a otto anni di reclusione, la richiesta di ascoltare il dottor Di Pietro fatta dalla mia difesa e dal colonnello Mori fu respinta dal presidente della corte d’assise, in quanto ritenuta superflua.
L’intesa tra le procure di Milano e Palermo, a detta del dottor Di Pietro, si ruppe quando i giudici siciliani, accettando la richiesta di patteggiamento, alleggerirono nettamente la posizione di Filippo Salamone, indagato anche a Milano, derubricando in associazione per delinquere semplice l’imputazione all’imprenditore agrigentino che originariamente era per associazione di tipo mafioso. L’inchiesta relativa ad alcune accuse rivolte ad Antonio Di Pietro e trattate per competenza dalla procura della Repubblica di Brescia fu assegnata al sostituto procuratore Fabio Salamone, fratello dell’imprenditore Filippo. Secondo il magistrato di «Mani pulite» costituĂŹ una delle cause che lo portarono alla successiva decisione di abbandonare la magistratura.
Appare veramente singolare che a indagare il dottor Di Pietro che procedeva nei confronti di Filippo Salamone, fosse proprio il sostituto procuratore della Repubblica di Brescia, che si era dovuto allontanare dalla Sicilia per le vicende giudiziarie del fratello.
Un altro caso, questo, come l’altro verificatosi in Sicilia con protagonista Giuseppe Pignatone, di incompatibilitĂ ignorata dagli interessati nel silenzio degli uffici sovraordinati ai due magistrati.
Le vicende giudiziarie di Filippo Salamone dopo un secondo arresto per associazione a delinquere mafiosa, effettuato dal ROS il 4 ottobre 1997, si conclusero nel marzo 2000.
In quella circostanza Salamone ricevette una condanna definitiva a un anno e mezzo sulla base dell’asserto, da lui sostenuto e accettato nella sentenza, di avere elargito ai politici una serie di «contributi volontari».
Giova a questo punto accennare, dopo l’imprenditore Filippo Salamone, a un altro protagonista del sistema prima indicato, l’onorevole Rino Nicolosi. L’uomo politico della Democrazia Cristiana resta alla presidenza della Regione Siciliana dal 1° febbraio 1985 al 12 agosto 1991 e successivamente divenne parlamentare nazionale.
Coinvolto nell’indagine sul condizionamento degli appalti pubblici nell’ottobre 1997, l’onorevole Nicolosi, prossimo alla fine â morĂŹ, infatti, per tumore nel corso del successivo 1998 â consegnĂČ, di sua iniziativa, ai magistrati della procura della Repubblica di Catania un memoriale nel quale descriveva il meccanismo illecito di finanziamento ai partiti da parte delle imprese destinatarie di appalti pubblici; un sistema che comprendeva tutti i partiti e di cui Rino Nicolosi si autoaccusava di farne parte a pieno titolo, unitamente a diversi maggiorenti politici non solo regionali.
ââNell’intesa descritta dall’onorevole Nicolosi era compreso anche il Partito Comunista Italiano, all’opposizione anche nel Parlamento della Regione Siciliana, a cui in particolare giungevano i contributi tramite la Lega nazionale delle cooperative, cosiddette «cooperative rosse».
L’accordo, secondo l’onorevole Nicolosi, era stato realizzato sulla base di una precisa definizione di regole che attribuivano alle imprese locali il compito di finanziare i componenti di rilievo dei partiti politici siciliani, mentre alle grandi imprese nazionali competeva il compito di versare alle segreterie nazionali.
Il documento, che elencava nominativamente i collettori delle tangenti, piĂč di venti esponenti di rilievo, suddivisi per partiti e per imprese, fu consegnato alla procura della Repubblica di Catania.
Per la DC venivano indicati, tra gli altri, Calogero Mannino, Salvo Lima, Nino Drago; per il PCI Luigi Colajanni e Michele Russo; per il PSI Salvatore Lauricella, Salvo AndĂČ, Nicola Capria; per il PRI Aristide Gunnella ed Enzo Bianco; per il PSDI Carlo Vizzini.
Tra le imprese Nicolosi indicava come a lui legata quella di Filippo Salamone, mentre quella agrigentina di Antonio Vita veniva posta in relazione a Calogero Mannino. In questa ricostruzione l’imprenditore catanese Gaetano Graci aveva come riferimento i politici socialisti Salvatore Lauricella e Salvo AndĂČ, mentre l’azienda dei Costanzo, che si rapportava agli esponenti democristiani, in successione nel tempo aveva fornito un contributo anche ad esponenti socialisti.
L’impresa Mangiapane, attraverso le coop, era la referente del Partito Comunista.
Al sistema di erogazione dei partiti, sempre secondo l’onorevole Nicolosi, si sottraevano esclusivamente i sostenitori siciliani del senatore Andreotti che, tramite l’assessore regionale ai lavori pubblici, Salvatore Sciangula, per il suo specifico incarico, provvedeva direttamente al finanziamento della corrente di appartenenza.
Il memoriale Nicolosi non causĂČ danni di natura penale ai politici indicati. Infatti, soltanto Salvatore Lombardo, deputato regionale del PSI, nel quadro delle inchieste della cosiddetta «Tangentopoli siciliana», fu condannato in primo grado risultando successivamente assolto.
Al riguardo c’Ăš una piccola considerazione da aggiungere. Nel suo memoriale l’onorevole Nicolosi parla del periodo 1989-1991 come un triennio tumultuoso e lo individua come la fase di maggiore espansione dell’intesa illegale causata dalla gestione degli appalti pubblici.
Si tenga conto che proprio in quel periodo â febbraio-marzo 1991 â, seppure illegalmente, politica e cosa nostra apprendono dell’indagine del ROS sugli appalti pubblici. Alla luce delle sofferte confessioni di Nicolosi mi pongo una domanda. PoichĂ© all’epoca erano in corso iniziative praticamente contemporanee del ROS a Palermo e a Catania, la decisione di quei magistrati che non hanno concesso deleghe di indagine sugli aspetti politici e le inchieste, e archiviato la maggior parte delle politiche segnalate, era motivata esclusivamente dalla mancanza di adeguati elementi di conoscenza, ovvero archiviare inizialmente parte del dossier Mafia e appalti, con i suoi aspetti relativi al mondo politico, smembrare l’indagine catanese del dottor Lima, non considerare i contenuti dell’inchiesta del dottor Lama, tutto questo non era un modo di condizionare il processo in altro modo?
La risposta, a mio modo di vedere, si ricava dalle dichiarazioni espresse dal dottor Falcone quando sosteneva che le scelte riduttive assunte dal dottor Giammanco derivavano dall’esigenza di evitare il coinvolgimento di personaggi politici e dalle sollecitazioni ricevute da qualche uomo politico.
Il 30 giugno 1992 e seguenti il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, sentito dal dottor Borsellino, riferisce che Salvatore Riina, attraverso l’imprenditore Antonino Buscemi, venne cointeressato nella Calcestruzzi. Secondo le successive dichiarazioni del pentito Brusca Giovanni, con l’enorme flusso di denaro costituito dall’avvio del processo SIRAP, Salvatore Riina, attraverso la Reale Costruzioni, societĂ di proprietĂ del suocero di Vito Ciancimino e del citato «Benny» D’Agostino, praticamente fallita, era entrato in maniera occulta come socio di Buscemi nei grandi appalti.
Se il dottore Borsellino avesse avuto il tempo di sfruttare l’indicazione del Messina, mettendola in relazione ai dati dell’inchiesta della procura di Massa-Carrara, avrebbe potuto valutare a pieno i rapporti del costruttore Buscemi e dell’ingegner Gardini.
Elaborando queste acquisizioni poste sulla base delle spiegazioni richieste in una riunione della direzione distrettuale antimafia del 14 luglio, l’inchiesta del ROS sarebbe saldata anche tecnicamente a quella milanese di Mani Pulite assumendo una dimensione nazionale.
Paolo Borsellino non ebbe il tempo di farlo. Altri, a Palermo, pur avendo tutta la possibilitĂ di valutare giĂ in quei momenti la enorme documentazione inviata da Augusto Lama e collegarla all’acquisizione raggiunta dalla nostra informativa, non apprezzarono le potenzialitĂ di questa indagine e si perse un’occasione.
Il 1° luglio 1992 il dottor Borsellino interroga il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, il quale, sebbene informalmente, gli riferisce che un suo collega, il sostituto procuratore Domenico Signorino, titolare dell’accusa al maxiprocesso, e il dirigente del SISDE, Bruno Contrada, sono collusi con la mafia.
Nel corso dell’interrogatorio di Mutolo, il magistrato, su invito del Capo della polizia dell’epoca, Vincenzo Parisi, sospende l’incontro e si reca al Viminale dove quel giorno si teneva una cerimonia per l’insediamento dell’onorevole Nicola Mancino come nuovo Ministro dell’interno.
Nella circostanza il dottor Borsellino incontra anche Bruno Contrada, accompagnato dal prefetto Parisi. Nel breve scambio di convenevoli il funzionario del SISDE dimostra di essere a conoscenza che il magistrato stava interrogando Mutolo, fatto che, unito a quanto poco prima appreso dal collaboratore, lo impressionĂČ profondamente.
Questo Ăš il periodo che costituisce la fase di maggiore impegno professionale del dottor Borsellino al suo rientro alla procura di Palermo.
In questo lasso di tempo che non riesco meglio a precisare, ma orientativamente circoscrivibile dal periodo che va da maggio a fine giugno del 1992, Giovanni Brusca, che era stato precedentemente indicato da Salvatore Riina di preparare l’omicidio di Calogero Mannino, riceve l’ordine di sospendere quelle attivitĂ perchĂ© vi erano esigenze piĂč immediate. Secondo il collaboratore Brusca, Riina, per una serie di notizie ricevute e valutazioni connesse, riteneva prioritaria l’eliminazione del dottor Borsellino.
Il 2 luglio il dottor Borsellino incontra a Palermo il giornalista del Corriere della Sera, Luca Rossi. In quel colloquio, successivamente riferito in sede processuale, il magistrato parla delle indagini relative agli appalti e gli attribuisce grande importanza.
Il dottor Borsellino â si legge in quell’articolo â pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone e che il trait d’union fosse una questione di appalti in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando.
