Dalla messa, alla «lectio» su San Pietro dedicata a Falcone, fino alla coscienza di mettere a rischio la vita Nel libro di Ceruso un’angolatura meno battuta del magistrato ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992: la fede
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo stralci dall’introduzione di Paolo Borsellino. La toga, la fede, il coraggio (Edizioni San Paolo, 141 pagine, 14 euro), dello studioso Vincenzo Ceruso. L’opera, in questi giorni in libreria, ricostruisce la parte finale della vita del magistrato massacrato meno di due mesi dopo la morte dell’amico Giovanni Falcone. E sottolinea con originale intensità un tratto meno noto della toga antimafia: quello della fede. Per quanto ovviamente il suo essere cristiano non sia stato «tecnicamente» uno dei motivi dell’eccidio di via D’amelio, il libro spiega come – viceversa – la fede di Borsellino sia stata una dimensione essenziale del suo impegno professionale e della sua missione non solo istituzionale. Particolare significato riveste da questo punto di vista l’ultima confessione, resa a un sacerdote all’immediata vigilia di un attentato cui era drammaticamente preparato.
di VINCENZO CERUSO
Nell’estate del 1992 Paolo Borsellino sceglie di non abbandonare il lavoro che porta avanti, nonostante gli sia ormai chiaro il pericolo che corre. La paura avrebbe potuto paralizzarlo (o farlo fuggire dalla Sicilia, come gli viene da più parti consigliato), ma rimane al suo posto per lasciare un’eredità di acquisizioni e avviare processi di indagine che qualcuno avrebbe potuto raccogliere dopo di lui. Il rispetto per la toga che indossa e la fede sono i due polmoni con cui respira la sua esistenza. Questa vicenda può essere letta anche come una storia cristiana?
[…] Alla vigilia dell’attentato, compie un’azione che non abbiamo ancora compreso pienamente nel suo valore spirituale: chiede di confessarsi perché si prepara alla morte. «È arrivato l’esplosivo per me dalla Jugoslavia», sono le parole che rivolge all’amico sacerdote, prima di cercare rifugio alle sue angosce nel segreto del sacramento. Il giudice è pienamente consapevole della fine imminente
Chiese il sacramento della riconciliazione a padre Rattoballi Alla scorta confidò: «È già arrivato l’esplosivo per me Devo morire, e mi dispiace per voi»
che lo attende, ma non è disposto ad anteporre la difesa della propria vita ai valori in cui crede. Oltre trent’anni dopo Capaci e via D’amelio, c’è ancora qualcosa che non abbiamo compreso su quegli anni tragici, ma non si tratta solo di domande e misteri che rimandano a una sfera processuale. C’è una dimensione che riguarda l’interiorità di coloro che hanno combattuto la buona battaglia e che possiamo provare a intravedere mettendo insieme tessere e frammenti sparsi, senza la pretesa di esaurire una difficile ricerca.
[…] Se guardiamo alla vera e propria via crucis percorsa da Paolo Borsellino tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992, emerge con nitidezza, insieme alla grande passione civile, la maturità di una fede che lo sostiene nel momento più difficile della sua esistenza. Borsellino sa che la cospirazione contro di lui è ormai prossima a chiudersi, tanto che dice a uno dei suoi uomini di scorta: «Sono preoccupato e dispiaciuto per voi. So che debbo morire e mi dispiace per voi. So che è già arrivato l’esplosivo qua a Palermo». La confessione che richiede a padre Cesare Rattoballi, alla vigilia della morte, è il sigillo a un’esistenza spesa al servizio del bene comune, che non si esprimeva solo nell’esercizio della giurisdizione. Significativo era il suo rapporto sia con i mafiosi detenuti che con i testimoni, come Rita Atria e Piera Aiello, con cui riusciva a instaurare una relazione umana che rappresentava la prima alternativa alla dipendenza dal mondo tribale di Cosa nostra. Si spiega anche così perché riesca ad avere le rivelazioni di un incredibile numero di collaboratori di giustizia, «nella cura dei quali poneva non solo il suo impegno professionale ma un particolare calore umano».