Sempre il magistrato, a proposito del suo dissenso con la proposta di nomina a Procuratore nazionale, disse: «Se me ne vado da qui, da Palermo, non ho piĂč nessuno che mi faccia da sponda. Qui non Ăš rimasto nessuno. Non ci sono piĂč inchieste, non c’Ăš un lavoro organico. Che cosa posso coordinare da Roma se nessuno fa le indagini in Sicilia?».
Il 13 luglio 1992 i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono al procuratore Pietro Giammanco l’archiviazione per diversi soggetti segnalati nell’inchiesta Mafia e appalti.
Tra le posizioni archiviate risultano anche quelle di Claudio De Eccher, titolare della Rizzani De Eccher di Udine, Piero Catti De Gasperi, responsabile della Tor di Valle, Antonino Buscemi, fondatore della FINSAVI, posseduta per metĂ dalla Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi, Antonino Spezia, che era il commercialista di Pino Lipari.
PRESIDENTE. Data?
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. 13 luglio 1992.
L’annotazione del ROS del 16 febbraio 1991 aveva documentato i collegamenti tra tutti questi imprenditori e Angelo Siino. In tempi successivi alcuni magistrati della procura della Repubblica di Palermo sosterranno che le archiviazioni decise in quella circostanza avevano riguardato solamente posizioni residuali. Si Ăš giĂ accennato alla rilevanza mafiosa di Buscemi, ma tengo a evidenziare che intanto la sua dubbia attivitĂ imprenditoriale aveva provocato una richiesta di sequestro di beni da parte della procura della Repubblica di Palermo. La notoria posizione rivestita all’interno di cosa nostra dal fratello Salvatore, capo del mandamento di Passo di Rigano-Boccadifalco, era nota alla procura di Roma. I legami da tempo segnalati dal dottor Augusto Lama della procura di Massa alla procura di Palermo erano giĂ stati acquisiti.
Le dichiarazioni del collaboratore Leonardo Messina, da cui emergevano i collegamenti di Salvatore Riina, tramite l’imprenditore, con il gruppo Ferruzzi, erano acquisite.
Questi sono tutti fatti giĂ da tempo noti alla DDA di Palermo prima che i sostituti Lo Forte e Scarpinato chiedessero l’archiviazione della posizione nel quadro di Mafia e appalti.
Il 26 novembre del 2021, nel corso del processo Mario Bo + 2, i magistrati Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, intesi come testimoni a richiesta della parte civile della famiglia Borsellino, hanno affermato di non avere ricordo della documentazione inviata nell’agosto 1991 dal dottor Lama alla procura della Repubblica di Massa-Carrara e a quella di Palermo, documentazione che, evidenziando le connessioni imprenditoriali tra il gruppo Ferruzzi di Raul Gardini e l’indiziato mafioso Antonino Buscemi, avvalorava e avrebbe dato sostegno all’inchiesta del ROS sugli appalti che stavamo trattando.
Risulta arduo ammettere che un procedimento che trattava di un colosso industriale quale il gruppo Ferruzzi, legato a un imprenditore in sospetto di far parte di ambienti mafiosi palermitani qualificanti, passasse per tanti mesi inosservato a due tra i piĂč esperti componenti di quella direzione distrettuale e questo tenuto anche conto del fatto che la circolaritĂ informativa tra i componenti fosse uno dei fondamenti su cui si basava il presupposto istitutivo delle direzioni distrettuali antimafia che, attraverso previste e periodiche riunioni, ottenevano il costante adeguamento conoscitivo da parte di tutti i componenti; indirizzo procedurale, sempre decisamente sostenuto, quale regolare modalitĂ operativa, in particolar modo dai membri della DDA palermitana, che ne sottolineavano anche la funzione ai fini della sicurezza salvo il fatto che, adottando questa modalitĂ , nessuno di loro risultava depositario esclusivo di aspetti sensibili ai fini investigativi.
Il 14 luglio 1992, nella riunione della direzione distrettuale antimafia, il dottor Borsellino chiede notizia dell’inchiesta Mafia e appalti, osservando come una sua specifica indagine non era stata collegata a quella del ROS. Infatti, mentre alla procura della Repubblica di Marsala il magistrato apprese l’annotazione del ROS che coinvolgeva quali elementi Angelo Siino e Rosario Cascio da lui indagati, ma soprattutto Antonino Spezia, chiese di collegare questa indagine ad alcuni appalti connessi al comune di Pantelleria. Chiese ed ottenne da me copia dell’informativa.
Rilevati i significativi collegamenti, aveva inviato per connessione investigativa atti del suo procedimento a Palermo. La documentazione gli era stata restituita dalla procura di Palermo in quanto alcuni suoi colleghi non ravvisavano nessuna utilitĂ per il prosieguo delle indagini. In pratica, la decisione era una conferma dell’indirizzo privilegiato dalla DDA di Palermo secondo cui ogni ufficio giudiziario doveva curare separatamente queste indagini.
Quel 14 luglio le richieste di chiarimento del dottor Borsellino nella riunione ottennero risposte vaghe e nessuno comunque in quella sede, neppure il dottor Lo Forte, alla presenza del procuratore Giammanco, lo informa che il giorno precedente era stata chiesta l’archiviazione.
D’altra parte, per quanto risulta dalle dichiarazioni quasi immediatamente rilasciate dal CSM, che consacravano ricordi sicuramente piĂč nitidi e attendibili di quelli rassegnati in tempi successivi da taluni magistrati anche a questa Commissione, nemmeno nei giorni che precedettero la strage di via D’Amelio qualche collega palermitano, nonostante il manifesto e dichiarato interesse del dottor Borsellino al caso, ritenne di informarlo di questa richiesta di archiviazione.
Anni dopo, e precisamente il 25 maggio 1921, il dottor Ingroia, sentito dalla commissione antimafia della Regione Siciliana a proposito dell’assemblea della DDA di Palermo del 14 luglio 1992, dichiarerĂ che Paolo Borsellino, al termine della riunione, rivolto ai colleghi Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone cosĂŹ esclamĂČ: «Voi non mi raccontate tutta la vera storia del rapporto del ROS».
Sul punto preme ricordare che nel corso dell’audizione davanti al CSM dei magistrati della procura di Palermo avvenuta nei giorni 28, 29 e 31 luglio 1992 emerse chiaramente come il dottor Borsellino in questa riunione avesse fatto importanti osservazioni sull’indagine Mafia e appalti. In particolare, il dottor Gozzo sottolineĂČ il contrasto piĂč che latente visibile tra alcuni colleghi e il dottor Borsellino.
PRESIDENTE. Siccome c’era un accordo sulla durata dell’audizione, il generale Mori concorda che le sue conclusioni siano rimandate alla seduta che sarĂ dedicata alle domande dei colleghi.
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. Va bene. Chiedo scusa, perĂČ purtroppo se saltiamo alcuni argomenti…
PRESIDENTE. Non salti niente.
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell’Arma dei carabinieri in congedo. In particolare, il dottor Domenico Gozzo sottolineĂČ come il contrasto era piĂč che latente e visibile tra alcuni colleghi e il dottor Borsellino, che chiese di rinviare la riunione per poter affrontare meglio la questione dell’inchiesta del ROS e lamentĂČ che non fosse stata acquisita agli atti la documentazione relativa al procedimento della procura della Repubblica di Marsala.
La dottoressa Antonella Consiglio affermĂČ, invece, che sino al suo arrivo in procura a Palermo aveva avuto la sensazione che le cose funzionassero formalmente in modo ineccepibile, ma che ci fosse una notevole spaccatura fra i sostituti e non vi fosse lealtĂ di rapporti. Anche il dottor Patronaggio dichiarĂČ che il dottor Borsellino aveva espressamente detto che i carabinieri si aspettavano risultati giudiziari maggiori e che alla domanda postagli se si riferisse alla posizione dei politici disse: «In realtĂ no, non Ăš solo nei confronti dei politici, ma anche nei confronti degli imprenditori», perchĂ© il nodo era valutare a fondo la loro posizione. Su questo punto il collega Lo Forte si dilungĂČ spiegando il delicato meccanismo e la posizione degli imprenditori.
Peraltro, il dottor Patronaggio il 29 novembre 2023, in questa sede, ha tenuto a sottolineare la specificitĂ dei quesiti di chiarimento rivolti al dottor Borsellino e al collega Lo Forte che faceva il punto sull’indagine Mafia e appalti. Un altro magistrato, a distanza di tempo, ha parlato della sua deposizione al CSM: si tratta del dottor Lorenzo Matassa, che era stato assegnato al tribunale di Palermo quale sostituto procuratore della Repubblica nel corso del 1992. Il dottor Matassa, il 23 luglio 2022, ha rilasciato un’intervista al giornalista Morici del periodico La Valle dei Templi sostenendo che nel giugno-luglio 1992 l’ufficio della procura all’epoca era una polveriera pronta a esplodere e che l’autoritĂ del dottor Giammanco si era praticamente dissolta, ma il procuratore godeva ancora del supporto di numerosi colleghi, che per questo motivo venivano chiamati i «nipotini». Alcuni tra i «nipotini» avevano successivamente avuto carriere professionali fulminanti nel quadro dell’antimafia militante. Nella riunione del 14 luglio 1992 il procuratore Giammanco aveva accennato a un nuovo importante pentito, che perĂČ voleva parlare solo con il dottor Borsellino. Tale affermazione aveva provocato la reazione di un «nipotino», che replicava chiedendo di non dare seguito a quella richiesta, dicendo testualmente: «Io e te, Pietro, andiamo io e te ad ascoltare questo pentito». Tutti erano rimasti perplessi e Borsellino era rimasto in silenzio.
Il dottor Matassa ha aggiunto che, dopo la strage di via D’Amelio, il dottor Giammanco avevano nuovamente riunito la DDA per chiedere un sostegno legittimante, che era stato prontamente concesso dai «nipotini». Pochi tra i magistrati della procura avevano conosciuto e partecipato alle vicende di Mafia e appalti.
Il documento di contestazione verso il procuratore Giammanco, presentato da otto magistrati il 23 luglio 1992, comprendeva riflessioni e considerazioni che attenevano al rapporto tra mafia e politica e alle regole di ingaggio, che facevano degli uomini dello Stato carne da macello. Aveva concluso la sua deposizione al CSM lasciando a verbale il convincimento dell’inutilitĂ dell’audizione a fronte della percepita volontĂ di non essere correttamente ascoltato. Attribuiva all’azione del CSM un valore formale ma non volto effettivamente a comprendere la realtĂ che era nella procura di Palermo.
Il 15 dicembre 2021, nel processo Mario Bo, il dottor Antonio Ingroia, sentito quale teste, ha indicato, oltre agli aggiunti Vittorio AliquĂČ ed Elio Spallitta, nei sostituti procuratore Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Giusto Sciacchitano i fedelissimi del dottor Pietro Giammanco alla DDA di Palermo.
Per due volte, a distanza di anni, l’avvocato Milio ha chiesto alla procura di Caltanissetta la consultazione degli atti connessi in qualche modo al procedimento «Stato-mafia», ottenendone un diniego. Al terzo tentativo, esperito insieme all’avvocato Romito, mio difensore â siamo ormai nel 2019 â i due legali ottennero la possibilitĂ di consultare l’intera documentazione. Negli atti relativi alla morte del dottor Borsellino rinvennero quelli dell’inchiesta svolta dal CSM a seguito della strage di via D’Amelio, che sino ad allora erano stati segretati. Il CSM li pubblicherĂ solamente nel corso del 2022. Le audizioni dei magistrati della DDA di Palermo furono la conseguenza di un documento che il 23 luglio 1992 otto componenti dell’ufficio avevano redatto per denunciare le criticitĂ che affliggevano la procura, prospettando le proprie dimissioni, affinchĂ© fossero chiare a tutti la gravitĂ delle rimostranze e l’urgenza delle loro preoccupazioni, fondate in particolare sulla sicurezza personale, ma anche rivolta a una gestione piĂč formale dell’ufficio.
ââIl 28 luglio 1992 venne ascoltato dal CSM il dottor Roberto Scarpinato, uno degli otto sottoscrittori del documento, e riporto al riguardo testualmente questa parte del suo intervento: «E poi c’Ăš un altro fatto che mi ha molto inquietato e ha molto pesato dentro di me, cioĂš che Paolo Borsellino conducesse delle indagini su fatti di grande rilevanza all’insaputa del procuratore. Su queste indagini naturalmente non posso dire niente per motivi di ufficio. Sul fatto che Paolo Borsellino raccomandasse il segreto nei confronti di Giammanco potrĂ essere sentito il sostituto Ingroia, quantomeno non solo sull’esistenza e non tanto sull’esistenza del filone di indagine in sĂ©, ma su alcune informazioni all’interno di quel filone particolarmente importante. Questa cosa io la apprendo dal sostituto Ingroia, poi me la conferma Paolo Borsellino. Io vivo questa cosa dentro di me malissimo, mi inquieta e mi chiedo: cosa sta succedendo a questa procura? Com’Ăš possibile che accadano cose di questo genere?».
ââIl 15 luglio 1992 il dottor Tinebra diventa procuratore della Repubblica di Caltanissetta. Il 4 ottobre 1994 il tribunale di Caltanissetta inizierĂ il processo per la strage di via D’Amelio. Giovanni Tinebra morirĂ il 6 maggio 2017.
ââIl 16 luglio 1992 il dottor Borsellino, unitamente ai colleghi Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli, in un locale della DIA di Roma procede all’interrogatorio di Gaspare Mutolo. Il pentito parla informalmente delle collusioni con cosa nostra di Domenico Signorino e Bruno Contrada, che saranno ufficializzate solamente il successivo 23 ottobre 1992.
ââNella serata del 16 luglio 1992 in Roma si tiene una cena tra il dottor Borsellino, l’onorevole Carlo Vizzini e i magistrati Lo Forte e Natoli. Come testimonierĂ processualmente l’uomo politico, Paolo Borsellino in quella cena tratta diffusamente del sistema illecito degli appalti, individuando questo come causa della possibile morte di Giovanni Falcone. Anche in questa circostanza non risulta che il dottor Lo Forte accenni alla proposta di archiviazione inoltrata tre giorni prima.
ââIl 18 luglio 1992 il dottor Borsellino, rientrato a Palermo, come si ricava dall’esame del carteggio, declassificato su decisione di questa Commissione, lascia traccia nel prelievo del fascicolo dell’imprenditore Luigi Ranieri, ucciso il 14 dicembre 1988, in quanto si era opposto al sistema mafioso per il condizionamento degli appalti. Al magistrato ne aveva parlato Leonardo Messina nelle sue dichiarazioni rese il 1° luglio. L’attivitĂ conferma anche la specifica attenzione del magistrato alla problematica e in particolare all’inchiesta del raggruppamento operativo speciale (ROS), che nell’annotazione del 16febbraio 1991, alle pagine 339 e 340, descrive la vicenda dell’omicidio Ranieri, mettendolo in diretta connessione all’assunto complessivo delle indagini.
ââAggiungo una mia considerazione personale. Dal verbale di sequestro dei materiali acquisiti nell’ufficio del dottor Borsellino dopo la sua morte, risulta che la maggior parte dei documenti rinvenuti riguardava un’indagine sugli appalti e personaggi che si ritrovano nella nostra annotazione del 16 febbraio. In sostanza, emergeva un febbrile lavoro di ricostruzione, sintesi e collegamento sulla problematica del condizionamento degli appalti pubblici.
ââIl 19 luglio 1992, domenica, intorno alle 7.30 del mattino, secondo la testimonianza della signora Agnese Borsellino, per telefono il procuratore Giammanco informa il marito di avergli conferito delega per le indagini nella provincia di Palermo. Appare del tutto anomala l’urgenza della chiamata fatta dal dottor Giammanco, considerato che all’indomani in procura avrebbe potuto informare il collega della sua decisione, senza disturbarlo nelle prime ore del mattino, per di piĂč in un giorno festivo, e poco prima che lo stesso, come d’abitudine, andasse a messa e poi, sempre in mattinata, si recasse in via D’Amelio a trovare la madre. In quella giornata, tuttavia, il dottor Borsellinocambia programma e si reca dalla madre solo a pranzo. Nel pomeriggio a Palermo, in via D’Amelio, per l’esplosione di un’auto riempita di esplosivo, il magistrato muore e con lui cadono cinque agenti della Polizia di Stato, Agostino Catalano, Walter Cosina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Si salva solo l’agente Antonino Vullo.
ââNel corso delle indagini che hanno dato vita ai procedimenti fin qui tenutisi presso la corte d’assise di Caltanissetta sulla morte di Borsellino, nĂ© quei giudici, nĂ© il dottor Tinebra, nĂ© i suoi successori alla procura della Repubblica, Francesco Messineo, Sergio Lari e Amedeo Bertone, hanno ritenuto che, per completezza delle indagini, fosse necessario sentire formalmente il dottor Giammanco, che muore il 2 dicembre 2018. Non viene mai sentito sulle sue determinazioni assunte circa l’inchiesta Mafia e appalti e sui suoi difficili rapporti con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In particolare, nessun magistrato, anche di altri distretti, a titolo personale, ha voluto fare chiarezza sull’indubbia anomalia di questa telefonata fatta al collega Borsellino il giorno della sua morte.
ââIl 19 luglio 1992 il primo magistrato ad arrivare in via D’Amelio Ăš il dottor Napoli, effettivo alla procura distrettuale di Palermo. Il dottor Napoli Ăš uno degli otto firmatari del documento sulla protesta della situazione della procura della Repubblica di Palermo, noto solo il 23 luglio 1992. In un successivo colloquio svoltosi il 31 ottobre 2023, riportato dal ricercatore Vincenzo Ceruso in un suo libro, il magistrato parla delle vicende da lui vissute in quei giorni e, a proposito di Mafia e appalti, il dottor Napoli definisce come risaputo il fatto che il documento fosse di contenuto esplosivo, perchĂ© per la prima volta descriveva il meccanismo di condizionamento degli appalti e che tra i colleghi corresse la voce che fosse stato «agghiuniato», termine dialettale siciliano che dovrebbe avere accezione come «accantonato» o «nascosto».
ââSubito dopo il dottor Napoli e prima ancora dei colleghi di turno Salvatore Pilato e Luigi Patronaggio, sopraggiunti a distanza di un’ora sul luogo dell’esplosione, arrivarono in via D’Amelio il procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, Guido Lo Forte, Giuseppe Ayala e Gioacchino Natoli. Di certo non era presente il dottor Arnaldo La Barbera, dirigente della squadra mobile, perchĂ© fuori sede, non a Palermo. Sono stati, quindi, i requirenti palermitani giunti nell’immediatezza che hanno avuto la possibilitĂ di sovraintendere e dirigere le operazioniPag. 52degli organi di polizia giudiziaria nella fase preliminare dell’acquisizione di elementi di prova rinvenibili sul luogo della strage. Pertanto, ogni atto immediatamente successivo, sino al sopraggiungere, in serata, dei colleghi titolari dell’indagine, Ăš da attribuire alle loro decisioni.
ââSe ne deve, quindi, concludere che, pur ammettendo l’indubbia difficoltĂ psicologica dell’agire in quei drammatici momenti, le loro attivitĂ , se non altro, sono state connotate da improvvisazione e sciatteria, cosĂŹ da produrre gravi danni, tuttora riscontrabili, alla storia processuale dell’inchiesta. In tale contesto, infatti, uno degli aspetti che ancora risultano non chiariti Ăš costituito dalla scomparsa di un’agenda del 1992, con copertina rossa, data dall’Arma dei carabinieri al dottor Borsellino in quell’anno, che, unitamente ad altre due agende, portava sempre con sĂ©. A detta delle persone a lui vicine, in quella rossa annotava esclusivamente appunti e considerazioni del tutto riservati e personali, tanto che nessuno, nemmeno i suoi familiari, era in grado di indicarne il contenuto. Quel pomeriggio del 19 luglio 1992 con ogni probabilitĂ , stante il fatto che non avrebbe avuto molto senso portarla a casa della madre, il magistrato la lasciĂČ nella sua borsa, rimasta nell’auto. Se l’avesse portata con sĂ©, sarebbe andata senz’altro incenerita dall’esplosione. In caso contrario e piĂč probabile, l’agenda, per qualche tempo dopo l’esplosione, sarebbe rimasta incustodita nella vettura. La sua sparizione, allora, potrebbe essere avvenuta sul posto della strage, ovvero in altri due luoghi della procura di Palermo, o negli uffici della squadra mobile, che procedeva formalmente per l’attentato, ovvero in quelli della procura della Repubblica di Palermo. In tutti e due i casi, piĂč che di sparizione appare realistico parlare di sottrazione.