Il 28 maggio 1992 Borsellino […] ricorda il suo lavoro precedente nel trapanese, dove vi era stata una grossa fioritura di collaborazioni, e poi parla di Agrigento, dell’importanza del fenomeno del pentitismo. Fa presente che nel territorio agrigentino fino a poco tempo prima, praticamente non vi erano stati pentiti: «Era voce comune, accettata da tutti, che non si fosse mai presentata una collaborazione degna di questo nome. Sono state cercate in questi pochi mesi in cui mi occupo di questa provincia. Le collaborazioni sono state cercate e sono state trovate. Sono piccole collaborazioni, ma vanno incoraggiate. Si aprono queste possibilità di indagine, che non sono le uniche, ma sono le più importanti, perché ci permettono di vedere dal di dentro l’organizzazione».
[…] Tante testimonianze, a cominciare dai suoi familiari più stretti, ci dicono che egli attinge dalla propria spiritualità l’energia per resistere al male: «La grande fede che aveva gli ha consentito di essere lucido e di portare «fino in fondo la sua missione». Si tratta di una religiosità semplice, non devozionale e non esibita, che si nutre di alcuni elementi profondi ed essenziali. Ricorda la figlia minore Fiammetta: «Con la religione ha un rapporto interiore molto intenso». L’amore per le Scritture e la familiarità con esse traspare dallo splendido discorso che il magistrato tiene per il trigesimo di Giovanni Falcone, di fatto una lectio divina a partire dalla prima lettera di Pietro. Non manca nelle sue giornate la dimensione della preghiera, che si alimenta di un semplice libretto di orazioni. Rita Borsellino racconta che il fratello iniziava le sue giornate con un salmo e le terminava con un salmo. Ho ricordato la confessione a cui egli chiede di accedere poco prima di essere ucciso, ma a cui ricorre ogni volta che può. Un altro asse fondamentale della sua esistenza è la mensa eucaristica, a cui partecipa tutte le domeniche. Uno dei progetti omicidiari nei suoi confronti si basava proprio sulla sua pratica abituale di recarsi a messa, di cui gli assassini erano a conoscenza e per cui si appostavano nei pressi della sua abitazione. Questa fede è la cifra di un cristiano italiano del Novecento.
Tra gli ultimi a raccogliere le angosce di Borsellino c’è Antonino Caponnetto: «Mi ritrovo più o meno nella stessa situazione in cui si trovava Giovanni». Il magistrato manifesta al suo vecchio superiore l’amarezza nel ritrovarsi nella stessa situazione di isolamento e delegittimazione che aveva vissuto Falcone, di fatto costretto a trasferirsi a Roma.
Caponnetto ne parla in un suo libro pubblicato immediatamente dopo le stragi del ’92. In questo testamento morale, il padre del pool antimafia descrive quello che durante gli anni Ottanta veniva definito «il Palazzo dei veleni» e per farlo ricorre a una citazione della vedova del procuratore
Gaetano Costa: «La signora
Rita Costa […] ha parlato spesso di tre grandi aree: i magistrati che si dedicano con passione alle grandi inchieste antimafia; quelli che non emergeranno mai dal limbo dell’inefficienza, che hanno sempre una ragione in più per rinunciare a indagare, una grande e influente zona grigia; e infine quelli che stanno dall’altra parte».
[…] Borsellino è solo nella notte della passione. Pochissimi sono gli amici che lo seguono, e mentre cresce la sua autorevolezza presso l’opinione pubblica nazionale aumenta la distanza che lo separa dai vertici della Procura di Palermo. Confida alla moglie Agnese: «Sono delegittimato». Egli non cerca alcuna forma d’immolazione e non c’è nessuna mistica del sacrificio nei suoi comportamenti, come spiega la figlia Lucia: «Mio padre non è stata
La sua preghiera si alimentava di un semplice libretto di orazioni La sorella racconta che iniziava e finiva le sue giornate con un salmo
una persona votata a essere martire. Ci ha sempre detto grazie per avergli consentito le sue scelte». Il giudice, semplicemente, rifiuta la fuga come alternativa alla morte e sceglie di lottare, a mani nude, fino all’ultimo momento.
La confessione che richiede all’amico sacerdote poco prima di morire non è un gesto disperato: è l’ultima azione con cui egli trasmette la forza di cui si nutre un cristiano di fronte al pericolo. La comprensione della dimensione interiore del giudice cresce parallelamente alla ricerca di una verità giudiziaria.