ââIn particolar modo, il dottor Salvatore Pilato, il giorno della strage di via D’Amelio magistrato di turno, avrebbe affermato che, rientrato in sede dopo l’attivitĂ svolta sul posto, apprese della presenza dell’agenda rossa nell’ufficio del collega Borsellino. Sorvolo su alcune considerazioni per essere piĂč rapido, presidente.
ââIl 22 luglio 1992 il procuratore Giammanco inoltra una richiesta di archiviazione dell’inchiesta «Mafia e appalti» relativa alla maggior parte delle persone indicate nella nostra informativa. Lui e i due sostituti, chiedendone l’archiviazione, nella circostanza trascurano i motivi e l’importanza del problema degli appalti, sottolineato alla Commissione parlamentare antimafia nel giugno 1990 da Giovanni Falcone, ignorano l’attenzione particolare che Paolo Borsellino, nei suoi ultimi mesi di vita, aveva rivolto all’indagine dei carabinieri, sottovalutano la consistenza probatoria dell’annotazione del ROS del 16 febbraio 1991 e non considerano rilevante che alla pagina 335 del documento risultasse che uno dei soci di Antonino Buscemi, Vito Giuseppe Buscemi, classe 1955, peraltro suo parente, disponesse di una abitazione proprio in via D’Amelio, al civico n. 46, praticamente di fronte a quella del dottor Paolo Borsellino, e non collegano l’indagine del ROS con gli atti del dottor Lama, che erano arrivati a Palermo da Massa-Carrara.
Questi aspetti, giĂ di per sĂ© significativi nella drammaticitĂ di questo momento, segnato dalla morte del magistrato piĂč qualificato della procura, che aveva mostrato una particolare attenzione a Mafia e appalti, avrebbero dovuto essere valutati a prescindere. In questi casi, infatti, l’abbiccĂŹ di chi sovraintende le indagini per gravi delitti prevede di accertare, in primo luogo, quali siano le piĂč recenti attivitĂ svolte dalla vittima e, di conseguenza, individuare con chi si rapportasse negli ultimi giorni di vita, quali intendimenti professionali manifestasse e, infine, di quali documenti e informazioni disponesse in merito a queste problematiche. Tutto ciĂČ, attraverso l’affrettata proposta di archiviazione, Ăš stato colpevolmente disatteso, non avendo neppure attivato il reparto, ossia il ROS, che stava gestendo le indagini nell’interesse del dottore Borsellino.
Il 22 luglio 1992 il colonnello Mori incontra, a Palazzo Chigi, l’avvocata Fernanda Contri, Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e, nel corso di una relazione sulla situazione della sicurezza pubblica con riferimento alla strage di Capaci, accenna al tentativo di convincere Vito Ciancimino a qualche forma di collaborazione. L’avvocato Contri riferirĂ dei contenuti all’onorevole Giuliano Amato, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il 23 luglio 1992, come giĂ accennato, otto sostituti procuratori della Repubblica di Palermo, Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi, presentano una lettera di dimissioni. L’iniziativa, a cui si aggiungevano altri magistrati, veniva motivata come atto di protesta per stigmatizzare l’azione inefficace degli organi preposti alla tutela della sicurezza pubblica, sottolineare la mancanza di un’accettabile predisposizione di sicurezza nei confronti dei magistrati, sollecitare l’arrivo di personalitĂ autorevoli che valga a ricompattare lo spirito dell’unitĂ della procura di Palermo. Il dottor Giammanco, a seguito di questa iniziativa, con una memoria scritta confuta queste accuse. Nei giorni successivi, dopo una sua audizione al CSM, il magistrato chiede e ottiene il trasferimento alla Corte di cassazione, dove resterĂ fino al 2 ottobre 1999, data del pensionamento. Il dottor Giammanco muore a Palermo il 2 dicembre 2018.
Il dottor Giammanco, per le accuse di corruzione formulate da piĂč pentiti, Ăš stato coinvolto, unitamente ad altri colleghi, in una specifica inchiesta giudiziaria. Gli accusatori erano Giuseppe Marchese, che gli attribuĂŹ il fatto di aver intascato denaro Pag. 55per ammorbidire la posizione degli imputati, Giuseppe Li Pera, che lo indicĂČ quale percettore di denaro, unitamente ai colleghi De Francisci, Lo Forte e Pignatone, per mitigare la posizione di alcune personalitĂ , e Angelo Siino, che lo accusĂČ di aver procurato ad estranei, sempre per denaro, una copia dell’informativa «Mafia e appalti». La posizione del magistrato, cosĂŹ come quelle dei suoi colleghi, verrĂ archiviata dalla procura della Repubblica di Caltanissetta.
GiĂ un’altra sentenza, il 22 aprile 2006, a Catania, della corte d’assise, terza sezione, nel processo contro gli autori della strage di Capaci, conferma l’interesse del dottor Borsellino alla problematica degli appalti. Sulla base delle dichiarazioni di vari collaboratori, in particolare Antonino GiuffrĂš, quei giudici affermarono che le ragioni dell’anticipata uccisione del dottor Borsellino si rinvengono nei timori basati su due motivi: la possibilitĂ che venisse ad assumere la Direzione nazionale antimafia e soprattutto la pericolositĂ che egli avrebbe potuto svolgere indagini in materia di mafia e appalti.
La conduzione dei primi tre procedimenti connessi alla strage di via D’Amelio ripropone le negative considerazioni sulla concretezza degli accertamenti questa volta svolti dai magistrati della procura della Repubblica di Caltanissetta, anche in questo caso, come a Palermo, caratterizzati da superficialitĂ e approssimazione non giustificabili.
Il 30 luglio 1992 la professoressa Maria Falcone, sorella del dottor Giovanni Falcone, intesa dal Consiglio superiore della magistratura, riferisce che Paolo Borsellino, nel corso del giugno 1992, presente nella circostanza anche il dottor Morvillo, magistrato e fratello di Francesca Morvillo, li pregĂČ di evitare richieste pubbliche volte a ottenere una maggiore determinazione sull’indagine per la morte dei loro congiunti perchĂ© stava testualmente â scoprendo cose terribili e che avrebbe fatto saltare parecchie cose.
Il 14 agosto 1992 il GIP del tribunale di Palermo, dottor La Commare, determina l’archiviazione di Mafia e appalti, cosĂŹ come richiesto dalla procura. La notizia non viene pubblicizzata sugli organi di stampa, di norma molto attenti a queste vicende.
Al riguardo, preme sottolineare che nella richiesta di archiviazione «Mandanti occulti-bis» della procura di Caltanissetta si sostiene: «Se il programma investigativo di Falcone e Borsellino era indirizzato all’esplorazione del tema dei rapporti tra mafia e appalti, non solo come terreno di individuazione della mafia operativa, ma soprattutto come punto di convergenza tra interessi mafiosi e terzo livello, la scansione degli eventi, che si muovono tra il trasferimento di Giovanni Falcone a Roma, l’utilizzazione riduttiva del rapporto del ROS da parte della procura diretta dal dottor Giammanco, la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, sembra propendere verso la sussistenza di un forte interesse, sia all’interno che all’esterno di cosa nostra, volto a ostacolare l’attuazione di questo programma investigativo e, quindi, a legittimare un movente di tipo stragista».
Rimane il fatto che l’inchiesta relativa alla problematica delle connessioni tra mafia e imprenditoria politica, nella quale emergeva il nuovo atteggiamento assunto da cosa nostra, che da una concezione tradizionalmente parassitaria era passata a una posizione attiva nell’aggiudicazione e nella gestione degli appalti pubblici, venne interrotta per il mancato sostegno che la procura di Palermo offrĂŹ a noi investigatori.
A questo punto serve una disamina dell’inchiesta Mafia e appalti svolta a Catania.
Il 30 aprile 1992 giunge al ROS un anonimo nel quale si indica che il geometra della Rizzani De Eccher, Giuseppe Li Pera, in quel periodo detenuto, era in grado di far scoprire gli illeciti su alcuni appalti aggiudicati in provincia di Catania e si chiede di interessare il sostituto procuratore della Repubblica, dottor Felice Lima.
Questo Ăš un punto fondamentale perchĂ© ancora oggi il ROS â in particolare io â viene accusato di avere, sostanzialmente, redatto questa lettera anonima per poter migrare il geometra Li Pera dalla procura della Repubblica di Palermo a quella di Catania. Nulla di piĂč falso, per un semplice motivo: se io avessi scritto questo anonimo per sottrarre Li Pera dalla procura di Palermo per quella di Catania non avrei chiesto l’autorizzazione alla procura della Repubblica di Palermo di andare a Catania con Li Pera. Quindi, l’anonimo non l’ho scritto io.
Quando l’anonimo Ăš arrivato noi, prima di andare a parlare con la procura della Repubblica di Catania, abbiamo chiesto l’autorizzazione â e ce n’Ăš copia scritta â alla procura della Repubblica di Palermo, al dottor Lo Forte e al dottor Pignatone.
Il 6 maggio 1992, infatti, la sezione ROS di Palermo informa per iscritto della ricezione dell’anonimo il dottor Lo Forte, che ne prende atto e autorizza tutti gli atti conseguenti con la procura della Repubblica di Catania.
Il 28 maggio 1992 il dottor Lo Forte autorizza, da me chiestogli, il riascolto delle intercettazioni telefoniche depositate per l’inchiesta Mafia e appalti. La richiesta si pone in relazione agli sviluppi dell’indagine SIRAP. Il 1° ottobre 1992 deposito alla procura della Repubblica di Catania l’annotazione denominata «Caronte» connessa agli accertamenti sulle dichiarazioni rese da Giuseppe Li Pera. Nelle sue affermazioni, il geometra Li Pera, premettendo che la sua richiesta, inoltrata dopo l’arresto, di essere sentito dai magistrati della procura della Repubblicadi Palermo era stata respinta, descriveva al dottor Lima e a me le modalitĂ con cui imprenditori, politici e mafiosi condizionavano gli appalti pubblici in Sicilia. Li Pera sosteneva anche di aver ricevuto da Angelo Siino notizie di dettaglio sui contenuti dell’annotazione Mafia e appalti subito dopo il suo deposito in procura a Palermo.
Sulla base di queste indagini, conseguenti al complesso delle dichiarazioni, il dottor Lima richiedeva l’emissione di ventitrĂš ordinanze di custodia cautelare in carcere, oltre che per turbativa d’asta, per associazione a delinquere semplice, non mafiosa, evidenziando cosĂŹ la sua intenzione di interessare le procure competenti per gli aspetti relativi al 416-bis.
La richiesta venne bloccata dal procuratore della Repubblica capo di Catania, dottor Giuseppe Alicata, che suddivise l’inchiesta in piĂč parti, assegnandola alla procura della Repubblica di Catania per alcuni appalti relativi che, tra l’altro, porteranno all’arresto di Pasquale e Giuseppe Costanzo, figli del cavaliere Carmelo Costanzo; a Palermo, per i complessivi aspetti relativi a cosa nostra; a Caltanissetta, per il segmento riguardante il comportamento dei magistrati Pietro Giammanco, Giuseppe Pignatone, De Francisci e Lo Forte, accusati, sulla base delle affermazioni di Li Pera, di corruzione in atti giudiziari.
Il dottor Alicata, nel frattempo, non delegĂČ il ROS, organismo che aveva proceduto alle indagini, nemmeno all’esecuzione materiale degli arresti competenti del suo ufficio.
A seguito di queste polemiche originate dal contrasto con la procura di Catania, il dottor Lima venne sottoposto a procedimento disciplinare. Il magistrato, per evitare il trasferimento ad altra sede, chiese e ottenne il passaggio al tribunale civile.
Il mio comportamento, ritenuto illecito dalla procura della Repubblica di Palermo, venne esaminato come ipotesi di abuso d’ufficio dalla competente magistratura di Roma. Nella fattispecie,Pag. 59i magistrati palermitani, in relazione alle indagini da me svolte e all’informativa del 16 febbraio 1991, mi accusarono di non aver trasmesso tutte le intercettazioni svolte su loro delega, intercettazioni che, invece, avrei fornito per intero alla procura della Repubblica di Catania, sviluppate nell’indagine Caronte.
Palermo lamentava, inoltre, anche la mancata tempestivitĂ della notizia relativa alla collaborazione del geometra Li Pera, ritardo che avrebbe concorso a non far valutare adeguatamente il complesso delle iniziative di propria competenza.
Posto che secondo Li Pera la sua decisione di collaborare con la procura di Catania derivava dal fatto che i magistrati di Palermo si erano rifiutati di sentirlo, costoro non tenevano conto che il geometra della Rizzani de Eccher venne interrogato mentre era detenuto in carcere di massima sicurezza, insieme a molti esponenti mafiosi, e che qualsiasi fuga di notizie nella fase iniziale della sua collaborazione avrebbe causato pericoli per la sua vita.
In ogni caso, fui sottoposto a procedimento disciplinare e la procura generale della Corte di cassazione il 13 dicembre 1994 definĂŹ il procedimento relativo al mio comportamento rilevando che non avevo commesso alcun tipo di irregolaritĂ . Indirettamente, con questa decisione, venne respinta la tesi della doppia informativa, sostenuta all’epoca dalla procura di Palermo, che ancora torna. Infatti, con questa denominazione si Ăš tentato e si tenta ancora di dimostrare il comportamento proceduralmente scorretto del ROS nei confronti della procura di Palermo. L’asserto sarebbe dimostrato dall’esame dei contenuti dell’annotazione relativa alla societĂ SIRAP depositata a Palermo il 5 settembre 1992 e di quella denominata «Caronte» relativa agli accertamenti sulle affermazioni di Palermo, consegnata a Catania il 1° ottobre 1992 e posta in relazione con l’informativa del 1991.
La SIRAP â Siciliana incentivazioni reali per l’attivitĂ produttiva â, fortemente voluta dall’onorevole Lima, era alla diretta dipendenza della Regione Siciliana.
La societĂ era incaricata di gestire i finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno, ammontanti a quell’epoca a circa mille miliardi di lire, previsti per la realizzazione di venti aree attrezzate. La SIRAP era controllata dall’Ente siciliano per la promozione industriale (ESPI), un istituto della regione, il cui presidente era Francesco Pignatone, padre del sostituto procuratore della Repubblica, Giuseppe Pignatone. Francesco Pignatone, giĂ parlamentare nazionale, era esponente della Democrazia Cristiana, inserito nella corrente dell’onorevole Lima. Giuseppe Pignatone, sostituto procuratore dell’epoca, da me immediatamente informato del fatto che il congiunto era emerso nel corso di alcune intercettazioni telefoniche, ne prese atto, ma non ritenne di doversi astenere dalla trattazione del procedimento.
In merito a questo particolare aspetto, la dottoressa Loforti, GIP del tribunale di Caltanissetta, sempre nella sua ordinanza del 15 marzo 2000, sostenne: «Avuto riguardo, quindi, alla qualitĂ del di lui padre, presidente dell’ESPI, una piĂč attenta valutazione di opportunitĂ avrebbe, forse, potuto suggerire al dottor Pignatone, pur in assenza di un evidente obbligo di astensione tenuto conto che, almeno formalmente, la societĂ oggetto di indagine era diversa dall’ESPI, di evitare di occuparsi delle vicende in questione fin dal momento in cui si trattĂČ di richiedere le autorizzazioni alle intercettazioni telefoniche proprio sulle utenze SIRAP.
Tale rapporto di filiazione puĂČ avere obiettivamente ingenerato il convincimento che le strategie processuali, seguite all’epoca dalla procura della Repubblica di Palermo, fossero state, sia pure indirettamente dalla loro valutazione di carattere prettamente tecnico, influenzate dal fatto che il presidente di uno dei due unici soci azionisti della SIRAP fosse, per l’appunto, il padre del dottor Pignatone».
Peraltro, all’epoca il dottor Giuseppe Pignatone avrebbe dovuto anche considerare che nel corso degli anni Ottanta, come giĂ accennato, i componenti della sua famiglia avevano acquistato a Palermo una serie di appartamenti dall’immobiliare Raffaello, societĂ gestita da indiziati mafiosi. Il dottor Pignatone come co-assegnatario dell’indagine Mafia e appalti non poteva ignorare che sia Bonura che Buscemi erano stati segnalati nell’informativa del 16 febbraio 1991.
In relazione alle indagini del ROS trasmesse a Catania, in seguito a separata e successiva acquisizione, la procura della Repubblica di Palermo sviluppĂČ alcune attivitĂ sulla «tangentopoli siciliana», dizione con cui vengono coinvolte varie attivitĂ . I relativi esiti non causarono danni penali al mondo politico siciliano e modeste conseguenze al mondo imprenditoriale.
Non ho gli elementi per riferire dettagliatamente su questa attivitĂ .
I sostenitori della tesi della doppia informativa affermano che l’annotazione del 16 febbraio 1991 consegnata a Giovanni Falcone differiva da quella relativa alla societĂ SIRAP depositata il 5 settembre 1992, in quanto nella prima erano state omesse le intercettazioni con i nomi dei politici, che emergevano, invece, nella seconda. Questa posizione, giĂ propria dei responsabili della procura della Repubblica di Palermo all’epoca, Ăš tuttora sostenuta da alcuni magistrati, quali Vittorio Teresi e Gioacchino Natoli, e da alcuni politici e cronisti giudiziari, in particolare dal senatore Roberto Scarpinato e anche dalla pubblicazione Antimafia Duemila, periodico per iniziati che tratta della lotta alla mafia, pubblicazione diretta da Giorgio Bongiovanni, che gode di ampia considerazione presso alcuni magistrati distintisi nel contrasto a cosa nostra, quali Antonino Di Matteo, Roberto Scarpinato, Giuseppe Lombardo, Luca Tescaroli e Sebastiano Ardita, con cui partecipa a diverse iniziative antimafia, come quella, ad esempio, tenutasi nel maggio 2022 in occasione del triennale della strage di Capaci. Il Bongiovanni Ăš anche detto «uomo delle stigmate», in quanto sostiene di averle ricevute direttamente dalla Madonna nel corso del 1989 durante una visita al santuario di Fatima.
ââL’infondatezza della tesi sulla doppia informativa Ăš dimostrata dall’ordinanza del GIP di Caltanissetta, dottoressa Loforti, mai ufficialmente contestata, a mia conoscenza, da nessuno dei protagonisti di queste vicende. A riguardo, la dottoressa afferma testualmente: «Se ne deve dedurre, quindi, che la omessa trasmissione da parte dell’organo di polizia giudiziaria, nel febbraio 1991, di parte delle intercettazioni telefoniche era ben nota ai magistrati dottor Lo Forte e Pignatone, i quali avevano autorizzato e seguito lo sviluppo delle intercettazioni ed erano, inoltre, in possesso, come ufficio, dei brogliacci e delle bobine, sicchĂ© erano bene in condizioni sia di leggere i primi che, rilevata l’assenza della trascrizione delle intercettazioni sulle utenze SIRAP, di richiederne l’immediata trascrizione allo stesso organo di polizia giudiziaria, ovvero di disporla loro stessi.
Infatti, dalla documentazione acquisita in esecuzione dell’ordinanza di questo ufficio, Ăš emerso che l’informativa del 20 febbraio 1991 era stata, in realtĂ , preceduta dalle annotazioni dei carabinieri del 23 aprile 1990, del 2 luglio 1990, del 5 agosto 1990 e del 30 agosto 1990, delle quali le prime due risultano espressamente richiamate nell’informativa del 20 febbraio 1991. Deve, dunque, concludersi che non puĂČ ritenersi affatto provata la cosiddetta âteoria della doppia informativaâ e che, al contrario di quanto ritiene il dottor Lo Forte» â sono parole testuali del GIP di Caltanissetta â «non puĂČ affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati, oggetto del presente procedimento, possono essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalitĂ politiche, i magistrati oggi indagati».
Nel medesimo senso definiva anche, la sentenza, l’insussistenza di una doppia informativa, cui si Ăš espressa la corte d’assise d’appello di Palermo, nel processo relativo alla trattativa Stato-mafia, sostenendo, nelle motivazioni depositate il 5 agosto 2022, che «non Ăš vero o almeno non Ăš provato che giĂ all’epoca dell’informativa Mafia e appalti, depositata il 20 febbraio 1991, ne esistesse una seconda copia o una seconda versione molto piĂč ricca perchĂ© comprensiva degli atti che vennero poi allegati alle successive informative».
Al riguardo, il dottor Lima il 4 maggio 2021, davanti alla commissione d’inchiesta dell’assemblea regionale che lo ascoltava, sostenne: «Io avevo le stesse carte dei colleghi palermitani, ma mentre sul mio tavolo queste carte portarono i frutti contenuti in quelle 230 pagine di richiesta di ordinanza cautelare, a Palermo non era praticamente successo niente. Anzi, c’era stata una dolorosa, dal mio punto di vista, richiesta di archiviazione».
Stante le difficoltĂ dei rapporti tra la procura della repubblica di Palermo e il ROS, nel corso del 1993 il colonnello Mori decise l’impiego del mio reparto fuori dalla Sicilia in aree del territorio nazionale comunque connotate da organizzazioni di criminalitĂ mafiosa. In particolare, in Campania il ROS ripropose lo stesso modello d’indagine adottato in Sicilia, questa volta con il pieno sostegno della procura della Repubblica di Napoli.
Nell’aprile del 1996, infatti, ebbe inizio l’indagine denominata «Avvio», originata da una denuncia dell’amministratore delegato pro tempore della Calcestruzzi, l’ingegner Giuseppe Parrello, espressione della fattiva collaborazione e della Pag. 64nuova lineare gestione della societĂ . Emergeva che la Calcestruzzi, capofila dell’associazione temporanea di imprese destinata alla realizzazione della linea ferroviaria alta velocitĂ , TAV, Roma-Napoli, aveva subĂŹto una serie di danneggiamenti e minacce. Il presupposto operativo concordato con i magistrati della procura di Napoli si fondĂČ sulla presenza di un agente infiltrato, che avrebbe dovuto prendere contatto con gli autori delle azioni criminose, risalendo fino ai loro mandanti. Attraverso la brillante e coraggiosa opera del tenente colonnello Vincenzo Paticchio, alto ufficiale del ROS, che tenne i difficili rapporti con i responsabili di un articolato sistema criminale, rifacendosi al clan dei casalesi, si giunse a individuare un complesso intreccio di responsabilitĂ che, come nel caso siciliano, in perfetta intesa, vedeva anche qui protagonisti criminali, imprenditori e amministratori pubblici.
L’operazione, conclusa il 9 settembre 1996, portĂČ alle reazioni da parte di alcuni esponenti politici, con l’accusa nei confronti del colonnello Paticchio di essere stato non un infiltrato, bensĂŹ un provocatore.
Il 7 maggio 2015 la Corte di cassazione confermava le condanne penali solo per la componente camorristica, sulla base del principio che quest’ultima, con le sue attivitĂ criminali, era preesistente alle vicende di causa, mentre assolveva la parte politica coinvolta sulla base della considerazione di aver deciso il proprio orientamento illecito non solo dopo l’attivitĂ posta in essere dall’agente sotto copertura, autorizzata dalla magistratura procedente. Peraltro, la Suprema Corte riconobbe la correttezza giuridica e l’operato del ROS e dei magistrati requirenti, il procuratore Agostino Cordova, i sostituti procuratori Paolo Mancuso e Federico Cafiero de Raho, oggi componente di questa Commissione. L’operazione otteneva anche la legittimazione istituzionale rappresentata dall’apprezzamento manifestato dal presidente dell’AutoritĂ nazionale anticorruzione che la Camera dei deputati, in sede di Commissione Giustizia, espresse il suo favore anche in futuri casi di impiego dell’agente infiltrato nell’operazione Avvio.
Il 14 novembre 1992 la Corte di cassazione emette la sentenza per l’omicidio del capitano Emanuele Basile, condannando Francesco Madonia e i figli.
Il 3 dicembre Domenico Signorino, sostituto procuratore della Repubblica di Palermo e pubblico ministero nel maxiprocesso, si suicida esplodendo un colpo di pistola alla testa.
Il 19 dicembre 1992 a Roma viene nuovamente arrestato Vito Ciancimino, in esecuzione di un provvedimento emesso dalla corte d’appello di Palermo.
Il 24 dicembre viene arrestato il dottor Bruno Contrada.
Il 27 gennaio 1993 Vito Ciancimino inizia a rendere deposizioni ai magistrati della procura della Repubblica di Palermo, Giancarlo Caselli e Antonino Ingroia. Nel corso delle stesse, il 23 marzo 1993, descrive tutti gli incontri che si sono svolti insieme tra il capitano De Donno e il colonnello Mori.
A questo punto, presidente, direi che possiamo fermarci qui. Non tedio piĂč l’attenzione dei componenti. Grazie.
PRESIDENTE. Devo dire che difficilmente ho sentito tanto silenzio. La ringrazio.
Se il generale Mori conferma di essere d’accordo, accorpiamo le sue conclusioni alle domande perchĂ© i lavori dell’Aula della Camera sono ripresi.
Ritengo opportuno che prima delle domande leggiate tutti la relazione, decisamente lunga ma necessaria.
Ringrazio gli auditi e dichiaro conclusa la seduta.
La seduta termina alle 16.20.
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Commissione antimafia, Pd e 5S âprocessanoâ gli uomini di Falcone
In Commissione Antimafia, Mario Mori e Giuseppe De Donno â ex ufficiali del Ros, convocati per proseguire lâaudizione sul controverso procedimento nato dal dossier âMafia Appaltiâ â hanno subito un nuovo atteggiamento ostile da parte del Movimento Cinque Stelle e del Partito Democratico. Allâavvio delle domande, il pentastellato Luigi Nave ha sollevato un singolare rilievo, prontamente respinto dalla presidente Chiara Colosimo, mentre il deputato Verini evidentemente era âdistrattoâ. Il clima, in pratica, resta ancorato alle vecchie accuse mosse dagli ex procuratori di Palermo, tra cui il senatore Roberto Scarpinato, oggi componente della Commissione.
Facciamo chiarezza. Dopo lâintervento conclusivo di Mario Mori, che ha spiegato come â secondo la sua testimonianza â il dossier âMafia Appaltiâ abbia subito ostacoli dallâallora procuratore Pietro Giammanco, Ăš intervenuto il senatore Nave del M5S. Questi ha accusato Giuseppe De Donno di aver presentato, durante la scorsa audizione, una memoria piena di inesattezze e mistificazioni, chiedendo il rinvio per consentire ai commissari di studiare un documento di 86 pagine depositato mezzâora prima della convocazione. La presidente Chiara Colosimo ha respinto lâistanza: non câerano i tempi tecnici per esaminare un testo arrivato allâultimo momento. Eppure, dalla prima audizione erano passate settimane: avrebbero potuto consegnarlo prima. Un fatto senza precedenti, poichĂ© mai prima dâora un gruppo di minoranza aveva chiesto lo slittamento di unâaudizione basandosi su una ricostruzione âavversaâ depositata allâultimo minuto.
Ă prassi, in Commissione Antimafia, ascoltare tutte le versioni ritenute utili: prima degli appartenenti ai Ros, magistrati come Gioacchino Natoli e Luigi Patronaggio avevano giĂ esposto le loro ricostruzioni, con criticitĂ segnalate da Il Dubbio in articoli precedenti, senza che alcuno â nĂ© Fratelli dâItalia nĂ© Partito Democratico â invocasse rinvii o memorie contrapposte. Di norma, al termine dei lavori si redigono una relazione di maggioranza e una di minoranza. PerchĂ© allora il M5S ha voluto fare unâeccezione proprio per gli ex Ros? Questo episodio dimostra che contro di loro non Ăš bastato lâaccanimento giudiziario (e mediatico) â puntualmente naufragato â ma si Ăš arrivati a strumentalizzazioni in ambito politico.
Ma la politica Ăš cosa seria, fatta perĂČ da persone che possono âsbagliareâ. Basterebbe lâesempio del senatore Verini per capire quanto alcuni commissari rimangano ostinatamente ciechi di fronte alla versione degli ex Ros. Nonostante la memoria depositata e lâintervento conclusivo di Mario Mori, che aveva giĂ chiarito quel punto, Verini ha chiesto perchĂ© lâincontro riservato su âMafia Appaltiâ traBorsellino e gli ex Ros sia emerso solo anni dopo. Una domanda che getta ombre su Mori e De Donno, alimentando le stesse illazioni ospitate da Il Fatto Quotidiano che, evidentemente, ha voce sulla linea anche del Partito Democratico.
In realtĂ , come ricordato nella memoria e sottolineato da Mori in Commissione, De Donno riferĂŹ dellâepisodio giĂ nel 1992 davanti ai pubblici ministeri di Caltanissetta, allora incaricati dellâinchiesta sulla strage di via DâAmelio. Quei magistrati giĂ disponevano dunque di elementi solidi sullâinteresse di Borsellino al dossier e sul suo scetticismo verso alcuni colleghi. Ă invece legittimo chiedersi come mai quel versante di indagine sia stato approfondito solo nei processi successivi, e perfino in modo parziale: grazie allâazione di desecretazione di Chiara Colosimo e soprattutto delle indagini attuali dei pm nisseni guidati da Salvatore De Luca, oggi emergono manoscritti e documenti che Borsellino custodiva nel suo ufficio. Non si tratta certo di unâinvenzione degli ex Ros, nĂ© â come ha sostenuto il pentastellato Nave â di fumo per nascondere cose âindicibiliâ.
Tutte le sentenze, del resto, riconoscono nel dossier un fattore decisivo nella scelta dei corleonesi di eliminare Borsellino e, in precedenza, Falcone stesso. Su questo tema abbiamo giĂ scritto ampiamente: ora ci si augura che lâinchiesta della procura di Caltanissetta faccia finalmente luce su quel patrimonio documentale occultato da trentennali teorie giudiziarie (quelle sĂŹ, fumose) â dalla trattativa alla pista nera, fino a Gladio.
La memoria depositata dagli ex Ros presenta sicuramente diverse imprecisioni, ma parliamo di dettagli trascurabili. Sono passati oltre 30 anni ed Ăš comprensibile commettere errori. Quello che conta non dovrebbe essere la memoria in sĂ©, ma le carte. Almeno dal comunicato del M5S, si stigmatizza Mori per aver detto, falsamente, che Falcone accusĂČ la procura di Palermo di aver insabbiato alcune indagini relative al dossier âMafia Appaltiâ. Ma non Ăš unâinvenzione di Mori. Tocca ripeterlo.
Due verbali di assunzione di informazioni sono significativi. Uno, il numero 271/97: la giornalista Liana Milella riferisce di un colloquio avvenuto con Falcone nellâestate del â91, quando ci furono solo le cinque richieste di arresto scaturite dal dossier: «Falcone, in piĂč occasioni, e in particolare dopo gli arresti, aveva commentato con grande delusione gli sviluppi di quellâinchiesta, dicendomi che riteneva riduttiva la scelta di arrestare solo certe persone». CâĂš anche il verbale numero 490/94, dove lâex ministro Claudio Martelli riferisce del singolare episodio in cui, nellâestate del 1991, la procura di Palermo inviĂČ il dossier âMafia Appaltiâ al ministero, trasgredendo il segreto istruttorio: «Quel che ricordo Ăš che Falcone osservĂČ che Giammanco aveva trascurato o insabbiato quellâindagine». Quindi, forse, ci vorrebbe maggior rispetto per la memoria di Giovanni Falcone.
Non si comprende perchĂ© il M5S citi anche Mutolo. In realtĂ , sul versante appalti, fondamentale per Borsellino era il pentito Leonardo Messina, colui che â tra le altre cose â corroborĂČ il fatto che la Calcestruzzi della Ferruzzi Gardini fosse in mano a TotĂČ Riina. Lo stesso suo interrogatorio verrĂ utilizzato nelle indagini successive allâarchiviazione. Peccato non prima.
Singolare anche la domanda posta dal deputato dem Giuseppe Provenzano, il quale, riallacciandosi alla questione sollevata dal collega Verini, ha chiesto a Mori una sua valutazione su esponenti politici come DellâUtri o DâAlĂŹ. Magari non era il suo intento, ma sembra quasi che fossero in qualche modo collegati alle stragi. Il che Ăš chiaramente un falso. Mori ha risposto di voler parlare solo di ciĂČ di cui si Ăš occupato direttamente, di ciĂČ che ha âtoccato con manoâ, non di questioni che conosce tramite i giornali. In realtĂ , Ăš un comportamento che dovrebbero avere tutti: da investigatori, magistrati e politici ci si aspetta questo, ossia riferire ciĂČ che si conosce personalmente attraverso studi e approfondimenti. Altrimenti si rischiano âincidentiâ, come accaduto allo stesso Provenzano, quando pose la domanda allâavvocato Fabio Trizzino, genero di Borsellino, sulla pista nera, citando un documento sponsorizzato da giornali come Il Fatto ma che nella realtĂ Ăš âcarta stracciaâ.
Detto questo, anche De Donno e Mori un errore lo hanno commesso: dare importanza alle parole di Vito Ciancimino, il quale in realtĂ aveva tutto lâinteresse di allontanare la mafia dalle responsabilitĂ e accusare altri soggetti esterni. Di tutto si puĂČ accusare lâallora procura di Palermo, ma non di non aver indagato sui âterzi livelliâ. Ed Ăš proprio quello il punto: Ăš lâopposto della visione di Falcone e Borsellino. Loro hanno pagato con la vita il fatto di aver indagato nella profonditĂ della mafia e toccare quegli interessi convergenti con il mondo imprenditoriale che conta, e di riflesso la politica. Borsellino, in una intervista reperibile su raiplay, quando era procuratore a Marsala e indagava sugli appalti locali affermĂČ: «Da tempo Ăš chiaro che Ăš la mafia a servirsi dei politici, non viceversa». E ciĂČ fa il paio con la visione di Falcone cristallizzata nei suoi libri e ordinanze. Ma a chi interessa? IL DUBBIO Damiano Aliprandi
Mori e De Donno, ostacoli a inchiesta Ros su mafia e appalti
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âL’inchiesta del Ros su mafia e appalti, che aveva avviato un nuovo metodo investigativo, all’inizio degli anni Novanta subĂŹ ostacoli anche nell’ambito della magistratura palermitana.
Davanti alla Commissione parlamentare antimafia l’ex comandante del Ros, Mario Mori, e il suo braccio destro Giuseppe De Donno hanno riproposto una linea critica giĂ tracciata durante l’audizione del 16 aprile che oggi Ăš proseguita con qualche approccio polemico.
La tesi di fondo sostenuta da Mori e De Donno accredita l’idea che il dossier su mafia e appalti, su cui nel 1992 aveva rivolto il suo interesse Paolo Borsellino, sia il principale movente dell’attentato di via d’Amelio. Oggi Mori ha alzato il tono della sua audizione sostenendo che quel dossier Ăš stato fortemente ostacolato in quella fase dalla Procura guidata da Pietro Giammanco: non avrebbe voluto valorizzare il collegamento tra gli appalti e il sistema politico. “Si perdeva cosĂŹ di vista – ha osservato Mori – un’attivitĂ investigativa che allargava lo sguardo e avrebbe potuto ottenere altri risultati”. Mori ha lamentato che altri freni venivano dalla politica e dal “tombale silenzio” calato su un’indagine sottoposta a un’operazione di “smembramento” tra gli uffici giudiziari di Palermo, Catania e Caltanissetta. L’obiettivo sarebbe stato quello di evitare l’estensione dell’attivitĂ investigativa per la quale lo stesso Giovanni Falcone pensava a una interconnessione con l’indagine milanese di Mani pulite.
   Gli interventi di Mori e De Donno, che hanno seguito le tracce del loro libro “L’altra veritĂ ”, hanno suscitato varie domande e interventi polemici tra esponenti della maggioranza di centrodestra, che hanno sostenuto la tesi dei due ufficiali, e quella dell’opposizione, M5S e Pd..   ANSA 13.5.2025
13.5.2025 Mori e De Donno: âOstacoli allâinchiesta su mafia e appaltiâ
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Toni polemici durante lâaudizione in Commissione parlamentare antimafia. Lâex comandante del Ros, Mario Mori, e il suo braccio destro Giuseppe De Donno sono tornati a parlare dellâinchiesta del Ros su mafia e appalti, unâindagine che, secondo la loro ricostruzione, avrebbe subito ostacoli significativi anche allâinterno della magistratura palermitana allâinizio degli anni Novanta.
Davanti alla Commissione, Mori e De Donno hanno riproposto la linea critica giĂ espressa durante lâaudizione del 16 aprile, con qualche passaggio dai toni accesi. La tesi centrale sostenuta dai due ex ufficiali accredita lâidea che il dossier su mafia e appalti, sul quale nel 1992 aveva concentrato il suo interesse Paolo Borsellino, rappresenti il principale movente dellâattentato di via dâAmelio.
Mori accusa la procura di Giammanco
Oggi, Mori ha alzato il tono della sua audizione, sostenendo con forza che quel dossier fu fortemente ostacolato in quella fase dalla Procura di Palermo, allora guidata da Pietro Giammanco. Secondo Mori, lâallora procuratore non avrebbe voluto dare il giusto peso al collegamento tra gli appalti e il sistema politico. âSi perdeva cosĂŹ di vista â ha osservato Mori â unâattivitĂ investigativa che allargava lo sguardo e avrebbe potuto ottenere altri risultatiâ.
Mori ha inoltre lamentato ulteriori âfreniâ provenienti dalla politica e un âtombale silenzioâ calato su unâindagine che sarebbe stata oggetto di una vera e propria operazione di âsmembramentoâ tra gli uffici giudiziari di Palermo, Catania e Caltanissetta.
Lâobiettivo, secondo la sua prospettiva, sarebbe stato quello di evitare lâestensione dellâattivitĂ investigativa, per la quale lo stesso Giovanni Falcone ipotizzava una interconnessione con lâindagine milanese di Mani pulite.
Il dibattito in Commissione
Gli interventi di Mori e De Donno, che hanno seguito le tracce del loro libro âLâaltra veritĂ â, hanno suscitato diverse reazioni tra i membri della Commissione. Gianluca Cantalamessa (Lega) ha osservato che i due ufficiali, giĂ assolti in tre procedimenti tra cui quello sulla cosiddetta âtrattativaâ, meriterebbero ârispetto e risarcimentoâ.
Di contro, Luigi Nave (M5s) ha accusato Mori e De Donno di aver raccontato âinesattezze e falsitĂ â e di aver colto âmistificazioni in alcune affermazioniâ. Nave ha chiesto di discutere i punti sollevati in un documento di 86 pagine presentato dai consiglieri del M5s, ma la presidente Chiara Colosimo ha replicato che il dossier Ăš stato presentato allâultimo momento e non câĂš stato il tempo di valutarne il contenuto.
Un ulteriore momento di tensione si Ăš verificato tra la presidente Colosimo e il consigliere del Pd Giuseppe Provenzano. La discussione Ăš stata innescata dalle domande poste in precedenza da Walter Verini (Pd) e poi da Provenzano, che hanno chiesto a Mori se, oltre al filone mafia e appalti, dal suo osservatorio non avesse valutato quanto accadeva in quel periodo con le stragi del 1992, gli attentati del 1993 e i delitti che lanciavano un feroce attacco allo Stato. Mori ha risposto che, in quanto investigatore âoperativoâ, poteva parlare delle indagini e non del âcontesto politicoâ in cui quei fatti si collocavano.
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13.5.2025 Borsellino e il dossier mafia-appalti, Mori e De Donno: «Fu ostacolato»
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Toni polemici durante lâaudizione in Commissione antimafia
Lâinchiesta del Ros su mafia e appalti, che aveva avviato un nuovo metodo investigativo, allâinizio degli anni Novanta subĂŹ ostacoli anche nellâambito della magistratura palermitana. Davanti alla Commissione parlamentare antimafia lâex comandante del Ros, Mario Mori, e il suo braccio destro Giuseppe De Donno hanno riproposto una linea critica giĂ tracciata durante lâaudizione del 16 aprile che oggi Ăš proseguita con qualche approccio polemico.
La tesi di fondo sostenuta da Mori e De Donno accredita lâidea che il dossier su mafia e appalti, su cui nel 1992 aveva rivolto il suo interesse Paolo Borsellino, sia il principale movente dellâattentato di via dâAmelio.
Oggi Mori ha alzato il tono della sua audizione sostenendo che quel dossier Ăš stato fortemente ostacolato in quella fase dalla Procura guidata da Pietro Giammanco: non avrebbe voluto valorizzare il collegamento tra gli appalti e il sistema politico. «Si perdeva cosĂŹ di vista – ha osservato Mori – unâattivitĂ investigativa che allargava lo sguardo e avrebbe potuto ottenere altri risultati».
Mori ha lamentato che altri freni venivano dalla politica e dal «tombale silenzio» calato su unâindagine sottoposta a unâoperazione di âsmembramento» tra gli uffici giudiziari di Palermo, Catania e Caltanissetta. Lâobiettivo sarebbe stato quello di evitare lâestensione dellâattivitĂ investigativa per la quale lo stesso Giovanni Falcone pensava a una interconnessione con lâindagine milanese di Mani pulite.
Gli interventi di Mori e De Donno, che hanno seguito le tracce del loro libro «Lâaltra verità », hanno suscitato varie domande. Mentre Gianluca Cantalamessa (Lega) ha osservato che i due ufficiali giĂ assolti in tre procedimenti tra cui quello sulla cosiddetta «trattativa» meriterebbero «rispetto e risarcimento», Luigi La Nave (M5s) ha accusato Mori e De Donno di avere raccontato «inesattezze e falsità » e di avere colto âmistificazioni in alcune affermazioni». La Nave ha chiesto di discutere i punti sollevati in un documento di 86 pagine presentato dai consiglieri del M5s. Ma la presidente Chiara Colosimo ha replicato che il dossier Ăš stato presentato allâultimo momento e quindi non câĂš stato il tempo di valutarne il contenuto. Lâultimo momento polemico, che ha contrapposto la presidente e il consigliere del Pd Giuseppe Provenzano, Ăš stato innescato dalle domande poste prima da Walter Verini (Pd) e poi da Provenzano che hanno chiesto a Mori se, oltre al filone di mafia e appalti, dal suo osservatorio non avesse valutato quello che accadeva a quel tempo con le stragi del 1992, gli attentati del 1993 e i delitti che lanciavano un feroce attacco allo Stato. Mori ha risposto che, come investigatore «operativo», poteva parlare delle indagini e non del «contesto politico» in cui quei fatti si collocavano. GIORNALE DI SICILIA
13.5.2025Antimafia, Movimento 5 Stelle: “Da Mori e De Donno gravi bugie che allontanano la veritĂ sulle stragi del ’92 e ’93”
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Le dichiarazioni dei componenti pentastellati della commissione parlamentare Stefania Ascari, Anna Bilotti, Federico Cafiero de Raho, Michele Gubitosa, Luigi Nave e Roberto Scarpinato

“La memoria depositata da Mario Mori in commissione Antimafia e le dichiarazioni rilasciate in audizione da lui e da Giuseppe De Donno, nellâambito del lavoro di indagine sulla Strage di via DâAmelio, contengono una serie di falsitĂ e di distorsioni della realtĂ che lasciano sgomenti per la loro gravitĂ e per il loro numero”. Lo affermano i componenti M5S della commissione parlamentare Antimafia Stefania Ascari, Anna Bilotti, Federico Cafiero de Raho, Michele Gubitosa, Luigi Nave e Roberto Scarpinato.
“Dopo la prima seduta che li ha visti come auditi, abbiamo fatto una rigorosa verifica documentale e abbiamo raccolto tutto in una relazione depositata oggi in commissione Antimafia – dicono ancora i componenti -. Abbiamo constatato con sconcerto che i due hanno compiuto una totale riscrittura non solo della storia processuale delle stragi, ma anche della storia del Paese, tentando di carpire la buona fede di chi non conosce le complesse vicende in questione. Questa circostanza Ăš particolarmente grave perchĂ© cosĂŹ facendo i due aumentano, anzichĂ© diminuire, la coltre di fumo che ancora oggi aleggia sull’attentato di via D’Amelio e sulle altre stragi del 1992-93”.
“Solo per fare pochissimi esempi – aggiungono – abbiamo verificato che Mori e De Donno hanno citato una frase che sarebbe contenuta nel cosiddetto diario di Falcone, ma che in realtĂ in quel diario non esiste affatto! Hanno riportato nella commissione Antimafia una frase che non Ăš mai esistita negli scritti di Falcone! Sempre sul diario di Falcone, Mori e De Donno hanno affermato una cosa opposta rispetto a quello che lo stesso De Donno disse davanti ai magistrati nel 1993. In un assurdo conrtocircuito di falsitĂ e contraddizioni, Mori e De Donno arrivano persino a rivolgere a Falcone l’accusa di avere insabbiato le indagini sui politici nel procedimento mafia-appalti. Si resta basiti dinanzi a simili insinuazioni che non meriterebbero alcun commento. Le informazioni del tutto infondate riportate dai due sono tante altre e tutte gravi, si va dalla bugia secondo cui Borsellino non fosse stato informato dai colleghi sull’archiviazione parziale e temporanea di un filone dell’indagine mafia-appalti, poi riaperto una volta raccolti nuovi elementi, alla falsitĂ sul contenuto delle rivelazioni del pentito Gaspare Mutolo”. “Nel frattempo, in Commissione da due anni qualsiasi iniziativa del M5S viene bloccata. CosĂŹ la commissione Antimafia sta percorrendo strade del tutto depistanti e sta gettando alle ortiche l’ennesima occasione per scoprire tutte le veritĂ sulle stragi del 1992-93”, concludono i pentastellati. PALERMO TODAY
Antimafia, Forza Italia dopo l’audizione di Mori e De Donno: âNomi precisi e vicende inquietanti, andremo fino in fondoâ
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Questa mattina, presso l’aula del V piano di Palazzo San Macuto, la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, ha svolto il seguito dell’audizione di Mario Mori, generale dell’Arma dei Carabinieri in congedo, e di Giuseppe De Donno, colonnello dell’Arma dei Carabinieri in congedo, nell’ambito del filone di inchiesta sulla strage di via DâAmelio.  Dopo lâappuntamento Ăš arrivata la nota congiunta del Capogruppo al Senato di Forza Italia, Maurizio Gasparri, membro della Commissione Antimafia, il Vicepresidente della Commissione Antimafia di Forza Italia, Mauro DâAttis, il Capogruppo in Commissione Antimafia di Forza Italia, Pietro Pittalis ed i membri Pierantonio Zanettin, Giuseppe Castiglione e Chiara Tenerini: âVogliamo ringraziare il generale Mori e il colonnello De Donno per la loro audizione in Commissione antimafia. Dove rispondendo alle domande e facendo ulteriori richiami allo storico documento che avevano giĂ illustrato e depositato hanno fatto con coraggio espliciti riferimenti e persone e vicende, sulle quali la commissione si dovrĂ pronunciare con chiarezza. Mori e De Donno, assolti dopo una autentica e lunga persecuzione, hanno fatto nomi e illustrato vicende inquietanti. Hanno fatto nomi precisi. Da Giammanco a Lo Forte, da Pignatone a Leoluca Orlando. Hanno ribadito la veritĂ sulla torbida vicenda dellâarchiviazione dellâinchiesta Mafia-appalti, causa di stragi di mafia. Hanno con coraggio reso un ulteriore servizio alla Repubblica. Sono stati vani i tentativi minoritari e infondati di rallentare lâattivitĂ dellâantimafia. Andremo fino in fondo, affinchĂ© la veritĂ si affermi su menzogne e manovre politico-giudiziarie i cui promotori sono emersi con chiarezza. Anche con manovrette fallite dellâultimo secondo che non ci ostacolerannoâ. IL TEMPO
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La strage di via D’Amelio, De Donno: «Nell’ufficio di Borsellino carte su mafia e appalti»
«Dal verbale di sequestro del materiale acquisito nellâufficio del dottor Borsellino dopo la morte risulta che la maggior parte riguardava indagini su appalti e personaggi che si ritrovano nella nostra annotazione di febbraio». Lo ha detto Giuseppe De Donno, colonnello dellâArma dei carabinieri in congedo, durante unâaudizione davanti alla Commissione dâinchiesta sul fenomeno delle mafie e
sulle altre associazioni criminali nellâambito del filone di inchiesta sulla strage di via DâAmelio. Nel suo intervento ha ripercorso le tappe dellâattivitĂ svolta al Ros. «Il 20 febbraio 1991 consegnai al dottor Falcone, quale procuratore aggiunto di Palermo, unâannotazione a firma del colonnello Mario Mori conosciuta poi come “Mafia e Appalti”, composta da 877 pagine, 483 allegati e 44 schede relative a persone coinvolte nelle indagini – ha spiegato -. Il documento costituiva il compendio di tutta lâattivitĂ investigativa eseguita su questo settore fino a quel momento. In precedenza, poichĂ© piĂč volte siamo stati accusati di aver omesso nellâinformativa di febbraio ’91 tutta la parte politica che ne era venuta fuori, nel quadro di queste indagini avevo consegnato al dottor Falcone, a Guido Loforte e Giuseppe Pignatone, una serie di annotazioni preliminari, due delle quali il 2 luglio e il 5 agosto del 90, in cui si delineavano i rapporti relativi a responsabilitĂ di personaggi politici nazionali e regionali in merito. Chiedevamo di poter svolgere approfondimenti ed Ăš il motivo per cui nel documento non erano citati parti politiche. Non ricevemmo mai una delega da parte della procura di Palermo». GdS 16.5.2924
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Processo Trattativa, famiglia Borsellino: “Ora concentrarsi sul nido di vipere…”
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Il Rapporto âMafia&Appaltiâ e lâeliminazione del dottor Paolo Borsellino
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